Premio Racconti nella Rete 2013 “Pavel” di Simone Giusti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013La luce a incandescenza tremolava nella stanza di Pavel. Lui era steso sulla panca e si stava allenando al bilanciere quando sentì un lieve fastidio tra le scapole, come qualcosa che lo pungeva. Poggiò il bilanciere sui sostegni e si alzò in piedi, poi torse le braccia per arrivare a toccarsi dietro, un po’ impacciato per via dei muscoli sviluppati. Con l’unghia del pollice sentì un rigonfiamento grande come una capocchia di spillo, bastava che lo sfiorasse che pungeva, pungeva nel profondo, come scosse elettriche. Pavel pensò che fosse un brufolo, in passato gli era capito di averne alcuni con la radice così profonda che andava a toccare i nervi e gli davano brividi al corpo intero, fino al cervello.
Quella sera Pavel rimase nella sua stanza. Di solito usciva coi compagni di turno, una birra allo spaccio, due chiacchiere alla luce verde della sala svago, ma quella sera no. Si chiuse nel suo piccolo loculo, si rannicchiò nel letto e alla luce di una lampada a gas passò l’indice sulle copertine consunte dei libri che teneva allineati nell’incavo del muro, poi scelse quello che parlava delle stringhe dimensionali, degli universi paralleli, dei buchi di tarlo e di altre teorie della fisica non tradizionale. Pavel non aveva studiato, però ci capiva in quelle cose. Se avesse avuto l’opportunità avrebbe fatto il fisico, il fisico teorico che studia l’infinito e l’irrazionale. Si addormentò sul suo libro, e dormì male.
Al mattino si svegliò grattandosi con foga la schiena. Sotto le dita il brufolo si era fatto più grande ed era diventato grosso come un bottone. Pavel digrignò i denti provando a spremerlo con le dita, a stringerlo, a cavarlo fuori, ma fu uno sforzo inutile, si faceva solo male. Mancava un’ora al suo turno di lavoro, e allora andò nel piccolo bagno, accese la lampadina a incandescenza che penzolava sopra il lavandino e si contorse per guardarsi la schiena alla specchio, sebbene i muscoli gli impedissero torsioni complete. Le mense della miniera somministravano razioni iperproteiche per rendere i lavoratori più forti e resistenti, ed era facile là sotto sviluppare una potente muscolatura. Al centro della schiena, Pavel notò qualcosa di strano, era come un piccolo cratere, ma vuoto e nero. Provò ancora a spremerlo, puntò il piede sulla tazza del cesso e si torse così tanto da farsi scricchiolare la spina dorsale mentre con le mani premeva e strizzava, poi iniziò a graffiarlo con le unghie perché prudeva, prudeva tantissimo, avrebbe voluto infilarci dentro la punta di un cacciavite e grattarlo fino in fondo, fino a farlo sanguinare. Ma si era fatto tardi, la luce rossa sopra la porta gli ricordava che mancavano quindici minuti all’inizio del turno di lavoro, e Pavel doveva andare. Indossò la tuta blu e scese in miniera.
Per buona parte della mattina Pavel si dimenticò di quella noia, il lavoro duro lo assorbiva, solo durante la pausa pranzo, mentre stava rannicchiato nel carbone e alla luce gialla della lanterna rimestava nella sua garitta, Pavel ricominciò a dar peso a quel fastidio, e trovò un gran sollievo a strofinare la schiena sui contrafforti che tenevano su la galleria. Quando riprese il lavoro col piccone, se ne dimenticò. Solo alla sera, quando entrò nella piccola doccia del suo bagnetto e tirò la catenella per far scendere l’acqua, Pavel si accorse che quel brufolo che la sera prima era stato grande come una capocchia di spillo e al mattino quanto un bottone, adesso si era fatto grande quanto il palmo della mano. La sua mano insaponata quasi ci sparì dentro mentre si lavava, e Pavel si spaventò come un bambino.
Si asciugò in fretta, si infilò mutande e canottiera, poi prese i pantaloni dal suo armadietto e si decise ad andare dal medico della compagnia mineraria. Pavel era un umo duro, non aveva mai fatto un giorno di malattia e il medico quasi non lo conosceva, ma il prurito si era risvegliato e quella cosa adesso lo rodeva, sì, gli rodeva la schiena, sentiva scavare dentro, graffiare, come tanti topi affamati che gli rosicchiavano le carni, e scavavano, rodevano, graffiavano in profondità, come scavavano e graffiavano gli uomini di quella miniera. E poi quel buco si allargava, si allargava sempre di più, non si fermava.
Pavel sgusciò fuori dal suo loculo come una furia e corse giù per il corridoio nella luce rossa a intermittenza. Spinse via i compagni di turno che incrociò per strada e tutti quelli che cercarono di fermalo, poi smanacciò la tenda dell’infermeria entrandoci con tal foga che inciampò sulla soglia e cadde per terra. Pavel aveva la schiuma alla bocca, quella cosa lo divorava. Si alzò in piedi sotto gli occhi sbigottiti del medico che iniettava antibiotici a un minatore seduto sul lettino, poi si strappò la canottiera e gli mostrò la schiena. Pavel non sapeva quanto quella voragine si fosse allargata, ma dalla faccia che fece il medico capì che era qualcosa di grave. Si torse per cercare di guardarsi allo specchio appeso al muro, poi lo frantumò con un pugno in uno scatto d’ira, quindi ne prese un pezzo, si aggrappò ai fianchi contorcendosi fin quasi a rompersi le ossa e finalmente riuscì a specchiarsi la schiena. I bordi della voragine era rialzati come quelli di un vulcano in eruzione, la caldera era profonda e buia, senza fondo, come uno di quei pozzi d’areazione che ci guardi dentro e non vedi dove vanno a finire. Pavel sgranò gli occhi. Quella cosa cresceva a dismisura.
Lo specchio gli cadde dalle mani mentre quella cosa sbucava dai fianchi lambendogli le dita. Pavel lasciò la presa mentre le carni dell’addome si rigiravano dentro e sparivano nel nero come gli argini di un fiume divorati dalla piena. Le gambe si accartocciarono nella voragine come pagine di giornale consumate dal fuoco, poi sparì tutta la schiena. Rimasero fuori solo la testa e le punte delle dita aggrappate al pavimento, poi la voragine salì ancora e lo inghiottì.
L’abisso non si fermò e si allargò ancora. Agguantò il medico per le gambe mentre cercava di fuggire e lo trascinò dentro divorando lui e le sue grida, poi prese il minatore sul lettino e prese l’infermeria intera, e poi si allargò di più, come un abisso infinito. I minatori scappavano per i corridoi come formiche impazzite, come quelle formiche impazzite su cui Pavel aveva riso da bambino mentre gli spruzzava addosso l’alcol e le incendiava. Ogni uomo cercò la salvezza scappando, rintanandosi, pregando, ma la cosa si allargò così tanto da ingioiarli tutti, da ingoiare tutta la miniera. E si allargò ancora e divorò tutta la regione, tutta la nazione, tutto il continente, e alla fine divorò il mondo intero. E continuò a vorticare come se volesse divorare ancora.
In una dimensione parallela, Pavel aveva studiato, era diventato un fisico teorico e aveva vinto il premio Nobel. Aveva scoperto come creare un buco nero.
molto intrigante, mi ricorda il tono surreale di alcuni racconti di Dino Buzzati. Complimenti.
Scritto molto bene e originale! E per rispondere al tuo commento sul mio racconto speriamo che Michele sia finito divorato anche lui 🙂
Mi è piaciuto. Molto. E poi mi chiamavano Pavel…