Premio Racconti nella Rete 2013 “Impotenza” di Natalia Lenzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Maria era felice.
La primavera esplodeva: profumi e odori inondavano il parco colmo di gente. C’era voglia di sole, di tepore. C’era voglia di maniche corte e scarpe da ginnastica. C’era voglia di passeggiate assolate e chiacchiere sciocche. C’era il profumo delle rose. Rose rosse, freschissime, anche quel giorno di primavera. Consegnate quella mattina dal fioraio a casa. La terza volta in una sola settimana.
Maria era felice.
Le piaceva essere corteggiata. All’inizio pensava che non sarebbe durata, che lui si sarebbe presto stancato di tutte quelle attenzioni. Invece, non era accaduto. Lui non si era stancato. Lui continuava ad avere per lei sempre una parola gentile, un biglietto, un piccolo regalo. E quelle rose. E ciò che più la sorprendeva, era che sembrava sempre sapere quando quell’attenzione che le rivolgeva le fosse più necessaria. La aspettava alla fermata dell’autobus per accompagnarla al lavoro proprio quando aveva la macchina dal meccanico. Le portava un ombrello fin sotto casa quando pioveva forte, sapendo che lei dimenticava sempre il suo dappertutto. E poi, quelle rose. Mazzi di rose rosse ad ogni occasione. In ricordo del loro primo incontro, del loro primo bacio, della loro prima romantica cena, della prima volta che lui l’aveva vista da lontano. Era appassionato e romantico.
Maria era felice.
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Anna sorrise con una certa tristezza e strascicando appena la gamba si accomodò a sedere su di una panchina, all’ombra di un vecchio albero con lunghe fronde gremite di grandi foglie verdi. Era davvero una bella giornata di sole e, il giardino, ancora affollato, risuonava di rumori e profumava di fiori. Piegò con cura il giornale che teneva in mano, l’edizione locale del quotidiano che comprava ogni giorno, e lo appoggiò accanto a sé. Chiuse gli occhi per un istante e assaporò l’aria densa di fragranze diverse. Con una mano sfiorò il giornale e ripensò a se stessa, a quasi dieci anni addietro. Si rivide giovane, allegra e spensierata, forte di una famiglia salda e generosa d’affetto, di un lavoro che la gratificava e di un paio di storie importanti alle spalle che, seppur non l’avevano condotta all’altare, le avevano almeno insegnato a conoscere gli uomini. Aveva imparato che cosa chiedere e che cosa offrire. Così, credeva. Perché niente l’avrebbe preparata all’incontro con l’uomo che le avrebbe cambiato la vita per sempre. Adesso lo sapeva, dieci anni dopo. Aveva superato i sensi di colpa e aveva imparato a convivere con certi ricordi più duri di altri. Ma dieci anni prima era una donna diversa ed era certa che anche quella ragazza, la ragazza dell’articolo che aveva appena finito di leggere, avesse solo immaginato un amore importante. Un amore che forse avrebbe anche potuto spezzarle il cuore o, forse, renderla la donna più felice al mondo. Ma certo non aveva pensato di andare incontro al suo carnefice, accecata da quanto di buono c’era in tutto ciò che lui le mostrava di sé. Proprio come anche Anna aveva fatto.
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Maria iniziò a comprendere in quale prigione fosse finita a poco a poco, cercando di scacciare quei pensieri maligni che insidiavano la sua felicità.
Il giorno che, per la prima volta, lui le parlò del loro futuro insieme immaginandoli felicemente sposati e che per questo lei avrebbe dovuto lasciare il suo lavoro, lei vacillò appena nel suo amore. Il giorno che lui, per la prima volta, le spiegò quanto fosse necessario per lui poter controllare il suo cellulare, per il suo bene, Maria si stupì, imponendosi di non dare troppa importanza a quel gesto, in fondo, quasi protettivo.
Il giorno che lui, per la prima volta, si presentò all’uscita dal lavoro, quel lavoro che lei non aveva ancora lasciato, perché da sola, di sera, era pericoloso, Maria non riuscì più a tacitare quei pensieri insidiosi.
Eppure, le rose e i biglietti di parole dolci, continuavano ad arrivare, ma lei cominciava a guardarli con altri occhi.
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Anna pensava che, a volte, ci sono dei segni. Non sempre è un temporale che scoppia all’improvviso in un cielo sereno. A volte ci sono tuoni e fulmini ad annunciare una pioggia torrenziale. Lei, quei segni, li aveva avuti. Era stata fortunata, eppure non aveva saputo riconoscerli; non subito, almeno.
Seduta, nel tepore primaverile, ripensava al suo uomo, al modo che aveva di guardarla, alle sue belle mani, al suo sorriso aperto. Le era parso perfetto. Un uomo d’altri tempi. Quello era un segno. Era talmente perfetto, che a volte non sembrava neppure vero. Ma quel suo modo di essere sempre disponibile, di avere modi garbati, di vestirsi con cura, non sarebbe mai potuto apparire un difetto, un problema. Eppure, era un segno. Come quel suo essere presente, troppo presente; davanti casa, fuori del lavoro, persino al supermercato. Anche quello era un segno. Ma Anna non poteva che pensare di lui tutto il meglio possibile, perché lui, il suo uomo, era capace persino di anticipare i suoi stessi pensieri, di darle quello che lei ancora non aveva chiesto. Non avrebbe mai pensato che fosse tutto frutto di un calcolo.
Si sfiorò la gamba offesa e tornò a pensare a quella ragazza e all’inferno in cui si era ritrovata a vivere.
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Maria decise allora che avrebbe dovuto parlargli. Per il loro bene; per il loro futuro insieme. Gli parlò con dolcezza, cercando le giuste parole temendo di offenderlo, ancora convinta che quel suo atteggiamento fosse solo un eccesso di premura nei suoi confronti, fosse, persino un eccesso d’amore; convinta che lui potesse comprendere facilmente il suo disagio e cambiare, cambiare per lei, che diceva di amare tantissimo. Era solo un’incomprensione, una cosa da niente.
Maria si arrabbiò dinanzi a quello che le parve ottusità. Come poteva non capire che lui rischiava di soffocarla? Come poteva non capire che era ingiusto cercare di controllare ogni movimento della sua giornata? Come poteva non capire che era assurdo telefonare alle sue amiche, ordinando loro di starle lontano, toglierle il cellulare, controllare il contachilometri della sua auto per immaginare i suoi spostamenti? Come poteva non capire, lui, che diceva di amarla come mai aveva amato prima di lei. Come poteva.
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Anna sorrise ad un bimbo che rincorreva la sua palla, doveva essere la sua prima giornata di sole dell’anno; pallido e felice.
Aveva ventisei anni, quando lui entrò nella sua vita quasi in punta dei piedi e ne aveva trenta, quando lui ne uscì, in modo tragico e definitivo. Quattro anni che si portava ancora addosso, come un macigno.
Lui l’aveva cercata e scelta. L’aveva scelta tra chissà quante altre. L’aveva voluta per la sua allegria, per la sua fiducia nel mondo, per la luce che le brillava negli occhi, per spengere tutto quanto. L’aveva cancellata, trasformandola nell’ombra di se stessa. Anna lo aveva lasciato, una, due volte, ma lui ritornava sempre. La cercava, la pregava, la minacciava. Piangeva.
Anna chiuse e aprì più volte la mano, in quel giorno di sole non sentiva troppo male, le cicatrici si facevano sentire solo con la pioggia e l’umidità.
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Maria soffriva. Voleva lasciarlo ma si rimproverava di non aver chiarito tutto subito, di aver aspettato troppo, di avergli lasciato credere che quel suo modo di fare la lusingava.
Maria non voleva arrendersi alla prima difficoltà. Voleva costruire un rapporto stabile, duraturo, maturo, e non poteva lasciare che un litigio distruggesse la sua futura felicità.
Maria iniziò ad aver paura la prima volta che lui la sbatté contro un muro.
Passeggiavano per strada, in un tardo pomeriggio poco affollato; il saluto casuale ad un’amica, solo poche parole scambiate in fretta, e la collera di lui, immediata, totale.
L’aveva agguantata per un braccio, non appena l’amica si era allontanata per la sua strada, pretendendo di sapere che cosa aveva da dirsi con quella stupida che non avrebbe dovuto più vedere, ordinando di svelare che cosa nascondeva, quale trama stavano architettando alle sue spalle. Parlava a bassa voce, sibilava, attento a nascondere la rabbia; e intanto le stringeva il braccio con forza, tanta forza, fino a costringerla a piegarsi; e intanto pretendeva che continuasse a sorridere e le ordinava di non dare spettacolo, che non stava bene farsi vedere discutere dalla gente; e intanto la insultava, preda di una gelosia incontrollabile e inspiegabile. Ad un tratto la trascinò fuori della strada, nell’ombra, e la scaraventò contro il muro di una casa.
Maria, ventitré anni, aveva pianto quella sera, in silenzio, chiusa nella sua camera, attenta a non farsi sentire dalla madre, che non doveva preoccuparsi, e che non poteva aiutarla.
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Anna sapeva che il silenzio era figlio della paura. La paura di quell’uomo nella tua vita e la paura della vita senza quell’uomo. Un intreccio pericoloso.
Anna non aveva parlato di quanto quel suo uomo si fosse insinuato nella sua vita, né ai suoi genitori, né a suo fratello. Lei era una donna adulta, viveva da sola, si guadagnava da vivere da quando era solo una ragazzina, sapeva badare a se stessa, per questo aveva taciuto la sua angoscia per molto tempo. Poi, aveva parlato. Si era confidata con la madre, si era consigliata con il padre. Non aveva raccontato tutto, ma quanto bastava a far capire che viveva un momento pesante, difficile; quanto bastava per chiedere aiuto senza concedere troppo all’orgoglio. E così, lo aveva lasciato. La prima volta.
Anna era felice della sua scelta; era stato difficile, ma lo aveva fatto. Era andata da lui e gli aveva detto che tutto era finito, che non potevano più condividere una strada comune, che i loro bisogni erano diventati troppo diversi, che gli sarebbe mancato perché lei lo amava ancora e lo avrebbe sempre portato con sé, nel cuore, ma che voleva essere la sua compagna e non la sua ossessione. Aveva pianto, aveva sofferto, ma si sentiva di nuovo libera.
Dopo un mese, solo un mese, l’incubo era cominciato.
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Maria non lo lasciò. Aveva paura di stare con lui. Ma era più forte la paura della rabbia che avrebbe scatenato respingendolo. La paura diventò presto la sua compagna più fedele. Le rose che le addolcivano il cuore, cominciarono ad avvelenarlo. Ogni volta che le riceveva la mano le tremava un po’ di più; diventarono presto solamente ambasciatrici di angoscia. Maria lo lasciava parlare, cercando di dominare il timore che le parole che lui le rivolgeva scatenavano in lei. Lui continuava a parlare di matrimonio, di figli, di quella vita in comune che la terrorizzava, e lo faceva come se niente fosse accaduto tra loro, come se lei fosse solo stata una bambina rimproverata per un capriccio ormai archiviato. Lui la carezzava, la abbracciava, le sorrideva, fingendo di non vedere quanto Maria si sentisse a disagio. A volte, pareva che lui la guardasse più con la mente che con gli occhi, che la guardasse vedendo ciò che più desiderava vedere. Ma, per Maria, era difficile ogni giorno di più. Il suono del campanello di casa, lo squillo del telefono, era sufficiente a scuoterla. Lui la veniva a prendere a casa, l’accompagnava al lavoro, le telefonava tre, quattro volte al giorno. Maria non sapeva più come comportarsi con la madre e non riusciva più a nascondere la paura che provava per lui e, lui, non ammetteva le sue debolezze. Quando la vedeva indecisa, sfuggente, la biasimava per la sua scarsa forza d’animo, le diceva che era solo un’incapace, che il mondo era fatto per chi sapeva difendersi e non per quelli come lei, così insignificanti. E allora le spiegava che le avrebbe insegnato, che sotto la sua guida sarebbe diventata forte, alla sua altezza. In quelle occasioni, lui le gridava contro, la spintonava, la umiliava e, a volte, la schiaffeggiava. Maria si rifugiava dall’unica amica che le era rimasta, passava la notte da lei, e tornava a casa solo quando i segni degli schiaffi erano sbiaditi o quando aveva trovato una scusa convincente per il volto arrossato. Tutto, ma non voleva coinvolgere sua madre.
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Anna lo incontrava ovunque. Lo incrociava per strada, lo trovava al bar la mattina, lo vedeva dalla finestra dell’ufficio, lo trovava nella sala d’attesa del suo medico, l’aspettava fuori della banca, si accodava con lei allo sportello dell’ufficio postale. Non diceva niente; la guardava. Un giorno dopo l’altro. Lentamente, Anna smarrì la sua allegria, cominciò a dubitare della bontà della fiducia che aveva sempre riposto negli altri. Dubitò di se stessa, della sua capacità di giudizio. Pioveva il giorno che lui, dopo mesi, le parlò per la prima volta. Piagnucolò, pregò, la provocò.
Gli occhi di Anna vagavano senza meta per il giardino, si soffermarono sorridendo su due ragazzini che si baciavano, giovani e innamorati.
Non sapeva nemmeno spiegarlo, forse per paura o per pietà, ma Anna ritornò con lui, con il suo uomo. Non lo spiegò a se stessa e non lo spiegò in famiglia. Tornò con lui e basta. Pensò che tutti avevano diritto a pentirsi, a cambiare, ad una seconda occasione. Un’occasione che forse dava più a se stessa che a lui, ma che in quel momento le sembrò la scelta più giusta. Pensò che, con il suo aiuto, sarebbe cambiato, avrebbe capito.
Anna sorrise mestamente. I due ragazzini, mano nella mano, stavano andando via.
Era stato proprio in quel giardino, un pomeriggio d’estate, che lui aveva promesso di ucciderla.
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Maria non era più libera. Guidava pochissimo l’auto, non aveva più un cellulare, non andava più da sola da nessuna parte. Solo la sera, nella sua camera, quando chiudeva gli occhi stesa sul letto, le sembrava di respirare davvero. Ma lui, cominciò a chiamarla anche di notte. E se tardava a rispondere, era persino capace di andare a casa sua a controllare che fosse sola. E quando rincasava dal lavoro, in quelle rare occasioni che lui non andava a prenderla, il telefono squillava non appena varcava la soglia, ma se era stata trattenuta, ed era sua madre a rispondere, lui andava a cercarla. E se lei prendeva l’auto senza il suo permesso, lui la minacciava, le rinfacciava i suoi comportamenti sconsiderati e le chiariva, se ancora non avesse capito, che quando lui sarebbe diventato suo marito, avrebbe imparato a comportarsi meglio. Lui, le avrebbe insegnato.
Per Maria non era più vita. Aveva solo ventitré anni, viveva da reclusa in casa, sobbalzava ad ogni rumore, spesso balbettava. Non aveva che una sola amica, costretta ad incontrarla di nascosto, come una ladra. Un’amica che le resisteva ancora accanto perché le voleva un gran bene, che le ripeteva di lasciarlo, di denunciarlo, di parlarne con la madre, con lo zio, di reagire in qualche modo. Maria non si decideva. Non aveva solo paura per se stessa, lui, una volta, le aveva fatto capire che anche sua madre, una povera vedova l’aveva chiamata, avrebbe imparato a comportarsi bene e che avrebbe insegnato anche a lei a stare al modo. Così, le aveva spiegato, con poche parole, ma molto chiare.
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Anna si era talmente spaventata che aveva deciso che non avrebbe più voluto vederlo. Non ci sarebbero state né lacrime, né suppliche a convincerla a tornare con lui. Non si sarebbe più lasciata intenerire e sarebbe diventata sorda a qualsiasi sua parola. La luce di follia che aveva visto nei suoi occhi quel pomeriggio, l’aveva terrorizzata a tal punto che avrebbe voluto nascondersi nel buco più profondo della terra e scomparire per sempre. Lui l’aveva vista parlare con un uomo, si erano persino sorrisi, stretti la mano. Si era convinto che lei avesse un amante, che lo volesse di nuovo lasciare, e a nulla erano valse le spiegazioni di Anna, che continuava a ripetergli che quell’uomo era un amico del fratello e che di lui stavano parlando. Lei era stata cortese, gentile, come sempre era stata educata ad essere, nient’altro. Ma qualcos’altro c’era sicuramente, le ripeteva il suo uomo, lei lo avrebbe lasciato ancora e si sarebbe costruita una nuova vita. E, questo, lui non poteva permetterlo. O con me, o con nessuno. L’aveva guardata dritto negli occhi e le aveva detto che piuttosto che vederla con un altro, l’avrebbe uccisa. E Anna ci aveva creduto.
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Maria, un pomeriggio di fine inverno, con un lieve sorriso che le increspava le labbra, spiegò all’amica che le cose si stavano sistemando. Lui non era più così assillante, da qualche tempo non parlava di matrimonio e le aveva persino lasciato usare l’auto. Era più gentile, premuroso, e pareva essere tornato quello dei primi tempi. La dimostrazione più evidente di quel cambiamento era la sua presenza lì, dall’amica, in pieno giorno, alla luce del sole.
Maria intravide la possibilità di poter arrivare di comune accordo alla conclusione del loro rapporto. Maria sperava ancora di lasciarlo e forse avrebbe potuto farlo senza disgraziate conseguenze.
Maria sembrava di nuovo felice.
Quando si chiuse alle spalle la porta di casa dell’amica, alzò gli occhi e lui era davanti a lei.
Maria comprese tutto in un istante. L’aveva messa alla prova. L’aveva seguita, controllata. Aveva allentato la corda che le aveva messo al collo solo per vedere che cosa ne avrebbe fatto di quella ritrovata libertà e quello che aveva visto non gli era piaciuto affatto. Si vedeva dal bel viso contratto in una smorfia di rabbia, dai suoi occhi verdi, scuri come la notte, che brillavano d’odio. Lo capì dal modo in cui lui la afferrò per un braccio, trascinandola per strada e poi in macchina. E poi gli insulti urlati con voce roca, le botte date al volante, la guida rigida, a scatti, a gran velocità. Un semaforo rosso affrontato senza nemmeno alzare il piede dall’acceleratore. Maria, terrorizzata, sperò che qualcuno li fermasse, carabinieri, polizia, vigili urbani, chiunque. Niente. Frenò davanti al cancello di casa, scese, aprì lo sportello dalla sua parte, afferrò la borsa e la gettò nel vialetto, poi afferrò lei, e, così, come tutto era iniziato, all’improvviso, finì. Un attimo dopo, giusto il tempo di un battito del cuore, e lui era già andato via. Lei, davanti alla porta di casa, sola, con la paura e le lacrime.
Quella sera, raccontò tutto a sua madre. Ogni cosa, ogni parola, ogni dettaglio. Decise che non l’avrebbe mai più voluto vedere, che l’avrebbe denunciato, che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non doverlo mai più incontrare. Quella notte, aveva capito che lui l’avrebbe uccisa.
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Anna aveva deciso di non rinunciare alla sua vita. Non poteva lasciare che le minacce di quell’uomo, un uomo che non sentiva più suo, le rovinassero l’esistenza. Non poteva credere di avergli permesso di intromettersi a tal punto nella sua vita. Anna aveva deciso che doveva scuotersi, che doveva reagire, che con l’aiuto della sua famiglia si sarebbe liberata di lui.
Anna lo lasciò di nuovo. Andò a dirglielo accompagnata dal fratello. Non voleva restare da sola con lui. Si infilò le mani in tasca, per non fargli vedere che le tremavano, lo guardò dritto negli occhi e gli disse che era finita. Per sempre. Ricordava ancora perfettamente i suoi occhi increduli che si spostavano da lei al fratello, che la valutavano, la soppesavano, studiavano il suo viso, seguivano il suo respiro. Poteva sentire ancora la tensione che riempiva l’aria, pura elettricità. I muscoli tesi del fratello, pronti a scattare; il proprio respiro interrotto nell’attesa di una parola o di un gesto; l’ira crescente di lui che gli sfigurava a poco a poco il volto, e che, in silenzio, era andato via.
Anna, ancora seduta sulla panchina, guardò distrattamente l’orologio e scosse, divertita, impercettibilmente la testa. Aspettare non era più un problema. L’attesa non era che un noioso trascorrere del tempo. Ma non era sempre stato così.
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La primavera era vicina. Era trascorso quasi un anno dall’inizio dell’incubo. Ancora tremava quando il telefono squillava e la sola vista delle rose le provocava la nausea. L’amica, la confidente, che l’aveva sostenuta durante tutto quell’orrendo anno, spesso dormiva da lei, giusto per non farla sentire troppo sola. Sua madre l’accompagnava al lavoro il mattino e lo zio si era offerto di scortarla la sera. Per un po’ di tempo si era sentita di nuovo in prigione, controllata a vista. Una prigione d’amore che però era molto più facile da sopportare. Lui intanto la tempestava di telefonate, lasciava biglietti farneticanti attaccati alla macchina, alla porta di casa. Messaggi sul cellulare, messaggi sulla segreteria. Ripeteva sempre la stessa cosa. Lei gli apparteneva. Doveva diventare sua moglie, la madre dei suoi figli. Era stata la sua famiglia a metterla contro di lui, lei non era abbastanza intelligente da farlo da sola. Lei doveva, doveva assolutamente, tornare da lui.
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Anna non poteva più dimenticare quanto fossero diventate lunghe le ore di un giorno, dopo averlo lasciato. Si aspettava di vederlo comparire da un momento all’altro, dietro un angolo, davanti alla porta di casa, nella sala d’aspetto del medico. Si aspettava di sentire il cellulare squillare in piena notte. Si aspettava di sentire la voce di lui che riempiva di parole quel silenzio assordante con il quale l’aveva lasciata. Si aspettava di accendere la luce, quando rincasava la sera, e di trovarlo seduto sul divano. Si aspettava di trovare una sua lettera nella posta, un foglietto infilato di nascosto nella borsa della spesa. Si aspettava di tutto, e non passò troppo tempo, prima che qualcosa accadesse. Lui cominciò a telefonare a sua madre, litigò con suo padre. Telefonò persino a casa del fratello, alla cognata, si presentò a scuola del nipote. Chiedeva a tutti del nuovo uomo di Anna, perché un uomo doveva esserci per forza, altrimenti lei non lo avrebbe mai lasciato. Voleva sapere chi fosse, voleva conoscere, incontrare, chi lo aveva derubato dell’amore della sua vita. Voleva guardarlo negli occhi, vedere che cosa avesse più di lui. Ma, Anna, non aveva altri uomini. Anna, non voleva altri uomini. Voleva solo riappropriarsi della sua vita, voleva solo tornare allegra e sorridente, anche se sapeva che qualcosa, dentro di lei, si era infranto per sempre. Lui non ci credeva, non poteva crederci. Non poteva ammettere il suo fallimento.
Anna, respirando profondamente l’aria della primavera, ricordò la prima volta che lo vide seguirla. Non si limitava più a presentarsi davanti a lei, all’improvviso, ma la seguiva ovunque, da quando usciva il mattino a quando rientrava a casa la sera. Voleva incontrare il suo rivale. Un rivale che non c’era.
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La macchina rigata con una chiave, il vetro di una finestra rotto con un sasso, la spazzatura rovesciata davanti la porta di casa, le piante del giardino divelte. Lei sapeva che era stato lui, ma non poteva dimostrarlo in alcun modo. Era arrabbiata, frustrata, spaventata. Si sentiva addosso gli occhi di tutti che la compativano. Ammirava il coraggio di sua madre che, risoluta, aveva deciso che quel pazzo non avrebbe rovinato la vita della figlia, aveva deciso di non farsi spaventare dalle sue minacce assurde e, più volte, si era detta pronta anche ad ucciderlo, se si fosse di nuovo avvicinato a loro. Maria sapeva che parlava seriamente. L’aveva vista cambiare le sue abitudini per consentirle di mantenere il lavoro, l’aveva sentita parlare al telefono con le madri delle sue amiche per spiegare loro che la figlia non meritava di essere isolata, che lei era la vittima e non aveva colpe. La vedeva correre a rispondere al telefono e poi litigare con lui, minacciarlo. Ogni tanto la sentiva piangere in silenzio.
Maria si sentiva sfuggire la vita tra le mani.
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Due anni di quella vita, e Anna pensò di andarsene. Non erano servite le denunce. Non servivano più le scorte del padre e del fratello. Anna non riusciva più a vivere. Era come una lenta agonia, un giorno dopo l’altro; si sentiva i suoi occhi addosso anche quando lui non c’era. Lui la guardava da lontano, la spiava, non le rivolgeva parola, ma le ricordava che lui sarebbe sempre stato nella sua vita. In un modo o in un altro, lei sarebbe stata di nuovo sua. Lei, era, una sua proprietà.
Anna era stanca e spiegò ai suoi genitori che forse avrebbe dovuto rifarsi una vita altrove. Un posto lontano, dove lui non potesse seguirla. Un posto nuovo, dove ricominciare. Era ancora giovane, brava nel suo lavoro. Era certa che se avesse venduto il suo appartamento, avrebbe avuto abbastanza soldi per ricominciare a vivere. Decise di andar via. Passarono mesi, ma riuscì a vendere casa. Fu doloroso. Era andata ad abitare in quel piccolo appartamento appena maggiorenne, quattro stanze ed un bagno, ereditate dalla nonna paterna, e lei lo aveva venduto. Lo aveva venduto per scappare e si era ritenuta persino fortunata di averlo fatto tanto in fretta. Mesi che aveva messo a frutto cercando un nuovo lavoro, un paio di stanze in affitto, tanto per cominciare, e, ancora una volta, aveva pensato alla fortuna di essere riuscita a trovarsi tanto in fretta una nuova esistenza.
La fortuna le concedeva una nuova occasione e lei l’afferrò subito.
Lui era alla stazione, il giorno che partì.
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Una sera come tante, rincasò dal lavoro in compagnia dello zio. Suonò il campanello, ma poi si ricordò che la madre era dal medico. Prese la sua chiave dalla borsa e la infilò nella serratura; il piccolo portone scivolò piano in avanti. Era aperto. Sua madre non lasciava mai le porte aperte. Rimase ferma per qualche istante, con la chiave in mano sospesa in aria. Tremava appena. Suo zio, le appoggiò piano una mano sulla spalla e, con un invito silenzioso, le fece cenno di spostarsi. Entrò per primo. L’ingresso era in ombra. Le luci spente. Silenzio. Maria cercò istintivamente il cellulare in borsa, nel caso avesse dovuto chiamare aiuto; le chiavi finirono per terra. Tremava sempre più forte e non riusciva a trovarlo. Quella borsa era troppo grande e quel maledetto telefonino troppo piccolo. Lo zio accese la luce, l’ingresso era tranquillo. Non c’era niente di strano. Maria si affacciò. Era tutto a posto. Si tranquillizzò, respirò profondamente. Entrò anche lei, mentre lo zio controllava anche le altre stanze e accendeva tutte le luci della casa, una dopo l’altra. Niente. Maria, che finalmente aveva trovato il cellulare, lo ripose nella borsa e la appoggiò in terra, vicino alla porta. Entrò in salotto, in cucina; non vide niente di strano. Era tutto come lo aveva lasciato quella mattina. Poi, entrò nella stanza da letto. Non se ne accorse subito. Ad una prima occhiata le parve tutto come sempre.
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Anna si sentì di nuovo libera. Viva. Ma come poteva ignorare che, con lei lontana, lui tormentava la sua famiglia. Padre e madre, che continuavano a ripeterle che tutto andava bene, che lei doveva proseguire lungo la strada che aveva scelto e che non doveva guardarsi indietro. Ma lei sapeva che i loro telefoni squillavano di notte e di giorno, che lui si presentava spesso a casa loro, che chiedeva di lei, della sua nuova vita, che fermava la cognata per strada, che si era preso a male parole con il fratello. Aveva ancora amici ai quali poteva chiedere e che, seppur riluttanti, temendo che lei tornasse, la tenevano costantemente informata. Anna soffriva, lieta della sua ritrovata libertà ma disperata di aver lasciato quello che considerava il suo fardello sulle spalle di altri.
Anna, a distanza di dieci anni, non si rimproverava il suo ritorno. Aveva pensato spesso alla bontà di quella scelta e aveva concluso che tornando indietro mille volte, avrebbe rifatto per mille volte la stessa scelta. Doveva porre fine a quella situazione. La sua nuova vita non le dispiaceva, e non voleva rinunciare anche a quella, ma non poteva scappare per sempre. Non era giusto.
Tornò a casa un giorno come tanti, in treno. Sembrava che lui ne avesse fiutato l’odore, perché poche ore dopo, era già dall’altra parte della strada. L’aspettava.
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Maria mosse un passo incerto in avanti, poi, più decisa, ne mosse un altro paio. La cornice con la foto di lei bambina con il suo gatto in braccio, sopra il comodino, non era esattamente dove si trovava di solito. Si avvicinò, la sfiorò con un dito. Lei la metteva sempre al centro e non vicino ad un angolo dove in quel momento la vedeva. Ma poteva sbagliarsi. La voce di suo zio, che nelle altre stanze parlava di restare fino al ritorno della sorella, cominciò ad arrivarle ovattata, indistinta. Sentiva solo il suo cuore battere furiosamente. Il cassetto della piccola scrivania era appena aperto, ma lei era certa di averlo lasciato chiuso. Da un’anta dell’armadio spuntava la manica di una camicetta, ma lei sapeva che quello sportello lo aveva chiuso con cura. La lampada era appoggiata sul lato sbagliato del cassettone. I suoi anelli, i bracciali, erano fuori del portagioie. Il flaconcino delle gocce che usava per dormire, non c’era più.
Maria indietreggiò. Lui era stato lì; nella sua camera. Aveva toccato le sue cose, i suoi vestiti. Il rombo del suo cuore era talmente forte che le dolevano le orecchie. Doveva andarsene. Subito.
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C’era una splendida vista. I tetti rossi addossati gli uni agli altri; i nastri grigi delle strade; l’azzurro intenso del cielo e il verde vivace delle chiome degli alberi, gli stessi alberi di quel giardino dove Anna, dieci anni dopo, seduta su di una panchina, aspettava.
Anna guardava dall’alto la sua città, imponendosi di concentrarsi sui dettagli del panorama, cercando di ignorare il battere forte del suo cuore. Con la mano avvinghiata sulla borsa, in piedi vicino ad un bel muretto di pietre chiare, lo vide arrivare, parcheggiare l’auto, scendere e dirigersi verso di lei. Camminava piano. Era ben vestito, curato. Le scarpe nuove, lucide. Sorrideva.
Anna drizzò la schiena e deglutì. Doveva essere forte. Doveva essere chiara. L’avrebbe fatto arrestare. Da quel momento, sarebbe stata lei a dettare le regole di quel gioco perverso.
Anna però comprese immediatamente che quell’incontro per lui significava tornare con lei. Lo lesse nei suoi occhi, nei suoi modi, nel suo cercare di abbracciarla, nel tono della sua voce, un’inflessione accondiscendente, disposta al perdono.
Anna lo invitò a tenersi a distanza. Non lo vedeva da mesi, e sembrava che per lui fossero passati solo dei minuti; pronto a riprendere da dove aveva lasciato, come se niente fosse stato. Anna, con voce ferma, gli spiegò le sue ragioni, gli ordinò di lasciare stare lei e la sua famiglia. Lo minacciò. Lui sembrò svegliarsi da un lungo sonno all’improvviso. Si agitò, alzò la voce. Due donne, poco lontano, voltarono la testa. Lui le puntò contro un dito e le disse che l’unico futuro possibile era insieme e che se lei voleva morire era solo colpa sua. Anna indietreggiò di qualche passo, lui scattò in avanti, l’afferrò per le spalle, e la gettò oltre il muretto. Un versante molto ripido e molto lungo.
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Maria sentiva lo stomaco vuoto rivoltarsi. Si portò una mano alla bocca; si sforzò di ispirare con calma e profondamente. Dapprima indietreggiò piano, poi sempre più velocemente. Lo zio scorse solo la sua ombra sfilare veloce nell’ingresso. Maria si gettò fuori di casa, respirando a pieni polmoni. L’ultima cosa che vide fu la sagoma di lui e il luccichio di un coltello.
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Anna si stirò la schiena e si alzò. La gamba cominciava a farle male.
I suoi ricordi non riuscivano mai a spingersi oltre quel momento. Ricordava solo l’odore dell’erba, l’umido sulle braccia, il respiro che non usciva dal corpo, vaghi rumori di ossa e di rami rotti e poi solo buio.
La fortuna ancora una volta era stata dalla sua parte. Si era svegliata in ospedale, con il fratello accanto. Sembrava una bambola rotta, le disse molti mesi dopo, molti interventi chirurgici dopo.
Lui era scappato, le raccontarono. Era fuggito con la sua auto, accompagnato dalle grida delle due donne e le imprecazioni dei passanti. Si era impiccato appena arrivato a casa.
Anna lo vide arrivare da lontano.
Sorrise.
Suo marito non era mai puntuale. Non era perfetto.
Per fortuna.
Riprese il giornale dalla panchina e gli andò incontro.
La pagina di cronaca locale si apriva con la foto di una bella ragazza, ventiquattro anni appena, uccisa brutalmente dal compagno, incapace di accettare il suo rifiuto. L’aveva massacrata a coltellate, ferendo anche un suo parente.
Anna pensò che avrebbe voluto salvarla, che avrebbe voluto insegnarle a vedere quei segni.
Bellissimo, purtroppo non sempre si ha la fortuna di vedere il proprio carnefice che si impicca, la vita di tutti i giorni ci fa assistere a situazioni estreme, dove MAI, aimè, la vittima riesce a liberarsi del carnefice senza sporcarsi le mani. Auguri per il concorso.
Credo di aver fatto un gran bel pasticcio con l’uso di questo forum… devo aver spedito il mio commento al tuo indirizzo personale… Comunque volevo solo ringraziarti. Ancora scusa!!!!
Caterina silvia fiore : grazie, grazie e ancora grazie. Riuscirò mai a contattarla direttamente senza fare pasticci?