Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Il campanello” di Andrea Polini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Erano quasi le tre di una notte di novembre. Una notte di pioggia, di attesa, di cattivi pensieri. In una vecchia palazzina ad un solo piano, Giovanni, seduto al tavolo di cucina, ogni tanto si affacciava alla finestra con la speranza, da un momento all’altro, di veder arrivare la macchina sportiva di suo nipote Kevin. Una macchina giapponese di cui non riusciva a pronunciare bene il nome della marca. Era una brutta notte, per Giovanni. Aveva freddo – d’altra parte, di notte teneva il riscaldamento spento per risparmiare sulla bolletta del gas -, ma più del freddo era la preoccupazione per suo nipote a dargli una sensazione di gelo interiore che nessun riscaldamento avrebbe potuto alleviare. Kevin era una testa matta – assomigliava troppo a suo padre Alfredo -, si diceva Giovanni, tornando con la mente a una decina di anni prima, quando dovette andare all’obitorio del cimitero comunale a riconoscere i corpi straziati di suo figlio e di sua nuora Jessica, dopo l’incidente che Alfredo aveva procurato guidando ubriaco e imbottito di cocaina. Erano precipitati con l’auto in un burrone, di ritorno da una notte trascorsa in un locale da ballo della Versilia. Ora Giovanni aveva sonno, aveva voglia di addormentarsi e spegnare i cattivi ricordi, ma si sarebbe sentito in colpa a non pregare per suo nipote finché non fosse rincasato sano e salvo. Per l’ennesima volta si alzò dal tavolo, dette un’occhiata fuori dalla finestra, per vedere se arrivava – ancora inutilmente -, poi, sempre più preoccupato, preparò la moka da una tazza e la mise a scaldare sul fornello elettrico. Nel frattempo, chissà per quale tortuoso percorso della memoria, gli venne in mente un’antica usanza di Barga, il suo paese natale. Di notte, un ragazzo girava in strada con un campanello in mano, e davanti agli usci delle case invitava i fedeli a pregare per le Anime del Purgatorio. Si disse che, alla sua età, erano tante le anime delle persone care defunte per cui pregare, ma soprattutto si sentiva in dovere di farlo per Alfredo e Jessica, morti troppo giovani e troppo lontani da Dio. Mentre il caffè scaldava sul fuoco, si chiedeva con insistenza se fosse stato un buon padre per Alfredo, avuto in età non più giovane, quando a prezzo di tanti sacrifici e tanto duro lavoro era arrivato a poter mantenere decorosamente una famiglia. A quei tempi pensava che voler bene ad Alfredo consistesse anche nel dargli le cose che lui non aveva avuto, convinzione che mantenne fin quando il ragazzo iniziò a farsi sempre più pretenzioso e a frequentare i falsi amici che lo avrebbero condotto sulla strada della tossicodipendenza. Con le lacrime agli occhi, ricordò sua moglie Nina, di quindici anni più giovane di lui, dicendosi che se non fosse morta prematuramente, forse anche il destino di Alfredo e Jessica sarebbe stato diverso. In fin dei conti, pensava, a suo figlio era stato capace di dare solo qualche bene materiale. Ciò che riteneva più importante al mondo – la fede -, Alfredo l’aveva sempre ignorata, quando non disprezzata. Si versò il caffè in una tazzina, e mentre che dai suoi occhi scendevano due lacrime di amarezza, concluse che nonostante le buone intenzioni era stato un cattivo padre. “Di buone intenzioni sono lastricate le strade dell’inferno,” disse, biascicando le parole, poi prese da sopra un mobiletto il Rosario della Madonna di Montenero, e tornò a sedersi al tavolo. Piano, sorseggiava il caffè, guardando la tenera immaginetta della Madonna con Bambino, e un po’ di pace scese su di lui, rendendogli più sopportabile l’attesa. “Quante grazie avrei da chiederti, Madonnina mia,” disse, con lo sguardo fisso verso il vetro della finestra. “Ma pregherò per le Anime del Purgatorio, come facevano i miei vecchi una volta, e per Kevin, perché quel ragazzaccio torni a casa sano e salvo.” Giovanni si sentiva gelare sempre più pensando a quali pericoli fosse esposto Kevin, là fuori. La strada, il maltempo, le cattive compagnie, l’alcool, la droga. E soprattutto se stesso, il suo pessimo carattere ereditato da un padre sconsiderato e, forse, anche da un nonno buono in modo un po’ sbagliato. Finì di bere il caffè, poi prese in mano la coroncina del Rosario e andò alla pagina dei Misteri della Gloria. Iniziò a recitare l’Ave Maria sottovoce, con devozione, facendo scorrere lentamente, uno dopo l’altro, tra le dita, i piccoli grani. Il dolce, lento pregare, il freddo, l’età avanzata e l’ora più che tarda lo fecero cedere al sonno. D’un tratto, si ridestò di colpo. Gli sembrava di aver sentito suonare il campanello. Per un attimo ripensò al campanello del ragazzo che la notte girava di uscio in uscio invitando i fedeli alla preghiera per le anime del Purgatorio, ma poi il pieno riaffiorare della coscienza lo fece approdare di nuovo alla nuda e cruda realtà, e il suo pensiero corse subito a Kevin. Gli sembrava di vedere, attraverso il vetro della finestra, un bagliore blu intermittente che poteva essere il lampeggiante delle ambulanze o delle auto della Polizia. Con la coroncina del Rosario ancora stretta tra le dita si alzò dalla sedia, e traballando raggiunse la finestra. Parcheggiata vicino al cancello, vide una “Cinquecento” di servizio dei Carabinieri, ma non riuscì a distinguere le figure dei militari che erano sul marciapiede. “Dio, perché…” balbettò. Gli sembrava di rivivere l’orrore della notte in cui morirono suo figlio e sua nuora. Se c’erano i carabinieri alla porta – si diceva -, il motivo era grave. Tante volte aveva pregato il Signore di non fargli più provare un simile dolore, forse il suo cuore e la sua mente non avrebbero sopportato un altro strazio, e sarebbe impazzito. Ma – si diceva ancora – i disegni di Dio sono imperscrutabili per gli uomini, e a volte bisogna rassegnarsi e sopportare quasi l’insopportabile. Con passo malfermo uscì dalla cucina, ed entrò nel piccolo ingresso per andare ad aprire la porta e il cancello ai carabinieri. Quando passò di fianco lo specchio che stava di fronte la porta del salotto, il campanello squillò ancora, e a Giovanni parve un rumore invadente, impietoso. Si disse che, forse, non era vestito in modo adeguato per ricevere i carabinieri – aveva addosso un pesante pigiama di lana, e ancora stringeva tra le dita la coroncina del Rosario -, ma era certo che avrebbero compreso le sue preoccupazioni notturne per Kevin, in modo particolare se, come temeva, gli era davvero accaduto qualcosa di brutto. Aprì la porta d’ingresso, e l’aria fredda della notte lo fece rabbrividire. Guardò a destra, verso il basso cancello che dava accesso al giardino. Tra due carabinieri – uno giovane e alto, l’altro più basso e anziano, con l’aspetto del buon padre di famiglia – c’era Kevin. Aveva sul viso un’espressione triste e arrabbiata. “Vi apro subito,” disse, poi pigiò l’interruttore per aprire il cancello. Ora sentiva il cuore sgravato da un peso. Sapeva che Kevin era quello che era, ma era vivo, e solo questo gli importava adesso. Mentre il ragazzo, accompagnato dai carabinieri, attraversava il giardino, Giovanni pensò che il suono del campanello di casa, quella notte, era stato simile, almeno nello scopo, al suono del campanello per le vie di Barga tanti, tanti anni prima. Quella notte – sperava -, il campanello di casa che i carabinieri avevano suonato, poteva segnare l’inizio della redenzione per il suo ragazzo. Una redenzione che – ringraziava Dio per questo – poteva avvenire ancora in questa vita.

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