Premio Racconti nella Rete 2013 “Il mostro che sapeva di Tonno” di Natalia Lenzi ( sezione racconti per bambini )
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Era una creatura enorme.
Per quanto, per un piccolo essere come lui, qualcosa potesse essere enorme.
Dunque, era una creatura enorme e sicuramente orribile. Aveva due strani occhi argentati che baluginavano in modo inquietante nella penombra. Il contorno della sua figura mostrava chiaramente che era ricoperto di peli ispidi e, nell’aria, si sentiva l’odore forte della muffa o quello della polvere dopo un temporale.
Disgustoso.
Che cosa poteva fare lui, piccolo, e, diciamolo, terrorizzato, contro quel mostro che si muoveva con fatica, ma con determinazione, liberando un orribile stridore?
Un passo dopo l’altro scivolò indietro e, più indietreggiava, e più la creatura mostruosa gli pareva enorme. Giganteggiava sulla sua testa minuta, come una montagna su di un fiore a valle.
Ormai non riusciva più a deglutire, e, quando con le spalle toccò la parete dietro di sé, smise anche di respirare. L’ombra del mostro lo inghiottì: non avrebbe mai creduto che si potesse provare tanto terrore. Sentì gli occhi spalancarsi a tal punto che pensò fossero pronti a rotolargli fuori delle orbite.
La creatura, intanto, avanzava e il suo fetore diventava sempre più forte. Abbassò quella che doveva essere una testa, o quello che sicuramente era il posto dove si trovavano gli occhi, e i peli gli solleticarono fastidiosamente il viso.
Non si era mai sentito così piccolo e impotente, stretto tra la parete e il mostro.
L’ultima sensazione che provò fu quella della spinta che, con tutta la sua forza, dava al muro con le spalle, nel vano tentativo di allontanarsi da quegli occhi, da quell’odore insopportabile e da quel pelo pungente.
In un istante si ritrovò in camera, al buio, steso sul letto, con le spalle pigiate nel cuscino, e con gli occhi fissi in quelli del suo gatto, che, con aria curiosa, aveva allungato il collo dal comodino dove si era acciambellato, dopo un lauto pasto di croccantini al tonno, e annusava il viso del suo piccolo amico umano, facendo tintinnare il campanellino del suo collare.
Sarebbe stata una lunga, lunga, giornata. Uno di quei giorni che avrebbe proprio voluto cancellare: un colpo di gomma e ZAC! Passiamo direttamente a dopodomani. Peccato che i giorni non si potessero scrivere con la penna cancellina, come i suoi compiti. E a pensarci ben bene, poi, quando pasticciava i suoi quaderni con le correzioni a colpi di gomma, non ne veniva mai fuori niente di buono.
Le maestre non sono mai contente. Diciamolo.
Luca accarezzò il gatto, che, dopo la sbirciatina notturna che aveva dato al viso del suo amichetto umano, era tornato tranquillo al suo sonno. Un brusio di protesta si levò piano dai suoi baffi. Luca, che dopo quell’incubo notturno non era tornato per niente ad un sonno altrettanto tranquillo, si sforzò di sgusciare fuori delle coperte e rabbrividì al contatto dei piedi nudi con il pavimento freddo. Si era dimenticato i calzini o forse si erano sfilati durante la notte agitata. Vai a saperlo.
La voce acuta della mamma gli entrò nel cervello dagli orecchi come un trapano nel legno.
Era l’ora di alzarsi, gridava infaticabile. Più lei lo chiamava, più a lui veniva voglia di tornare a nascondersi sotto le coperte.
In generale, la mamma di Luca non aveva una voce stridula, la sua, era, piuttosto, una voce…adattabile. Dolce, quando la sera gli rimboccava le coperte e gli augurava un sonno sereno; severa, quando lo rimproverava di ignorare le verdure, quelle verdi, nel piatto; allegra, quando lo abbracciava all’uscita da scuola e decisamente squillante il mattino. Sembrava una trombetta e quando poi lo chiamava ‘ Luchino mio amorino’ o ‘Luchetto il mio bimbetto’ con quel tono stridulo, era davvero impossibile da ascoltare. Bisognava proprio tapparsi le orecchie!
Luca sospirò e si avviò al bagno.
Era davvero stata la notte sbagliata per sognare un mostro, perché quello era un giorno importante. Importante davvero. Bisognava essere svegli, pimpanti e pronti, se non altro perché la mamma glielo ripeteva da almeno una settimana. Quello che era appena iniziato, e non in un modo esattamente strepitoso, era l’ultimo giorno di scuola. C’era la festa. C’erano i saluti agli amici. C’erano gli addii alle maestre, care maestre. Bisognava anche piangere un po’. Di ultimi giorni di scuola, Luca ne aveva avuti già quattro. L’asilo non è scuola, quindi non conta. La fine della scuola fondamentalmente era una bella cosa, significava dormire di più e dimenticarsi i quaderni in un cassetto, ma doveva anche ammettere, a voce bassa però, che era anche un piccolo dispiacere. Soprattutto, per Carlo, il suo migliore amico. Vederlo tutti i giorni non era una brutta cosa. Ma se si sforzava, si sforzava e si sforzava ancora, proprio non riusciva a ricordarsi di tanta agitazione. Non aveva ricordi di una faccenda tanto impegnativa.
A voler essere precisi, non si ricordava un gran ché…
Questo, però, era un ultimo giorno di scuola importante: era il quinto. Quello che lo avrebbe separato per sempre dalla scuola elementare, così diceva la mamma, quasi fosse una tragedia. A lui non sembrava poi così male. Ma lei era convinta che, quando avrebbe cominciato a frequentare le medie, non sarebbe più stato il suo Luchino. A lui non sembrava male nemmeno quello.
Carlo, il suo migliore amico, sarebbe andato con lui. Le loro mamme li avevano assicurati che sarebbero finiti nella stessa classe, così, il grande cambiamento che li aspettava, non avrebbe fatto loro troppo male.
Sarà un male come quello che prende alla pancia dopo tre fette, abbondanti, della torta di mele della nonna o somiglierà più a quello tremendo che viene ai denti dopo aver mangiato due porzioni di zucchero filato? Ultimamente Luca se lo chiedeva sempre più spesso, nessuno però si era preso la briga di spiegarglielo, ma era sicuro che lui e Carlo, insieme, avrebbero affrontato tutto. Anche la visita dal dottore. Perché c’era sempre la visita dal dottore dopo un Mal di Qualcosa, in quella brutta stanza piena di disegni attaccati alle pareti colorate e di giochi da bambini piccoli, per non parlare del barattolo delle caramelle gommose e appiccicose. E che dire di quel sorriso rassicurante che il dottore si stampa sempre in faccia, mentre con la mano scrive il nome di uno sciroppo cattivissimo da bere tre volte al giorno? Che avrà poi da ridere…
Insieme a Carlo, Luca avrebbe potuto affrontare tutto questo. E se le loro mamme dicevano che sarebbero stati insieme, non c’era da dubitarne. Non c’era niente che quelle due non riuscissero a fare. A volte, quando stringevano gli occhi, con le mani a reggersi la vita e il piede che picchietta per terra, c’era quasi da aver paura… Luca avrebbe voluto solo sapere perché continuavano a chiamarli con quei ridicoli nomignoli, Carlino, Luchino… BAH! Le mamme.
I rumori che arrivavano dalla cucina erano inconfondibili: mamma e papà che parlavano e il latte che sfrigolava…sicuramente era finito fuori del pentolino. Succedeva tutte le mattine. C’era anche il familiare odore di bruciacchiato….
La mamma lo vide subito, aveva ancora la mano sulla maniglia della porta di camera e solo mezzo piede in corridoio. Lei sapeva sempre quello che lui faceva e quando lo faceva. O, almeno, così Luca credeva. Si sforzò di sorriderle, non ci poteva credere, stava facendo una di quelle facce strane, quelle che si fanno ai bambini appena nati. Aveva portato le mani alle labbra e sembrava che la faccia si sciogliesse come un gelato in agosto sotto il sole: gli angoli della bocca scivolavano lenti verso il basso e anche gli occhi si piegavano piano piano, mentre tutta la testa si metteva appena di traverso. Il problema era che in corridoio non c’erano bambini appena nati, c’era solo lui. Quella faccia, dunque, era diretta proprio a lui.
Quando la mamma faceva così, gli veniva quasi il mal di denti.
Papà, seduto al tavolo di cucina, allungava il collo dalla porta e, con uno di quei sorrisi che si fanno solo al fotografo il giorno del compleanno davanti alla torta, gli faceva segno di vittoria: quello con i due diti che formano una V. Strano. Luca, in bagno, ci andava tutte le mattine, ma non aveva mai avuto tanto incoraggiamento.
Mentre Luca si guardava allo specchio, cercando di riconoscersi in quella faccia rassegnata e stanca che gli rimandava il vetro, si chiedeva se in quello stesso momento, anche Carlo, il suo migliore amico, nel bagno della sua casa in fondo alla strada, stava passando quello che passava lui. Anche lui aveva sognato un mostro che voleva mangiarlo? No. Carlo aveva solo un pappagallo e, anche con tutta la fantasia del mondo, non avrebbe mai spaventato nessuno. Era giallo e blu, e piuttosto spelacchiato.
Quel mattino, anche i genitori di Carlino erano strani come i suoi?
Mentre si asciugava il viso, si augurò solo che l’indomani tutto sarebbe tornato normale. Eppure, il suo amico Carlo diceva che il peggio doveva ancora arrivare. Secondo lui, e lui era un tipo molto saggio, aveva gli occhiali e leggeva tanto, le loro mamme li avrebbero accompagnati tutti i giorni in classe, alle MEDIE! Era strasicuro che ogni giorno avrebbero controllato i quaderni e i compiti e avrebbero anche preteso di risentire le loro lezioni, per non parlare degli incontri con le nuove insegnanti: avrebbero finito per scavare un viottolo casa-scuola scuola-casa! Alla fine, a scuola, nessuno li avrebbe potuti più sopportare e, nel peggiore dei casi, li avrebbero fatti restare a casa!
Secondo Luca, il suo amico Carlo esagerava un po’. Ma Luca era un tipo che, da tempo, aveva deciso di vivere la sua vita alla giornata, e non aveva intenzione di farsi spaventare. Preferiva non complicarsi il presente con i problemi del futuro. Troppo complicato. Per il momento, era troppo impegnato ad affrontare il suo quinto ultimo giorno di scuola, avrebbe pensato in seguito al suo sesto primo giorno di scuola.
Sarebbe stata una lunga, lunga, giornata.
In piedi, vestito come se fosse domenica, fissava il tavolo di cucina imbandito come per una festa. Ettore gli si strofinava ad una gamba, annusando nell’aria gli odori di un giorno speciale. Miagolò piano e scivolò silenzioso alla sua ciotola, speranzoso di trovarci qualche succulento bocconcino. Quel giorno non era previsto che qualcuno pensasse proprio al gatto: nella ciotola c’era solo un avanzo rinsecchito di croccantini. Sicuramente quelli al tonno.
Luca non poteva credere che avrebbe dovuto mangiare tutta quella roba.
La lezione sul cibo che gli impartiva la mamma ogni mattina, era chiara, cristallina: la colazione era un affare serio. Era il primo pasto della giornata, quello più importante, e doveva essere nutriente ma leggero. Non doveva appesantire troppo la sua già delicata digestione, ma doveva dargli abbastanza energia: il cervello aveva pur sempre bisogno di zuccheri! E, ogni giorno, a Luca toccava buttar giù frutta, cereali e latte. Il suo amico Carlo, almeno, aveva il permesso di mangiare due biscotti, a lui, era assolutamente vietato. Solo la domenica poteva sfogarsi…Quella mattina, però, qualcuno dal cielo doveva aver deciso di abolire ogni regola. C’era addirittura un cornetto farcito di cioccolata!
Non macchiarti, continuava a ripetergli la mamma; mangia quanto vuoi, ma non sporcarti i pantaloni; bevi il tuo latte con calma, ma cerca anche di sbrigarti perché proprio oggi non possiamo fare tardi. E passa una bella giornata, divertiti in giardino con i tuoi compagni, ma non cadere, che le macchie d’erba sono difficilissime da mandar via e, se corri troppo e sudi, togliti il gilet, ma toglilo subito, perché se sudi mentre lo hai indosso, toglierlo è peggio, e allora è meglio che lo tieni. E ricorda di non mangiare troppo a mensa, perché le mamme porteranno un sacco di cose buone per merenda, da mangiare durante la festa. Non vorrai mica che ti venga un bel mal di pancia?
No, Luca non voleva un mal di pancia, gli girava già abbastanza la testa; e, Si, avrebbe cercato di correre senza sudare troppo, anche se non aveva la minima idea di come si facesse; e ancora Si, avrebbe fatto attenzione a non cadere, più che per i pantaloni per i ginocchi che ci sono sotto; e poi di nuovo Si, avrebbe fatto attenzione a mangiare senza sporcarsi, anche perché di vestirsi di nuovo e di ricominciare tutto daccapo non ne aveva proprio intenzione. Che cosa avevano, poi, i vestiti che si metteva tutti i giorni? Quelli che se si sporcano non fa niente, tanto poi si lavano? E, Si, Si, avrebbe fatto in fretta: tutto pur di far finire quella faccenda velocemente. E poi di nuovo No, e ancora Si. No. SI. SI. No… cominciava a confondersi.
Luca non sapeva più quando scuotere la testa o annuire.
Parlare non poteva, suo padre continuava ad infilargli in bocca biscotti inzuppati di latte e a dargli colpetti sulla spalla: non era chiaro se per fargli coraggio o per fargli andare giù i biscotti.
Ettore continuava a gironzolargli intorno, attorcigliando il codone rosso alle zampe della sedia, con la grossa testa pelosa piegata verso l’alto e gli occhi grigi puntati al tavolo e a tutte quelle cose profumate che sicuramente c’erano sopra. Lui avrebbe voluto sicuramente assaggiare qualcosa di quello che Luca faticava ad ingoiare, ma mamma e papà erano troppo impegnati a far sì che quel suo quinto ultimo giorno di scuola fosse memorabile, per ricordarsi del gatto.
Mentre si lavava i denti, e ne aveva di cose da togliere, Ettore scivolò in bagno e saltò nella sua lettiera. Gialla, come le mattonelle. La lettiera è quella scatola bassa di plastica dove i gatti fanno i loro bisogni sopra dei piccoli sassi profumati. Luca non riusciva ad immaginare niente di più scomodo, ma al gatto non doveva dispiacere, considerato che, con tutto il giardino a disposizione, correva in casa ogni volta che gli scappava. Per un po’ lo invidiò, non per la lettiera, ovvio, ma perché presto lui, il suo mostro notturno, sarebbe sgattaiolato via, libero di rincorrere le sue farfalle o di addormentarsi all’ombra della siepe. Con la bocca sporca di dentifricio si alzò in punta dei piedi avvicinandosi più che poteva allo specchio, spalancò gli occhi e con la mano libera dallo spazzolino si tirò giù la palpebra di sotto. L’aveva visto fare alla mamma più di una volta, al mattino, lei sospirava, faceva una smorfia poco convinta e si cercava qualcosa negli occhi, solo che lui non ci vedeva niente. E non capiva nemmeno come ci potesse finire qualcosa dentro, non c’era abbastanza posto.
FLASH! E un lampo lo accecò. La mamma gli aveva appena fatto una foto. Ci mancavano anche le foto ricordo. Bene. Lo aveva immortalato in uno dei suoi migliori momenti, con lo spazzolino in mano e la bocca sbavata di dentifricio. Non c’era limite al peggio. Il gatto scavava furiosamente in quella manciata di sassolini che erano il suo bagno privato, come se stesse cercando il petrolio, e invece voleva solo coprire la sua pipì. I gatti sono delle creature pulite. All’improvviso scappò via. Anche Luca voleva scappare. Non troppo lontano, però. Giusto sotto la siepe, con il gatto.
Sarebbe stata una lunga, lunga giornata.
Il papà, invece del solito bacio sulla guancia, lo abbracciò forte, gonfio di orgoglio. Luca temeva che quando avrebbe visto la pagella si sarebbe sgonfiato parecchio, ma si guardò bene dal pronunciare una sola sillaba. Sorrise e si adattò a quella novità, chiedendosi se da quel giorno in poi lo avrebbe soffocato in quel modo ogni mattina. Il tempo dei baci era finito?
La mamma sfilò veloce, con il volante stretto nelle mani, davanti alla casa del suo amico Carlo, proprio mentre lui e la sua mamma stavano uscendo dal cancello.
Quel giorno nessuno poteva arrivare in ritardo. Luca sperava che almeno i custodi fossero arrivati.
Luca intravide appena il suo amico, seduto composto sul sedile posteriore e con la cintura di sicurezza ben allacciata, proprio come lui. Riuscì appena ad accennare un saluto con un gesto della mano. Una faccenda della durata di un battito di ciglia, ma abbastanza lunga da vedere la mano del suo amico che lo ricambiava e, soprattutto, abbastanza lunga da vedere sulla sua faccia la sua stessa espressione allucinata e rassegnata. In quell’attimo, gli fu chiaro che anche Carlino, come lo chiamavano in casa, e per fortuna non fuori, aveva subito le stesse speciali attenzioni che erano toccate a lui.
Luca sperò solo che i suoi genitori si ricordassero almeno di dare da mangiare al gatto, non ci sarebbe stato niente di peggio, dopo una lunga giornata come quella che lo aspettava, di un’altra mostruosa visita notturna al sapore di tonno.
I genitori, gente strana.
Racconto sui genitori ittaliani, almeno la maggior parte, così soffocanti, prodighi di attenzioni ed esagerati da causare stress nei propri figli. Quanto è vero! Racconto destinato ai bambini che ho trovato forse un tantino lungo, con l’incubo iniziale poco chiaro per un giovane lettore. Auguri per il concorso.
Continuo a fare un pasticcio dietro l’altro. Temo di aver inviato anche a te il mio commento precedente al tuo indirizzo personale… Chiedo perdono. Grazie ancora e di nuovo scusa.
Un grazie per la signora giovanna bertino. Non riesco proprio a contattarla nel modo giusto… sorryyyyyy…