Premio Racconti nella Rete 2013 “La prima pietra” di Alessandro Sicoli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Sono pochi i piloti abilitati ad atterrare a Lampedusa. All’inizio, quando venivo in aereo, prima dell’undici settembre, la porta della cabina di pilotaggio rimaneva aperta. Ci lasciavano guardare lo spettacolo dell’Etna sulla sinistra e poi, dopo l’ultimo salto sopra il mare aperto, la discesa verso lo scoglio, il pezzo d’Africa proprietà della Repubblica Italiana. Di solito i piloti si consultavano, guardavano le rotte di avvicinamento, linee sinuose, un otto orizzontale, un simbolo d’infinito con l’isola al centro.
Stavamo atterrando. Guardando il mare, distinguevo alla perfezione le singole onde. Tra poco avrei visto gli scogli, pochi metri sotto di me. E subito dopo la pista, la frenata e la spinta dei reattori invertita, alla massima potenza, per non cadere in acqua dall’altra parte, alla fine della striscia di asfalto troppo corta. Scendendo dall’apparecchio, al corpo dell’aeroporto si va a piedi, niente finger, niente pullman. Salvatore era fuori, mi aspettava. Mi aveva procurato la macchina, una vecchia Meari, senza tetto. A Lampedusa, dopo maggio, non piove mai. Gli chiesi come stava, della famiglia, le solite cose, le solite risposte. Lo salutai, caricai la valigia e partii. L’aria sul viso mitigava l’effetto del sole rovente, anche quello, il solito. Non venivo da quattro anni. Notai subito la presenza di poliziotti, operatori sanitari, in giro, molti di più di quanti fossero necessari per la popolazione e per i turisti. Sapevo che erano lì per gli immigrai, lo sanno tutti. Attraversai il paese, chiamarla cittadina è fuori luogo, passai vicino al porto e notai quattro, forse cinque, motovedette ormeggiate. Presi la strada costiera che va verso ovest, verso l’Isola dei Conigli. Sembrava tutto uguale. Qualche piccolo complesso in più, in costruzione. Al momento opportuno svoltai a destra, sullo sterrato, e mi diressi verso la proprietà di mio padre. Arrivando, notai che le piante erano cresciute. In pochi hanno un giardino con della vegetazione. Sull’isola è raro, non c’è abbastanza acqua. D’estate quella potabile la portano tutti i giorni con una nave cisterna dalla Sicilia. Solo poche ville, quella di Pippo Baudo, quella abusiva che fu di Domenico Modugno, avevano giardini con un po’ di verde. Il resto è pietrisco con qualche ciuffo d’erba ingiallito. Stefania era fuori, stava leggendo all’ombra di una grande tenda bianca. L’edificio piccolo, basso era ancora ben tenuto. Un dammuso vero, uno dei pochi. Non una replica per i turisti. Pareti spesse quasi un metro, la piccola cupola emisferica. Mi era sempre piaciuto.
“Ciao.”
“Ciao Marco!”
Si alzò e mi corse incontro, abbracciandomi e baciandomi di slancio.
“Vittorio sta riposando, vado a svegliarlo.”
La trattenni, con dolcezza, per un braccio.
“Lascia stare.”
Lei annuì, sorridendo.
“E Giorgio?”
“E’ al mare, tornerà tra poco. Ti porto qualcosa da bere intanto. Cosa vuoi?”
“Una coca, se c’è.”
“Perfetto.”
La guardai entrare in casa. La vita stretta, i glutei e il seno pieni, due gambe perfette, abbronzata in modo uniforme. A quasi sessant’anni Stefania era ancora attraente, con una carica di femminilità infinita. Tornò con una lattina ghiacciata e un bicchiere. La fissai e glielo dissi.
“Ti trovo bene, sei bella come sempre.”
Abbassò gli occhi con un’espressione da ragazzina imbarazzata.
“Grazie.”
Sapeva di essere piacevole e sensuale. Come sempre, appunto. Questo in fondo era stato il problema, dall’inizio. Si sedette e guardò la vecchia macchina dalla carrozzeria di plastica arancione con la quale ero arrivato.
“Perché non mi hai chiamato, sarei venuta a prenderti?”
Scossi la testa, con un sorriso.
“Lo sai che se non uso la Meari di Salvatore, mi sembra di non essere a Lampedusa. Me la affitta per pochi soldi. E’ la stessa da non so quanto tempo. Credo che sia una delle ultime rimaste.”
Appoggiò una mano sulla mia.
“Come stai?”
Pensai un momento prima di rispondere.
“Bene, direi.”
“E Sara? I bambini, anche loro tutto bene?”
Annuii, tirando fuori una busta da una tasca della valigia.
“Guarda, queste hanno voluto che ve le portassi.”
C’erano una decina di foto stampate. Scatti che andavano da Carnevale a pochi giorni prima.
“Stiamo cercando di organizzarci, forse a settembre riusciamo a venire tutti e quattro una settimana. Hanno voglia di tornare a trovarvi.”
Sorrise e d’improvviso sembrò illuminarsi.
“Te li do subito se no magari ci dimentichiamo.”
Entrò in casa e uscì con una grossa borsa. Dentro due pacchi regalo.
“Per i compleanni. C’è anche un biglietto di Giorgio. Ci ha messo tre giorni a scrivere ai suoi nipotini.”
“Grazie mille, saranno contenti.”
“A Marta ho preso una bambola. Spero che le usi ancora, non è troppo grande vero?”
Sorrisi.
“No le piace sentirsi piccola ogni tanto, nove anni sono un’età strana. E a Federico cosa avete preso?”
Lo chiesi senza pensare, per pura curiosità.
“Un cagnolino di peluche, un cagnolino con una macchia nera sull’occhio.”
La fissai, senza dire nulla, indeciso sulla natura di quello che provavo. Lei mi fissava, di rimando, in silenzio. Restammo così, parecchi secondi.
Era il mio preferito, non andavo a dormire se non l’avevo con me. Era la prima cosa che percepivo al mio risveglio, nel letto. Macchiolina. Ne avevo altri due o tre di pupazzi, ma non contavano niente. Solo lui. Dicevo a tutti che me lo aveva regalato la mia baby sitter bella, ne ero consapevole anche a sei anni, che mi voleva tanto bene. La mia Stefania.
Mi ritrovai sul viso un asciugamano ritorto, umido, acqua di mare. Qualcuno me lo aveva avvolto sulla faccia, da dietro. Uno scherzo. Lo tolsi, mi alzai e feci mezzo giro su me stesso.
“Giorgio!”
Mi abbracciò, quasi stritolandomi. Quando fui libero, lo guardai. Dieci centimetri più alto di me, fisico asciutto, abbronzato di un color cioccolato al latte. I capelli, gli stessi di Stefania, schiariti dal sole. L’espressione allegra, sincera, contento di vedermi. L’espressione di un bambino di cinque anni sul viso di un uomo di trentaquattro. Quella era la massima età mentale che Giorgio aveva raggiunto dopo tutte le terapie, le cure migliori, gli stimoli. Danni cerebrali alla nascita, anossia. Il figlio demente di tuo padre, lo chiamava mia madre, di tuo padre e della sgualdrina. Mio fratello. Quando mia madre aveva saputo dei gravi problemi durante il parto, avevo notato sul suo viso un’espressione di soddisfazione che non vedevo da anni. Avevo provato, allora, un senso di stordimento, di nausea quasi, che al momento non avevo saputo spiegare. La sensazione chiara di qualcosa che appartiene alla sfera del male, secondo quella metrica di giudizio tutta manichea che caratterizza l’universo degli adolescenti.
“Guarda la mia bici nuova Marco. Guarda che bella.”
Giorgio mi fece vedere come sapeva andare veloce, come sapeva impennare. Volle che la provassi. Mi disse che poteva andare al mare da solo con la sua bici, a volte arrivava fino all’Isola dei Conigli. La lasciava poco sotto la strada e poi scendeva a piedi fino alla spiaggia. Aveva imparato a legarla, a usare la catena, se no gliela rubavano.
“Ciao Marco.”
Mi girai a guardare mio padre che usciva dalla porta di casa. Lo avevo visto pochi mesi prima, quando era venuto a Milano per il funerale. Ora lo trovai meglio, non solo per l’assenza dell’aura di tristezza che aveva caratterizzato il nostro ultimo incontro. Era abbronzato, quasi quanto Stefania. L’espressione rilassata, contento per quanto possibile. Lo abbracciai.
“Papà, ho fatto provare a Marco la bici nuova.”
“Bravo. Eh allora? Gli è piaciuta?”
“Sì, sì è proprio bella.”
Mi affrettai a confermare, nel tentativo di compiacere mio fratello, solo per capire con un attimo di ritardo che la domanda di mio padre era uno dei mille modi, delle strategie, messe in atto da sempre per stimolare Giorgio, per aiutarlo ad esprimersi. Ma mio fratello sembrò contento della risposta, sorrise soddisfatto.
“Vado a fare la doccia, adesso.”
Lo disse con una punta di serietà. La dichiarazione di un compito che gli avevano insegnato essere importante.
“Bravo Giorgio, vai.”
Lo incoraggiò Stefania. Lo guardammo entrare in casa. Tenni lo sguardo basso, evitando di incrociare i loro occhi. Nel tentativo di disinnescare l’escalation emotiva, estrassi dalla valigia una cartelletta arancione e la passai a mio padre.
“Ti ho portato un po’ di documenti. Ci sono alcune cose che devi firmare tu e le copie dei due contratti di affitto rinnovati.”
Prese il materiale, entrò in casa a cercare gli occhiali e, tornando fuori, cominciò a scorrere le pagine. In quasi trent’anni di attività del suo studio di architettura, mio padre aveva comprato, ristrutturato e messo in affitto alcuni appartamenti a Milano. Di varie metrature, tutti in posizione ottima, molto redditizi. Da quando si erano trasferiti a Lampedusa, quasi quindici anni prima, mi aveva affidato la gestione e l’amministrazione dei contratti. Mi lasciava una percentuale dei ricavi ben superiore a quella necessaria a ripagare le poche ore di lavoro che l’attività richiedeva. Lo faceva sapendo che davo buona parte di quei soldi a mia madre. Lei non avrebbe mai accettato del denaro da lui, ma grazie a quella triangolazione e all’ipocrita finzione di non sapere l’origine di quei soldi, accettava la busta piena di banconote che ogni mese le passavo. Nemmeno una domanda, nessun dubbio. Tutto si risolveva con un asettico ‘grazie’.
Un elicottero della polizia passò sopra di noi piuttosto basso, in direzione dell’aeroporto. Mio padre lo seguì con lo sguardo finché non fu lontano.
“Due mesi fa è arrivato da noi un ragazzo che era scappato dal centro.”
Disse.
“Avrà avuto sedici o diciassette anni. E’ entrato in giardino e si è seduto per terra. Non ce la faceva più, sembrava che gli dovesse scoppiare il cuore. Gli abbiamo dato da bere. I poliziotti lo stavano seguendo, perché dopo neanche due minuti è arrivato un fuoristrada.”
Li fissai, in attesa di sapere il seguito. Prese la parola Stefania.
“Ci hanno detto che dovevano arrestarlo e riportarlo al centro. Reato di immigrazione clandestina.”
“E voi cosa avete fatto?”
“Gli abbiamo dato un altro bicchiere d’acqua e poi l’hanno caricato in macchina. Cosa potevamo fare?”
Avreste potuto rifiutarvi, nasconderlo in casa, pensai. Ma non lo dissi. Era ingiusto. E’ troppo facile sentenziare dopo due mesi e da duemila chilometri di distanza, senza esserci dentro, senza vedere, ascoltare, sentire nella narici e sulla pelle la realtà di quell’isola. Mi alzai e andai dentro, da Giorgio, a vedere i suoi disegni, i nuovi videogiochi. Lasciando mio padre ai documenti e Stefania alla sua lettura.
La tavola era pronta, in giardino. Si erano fatti portare qualcosa di buono da Rosario, il pescatore di fiducia, quasi un amico di famiglia. Un dentice di un chilo e una dozzina di calamari, ancora vivi. Mio padre aveva cotto tutto alla brace, aiutato da Giorgio. Stefania aveva preparato una salsina con un trito favoloso. Mangiai chiudendo spesso gli occhi per gustare i bocconi senza lasciarmi distrarre. Intorno a noi il tramonto. Alla fine Giorgio ebbe il permesso di andare a vedere la tele in casa e noi restammo a berci un passito che qualcuno del paese faceva arrivare da Pantelleria. Era così buono che mi accorsi di averne bevuti quattro bicchierini quando cominciai a sentire lo stordimento dell’alcool che si aggiungeva a quello del vino bevuto mangiando il pesce. A quel punto mio padre, consapevole dell’abbassamento delle mie difese, mi fece la domanda.
“Perché sei venuto Marco? Non hai voluto dirmelo al telefono.”
Stefania finse di dover sparecchiare ed entrò in casa con un po’ di posate e qualche piatto. Decisi di non girarci intorno, di andare diritto al punto. Pensai che non fosse solo a causa dell’alcool.
“Ho trovato qualcosa che era importante farti avere. Qualcosa della mamma.”
Mi guardò con aria interrogativa, con una punta di inquietudine negli occhi. Volli spiegargli tutto, subito.
“Settimana scorsa, sono andato a chiudere il suo conto in banca. Ho scoperto che aveva anche una piccola cassetta di sicurezza. C’erano un po’ di foto, qualche suo gioiello, qualcuno della nonna e due lettere chiuse, scritte di recente. Doveva averle preparate, e depositate, quando aveva capito che le restava poco. Credo meno di un anno fa. Una era per me e l’altra era per te.”
Mio padre mi guardava con una curiosità carica di ansia.
“Cosa dicevano queste lettere?”
Scossi leggermente la testa.
“Nella mia ho trovato cose, pensieri di lei che mi hanno fatto riflettere. Alcuni mi hanno ferito, altri sono stati piacevoli. Tutti inattesi, comunque.”
“E nell’altra?”
Mi incalzò. Lo guardai, stupito per la sua insistenza.
“Papà, quella è una lettera sigillata diretta a te, non so cosa contenga. Non l’ho aperta.”
Mi alzai con lentezza, andai verso la valigia e tornai con la busta in mano. Ben visibile, con la grafia di mia madre, c’era scritto ‘Per Vittorio’. Gliela porsi, senza aggiungere altro.
Consegnai la chiave della Meari al barista dell’aeroporto. Salvatore sarebbe venuto a ritirarla. Avevo lasciato i soldi per il noleggio a Stefania, tanto prima o poi si sarebbero visti in paese. Appena i carrelli si staccano dalla pista, voli già sull’acqua. Dopo trenta secondi, nel riverbero del sole del mattino, l’isola sembrava un sasso, lontano, minuscolo in mezzo al mare africano. Avevo visto mio padre piangere la sera prima, dopo aver letto le parole di mia madre. Per un momento ero stato sul punto di dirglielo. Di rivelargli che nella mia busta, oltre ad alcune pagine di pensieri rivolti a me, lei aveva inserito le fotocopie di ciò che conteneva la lettera per lui. Voleva che anche io sapessi, voleva andarsene leggera, senza pesi. Non avevo chiesto nulla a mio padre e lui non aveva voluto dirmi niente. Stefania gli era stata vicino, come sempre. Avevo promesso che saremmo venuti di sicuro a settembre, tutti. Mi sembrarono commossi. Abbracciandomi, Giorgio mi aveva quasi soffocato, come al solito.
Mi ricordavo di Lo Monaco. Un ricordo vago, dovevo avere quattro anni. Avevo imparato, più tardi, che era un ingegnere che collaborava con lo studio di mio padre. Lo avevo ritrovato in alcune foto, con i miei. Mia madre aveva avuto una relazione con lui, in quel periodo. Era durata poco. Era finita prima che mio padre e Stefania iniziassero la loro storia. Più di un anno prima che i miei arrivassero all’apice dei loro litigi, prima che mio padre decidesse di andarsene dopo la millesima volta che mia madre gli aveva urlato, davanti a me, che era un porco, che era andato a letto con quella puttanella della baby sitter di loro figlio. Lei, mia madre, non lo aveva mai detto a nessuno, si era tenuta tutto dentro. Così come non aveva mai detto di essere rimasta incinta durante quella relazione. Di aver aspettato un figlio che non era di suo marito e di averlo perso alla decima settimana. Consumata dal senso di colpa per il sollievo liberatore di quella perdita. Ripensavo ad altri frammenti di quella lettera. Una vita di menzogna. Aveva interpretato la parte della povera moglie tradita, della brava madre di famiglia lasciata dal marito, fuggito con una ragazza sedici anni più giovane di lui. Aveva interpretato, in modo abusivo, il ruolo di integerrimo giudice inflessibile.
Mi aveva colpito il passaggio nel quale diceva che ogni anno, quando in una particolare domenica di quaresima a messa ascoltava quel pezzo di vangelo di Giovanni, si sentiva morire, stava male per giorni. Le sembrava che parlasse a lei. Chiedeva scusa a me e a mio padre. Qualcosa che prima credevo non sapesse fare, veramente. Diceva di aver ammirato la forza con la quale lui e Stefania avevano affrontato la tragedia di Giorgio, come lo avessero amato nonostante tutto, come avessero saputo restare uniti. Avevo pianto anch’io leggendo quelle pagine e, ripensandoci, sentivo le lacrime risalire. Mi distrassi guardando lo spettacolo dell’Etna che spuntava dalla foschia.
Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra.
Era domenica. Sara e i bambini sarebbero venuti a prendermi a Linate, all’aeroporto. Mancava poco, per essere di nuovo a casa.
Molto bello e ben raccontato. Complimenti.