Premio Racconti nella Rete 2013 “Balliamo?” di Fulvio Pierantoni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013La decisione era presa.
Pawel sedeva sulla sua solita sedia, fissando la deserta route 66, quasi sperando che il suo sguardo avesse il potere di attirare al suo distributore le automobili che invece, impietose, si ostinavano a non passare di lì. Dietro l’angolo le pompe di benzina, immobili, constatavano tristemente la propria inutilità. Era un pomeriggio di inizio aprile del 1968. Nonostante la primavera fosse appena agli inizi, l’aria era molto calda, non soffiava un filo di vento e Agneszka, dalla finestra, gli gridava qualcosa. “Che avrà da strillare tanto?”, pensò. Ma lui non aveva nessuna voglia di ascoltare. Aveva deciso, e non sarebbe tornato indietro.
Pawel e Agneszka erano fuggiti dalla Polonia nel 1939, evitando per un pelo i carri armati di Hitler. A quel tempo, lui era un medico di provincia alle prime armi, lei una ragazza di campagna, una paziente che si era innamorata del proprio dottore, e lo aveva sposato. L’invasione nazista aveva interrotto bruscamente le loro vite e i loro sogni, costringendoli a un’odissea che, attraverso la Russia, li aveva portati prima in Finlandia e poi in Svezia, dove erano rimasti per un po’. Successivamente, come tanti altri, avevano inseguito il sogno americano, e si erano trasferiti. Lui aveva fatto fatica a ricominciare la sua professione, soprattutto a causa della poca conoscenza della lingua, che si era rivelata un problema insormontabile per poter esercitare come medico. Entrambi non erano riusciti ad accettare la vita delle città americane. I figli non erano venuti. Così, a metà degli anni ’50 avevano rilevato un distributore di benzina nei pressi di un piccolo centro dell’Illinois, scegliendo di vivere isolati. La route 66 era uno dei percorsi principali per gli spostamenti da est a ovest, e questo avrebbe garantito il buon esito dell’iniziativa, o così avevano sperato. Ma nel 1956, con la decisione di Eisenhower di promuovere la costruzione di un sistema di autostrade, era iniziato il declino della storica ‘66’. Il traffico iniziò a ridursi, e con esso il loro entusiasmo e le loro speranze.
Agneszka sembrava avere smesso di chiamarlo, forse rassegnata. Lui si avviò dentro casa dalla porta posteriore, e andò dritto in camera da letto. Aprì un cassetto e ne estrasse una pistola, comprata per difendersi da possibili ladri in una zona così deserta, ma fortunatamente mai utilizzata. Negli ultimi anni, la depressione si era fatta strada dentro di lui, prima in modo strisciante, poi sempre più devastante, fino a prosciugare la sua voglia di vivere. Il rimpianto per un’esistenza che non era stata neanche vicina a quella che lui aveva sognato, lo aveva abbattuto moralmente e fisicamente, e aveva deciso di farla finita. Due colpi, prima uno per lei poi uno per se stesso. Del resto, cosa avrebbe potuto fare Agneszka da sola, laggiù? La pietà, più ancora dell’amore, gli facevano pensare che quella fosse la cosa più giusta da fare.
Prese dal cassetto la scatola con i proiettili, e lentamente caricò la Colt Single Action Army, inserendo nel tamburo tutti e sei i colpi, anche se ne sarebbero bastati di meno. Infilò il revolver in tasca, e si avviò verso la cucina. La vista di sua moglie alle prese con le pentole, che preparava la tavola per la cena ormai quasi pronta (“ecco cosa gridava…” gli passò per la mente), gli fece un’enorme tenerezza. Dopo tanti anni l’amava ancora moltissimo, e per questo l’avrebbe portata con sé.
Lei gli dava le spalle, era il momento giusto. Iniziò silenziosamente ad estrarre la pistola. Improvvisamente un rumore lo fermò, facendolo sussultare: era il suono di un clacson. “Clienti, proprio ora?”, pensò. Aprì la mano, e la tirò fuori dalla tasca, vuota.
“Pawel, clienti, vai!”
“Sì cara, vado, vado…”
Uscì fuori e lentamente camminò verso la pompa. Si muoveva a scatti, sembrava reduce da una trance ipnotica dalla quale quel suono l’aveva risvegliato, come lo schiocco delle dita di un illusionista. Nella macchina c’era una coppia giovane, di colore. Chiesero il pieno, e mentre il serbatoio si riempiva il ragazzo alla guida chiese se nella zona si poteva mangiare qualcosa.
“Da queste parti non c’è niente, dovete andare ancora avanti per almeno quaranta/cinquanta miglia.”
“Dio, cinquanta miglia… noi stiamo morendo di fame! Sa, mia moglie è anche incinta. Ma questo profumo da dove viene?”
“Profumo? Oh, questo è il bigos[1] preparato da mia moglie.”
“Senta, forse la proposta è un po’ pazza, ma non ce ne venderebbe un po’? Diana ha davvero bisogno di mettere qualcosa nello stomaco.”
In quel momento uscì Agneszka. Forse intenerita dalla vista della donna in stato interessante, che nel frattempo era uscita dall’auto per prendere un po‘ d’aria e sgranchirsi le gambe, intervenne a troncare la discussione:
“Ma che vendere? Ce n’è in abbondanza. Se non vi formalizzate, entrate e cenate con noi.”
Schiudendo la bocca in due sorrisi che lasciarono intravedere denti bianchissimi e un’ingenuità di stampo antico, Miles – questo era il nome di lui – e Diana accettarono con entusiasmo. Entrarono nella piccola sala da pranzo, e si accomodarono secondo le indicazioni della padrona di casa. Pawel era furioso, ma si sforzò di non darlo a vedere: tutto era solo rinviato di un paio d’ore.
Il pranzo era ottimo, e le due coppie presero velocemente confidenza. Pawel raccontò la loro storia, tenendo fuori per quanto possibile l’amarezza. Non c’era ragione di condividere i propri fallimenti con degli estranei. Dalle espressioni meravigliate e sinceramente interessate degli interlocutori si rese conto che, sfrondata del pessimismo estremo con cui lui non poteva fare a meno di vederla, la loro vita aveva agli occhi altrui un che di interessante, quasi di avventuroso.
“Quindi non eserciti più come medico?” chiese Diana
“No, da anni ormai. Non ricordo più nemmeno i fondamentali. Ma raccontateci di voi: cosa fate da queste parti, dove siete diretti?”
“Veniamo da Chicago, e andiamo a Memphis. Almeno per un tratto, abbiamo voluto fare la vecchia strada, ne abbiamo tanto sentito parlare.”
“Cosa andate a fare a Memphis?”
Qui prese la parola Miles, con il tipico atteggiamento di chi è talmente entusiasta di quello che sta facendo, da non cercare altro che l’occasione di raccontarlo a qualcuno, rinnovando così la propria sensazione di autocompiacimento. I due stavano recandosi nel Tennessee per incontrare Martin Luther King, e cercare di unirsi al suo seguito per le prossime ‘marce’ che erano in programma. Tutta la comunità nera americana era in fermento, si percepiva nell’aria il vento del cambiamento, e loro – soprattutto lui, era chiaro – volevano essere parte di questa fase storica, volevano avere un ruolo, per quanto piccolo. La decisione non era stata facile, specie per via della gravidanza di lei: ma era solo ai primi mesi, e che diamine, ci saranno pure dottori nel Tennessee! Così, Miles avrebbe abbracciato la causa dell’integrazione, mentre Diana sarebbe stata ospitata da parenti, in attesa di una sistemazione stabile per la coppia.
Osservare quei due, la loro fiducia illimitata nelle loro scelte, era commovente. Pawel non era mai stato razzista, anzi non era mai riuscito nemmeno a concepire l’esistenza del problema. Come avrebbe dovuto succedere – almeno così pensava lui – a chiunque fosse stato anche solo sfiorato dagli orrori del nazifascismo, non riusciva a capire come un aspetto legato alla pigmentazione cutanea potesse avere una qualsiasi influenza sull’atteggiamento nei confronti delle persone. Sembrava – era – una cosa pazzesca, incomprensibile. Di conseguenza, simpatizzava parecchio con le battaglie pacifiche portate avanti dal King, ed era rimasto commosso leggendo il testo del discorso di Washington, “I have a dream…”. Così, gli inaspettati visitatori riscuotevano tutta la sua solidarietà, contagiandolo con la loro euforia. Incredibilmente, in quel momento non ricordava quasi più lo sconforto di poco prima, e il terribile gesto che stava per compiere.
“Vi va un po’ di dolce? Mia moglie ha fatto i pierniki: sono come delle paste al miele, buonissimi e leggeri.”
Gli ospiti non tentarono nemmeno di resistere: se il dolce era buono come lo stufato, quel pasto improvvisato prometteva di diventare indimenticabile. Accettarono volentieri, e Agneszka portò in tavola un vassoio colmo di dolcetti di forme varie, ma tutti dall’aspetto molto invitante. Timorosa per la linea, Diana ne mangiò solo uno, mentre dopo pochi minuti Miles, che masticava pochissimo e quindi mangiava a velocità supersonica, ne aveva già trangugiati tre. Mentre era alle prese con il quarto, Agneszka accese la radio: avevano il televisore, ma in quel momento lei desiderava qualcosa che facesse da sottofondo, discreto e non invasivo. Un ritmo molto vivace si diffuse per la stanza, e per qualche minuto sembrò ipnotizzare il gruppo. Divertito, Miles si alzò e invitò la moglie a ballare. Molto esitante, lei accettò, e per qualche minuto i due danzarono avvinghiati, nonostante la musica proveniente dalla radio non fosse la più adatta per un “lento”. L’amore tra i due era palpabile, e Pawel pensò con nostalgia ai tempi passati.
La coincidenza temporale fu incredibile. Mentre i due ballavano, Miles allungò la mano e prese il quinto pierniki. Diede un primo morso, e in quel momento la musica si fermò. Dalla radio venne una voce professionalmente agitata, che annunciò l’interruzione delle trasmissioni per trasmettere una notizia straordinaria.
“Oggi alle 18:00, al Lorraine Motel di Memhis, Martin Luther King è stato assassinato. Il noto attivista dei diritti civili dei neri è stato colpito da un colpo di fucile, mentre si trovava affacciato al balcone della sua stanza…”
Non riuscirono a sentire il seguito della notizia. Miles impallidì, lasciò la moglie e guardò la radio, incredulo. Subito dopo emise degli stentati colpi di tosse: evidentemente un pezzo troppo grosso di dolce gli era andato di traverso.
“Aspetta, ti porto un po’ d’acqua” fece Agneszka, ma non servì. La tosse non cessava, Miles non riusciva a parlare, portò le mani alla gola mentre il suo viso assumeva un colorito spaventosamente bluastro.
Pawel ebbe un sussulto, qualcosa ritornò alla sua memoria. Da tempo non ricordava di essere stato un medico, ma davanti a quella scena qualcosa di non più praticato da anni, anzi da decenni, tanto da aver quasi perso la consapevolezza di averlo mai imparato, gli rivenne in mente.
“Ostruzione delle vie respiratorie… qualcosa bloccato nella trachea… la manovra di Heimlich![2]”
Mentre Agneszka gridava “Pawel!”, lui balzò dalla sedia. Non era sicuro di sapere quello che faceva, ma non ebbe il tempo di pensarci. Guidato in parti uguali dall’istinto e dall’incoscienza, si portò dietro all’amico sofferente e gli cinse l’addome con entrambe le mani. Chiuse il pugno sinistro, e con il destro lo afferrò e iniziò a dare una serie di spinte verso l’alto. Una volta, due volte, tre, non succedeva niente. Alla quarta spinta, una pallottola nerastra venne espulsa violentemente dalla bocca di Miles, che sempre tossendo iniziò a respirare e a riprendere, lentamente, il colorito naturale. Le voci si accavallavano:
“Amore, stai bene?”
“Dio, non riuscivo a respirare. Grazie, credo che tu mi abbia salvato la vita!”
“Pawel… bravo! Ce l’hai fatta!”
Lui era incredulo, quasi stordito. Sentì in bocca un sapore che aveva dimenticato, anche se negli anni felici della vita in Polonia gli era stato familiare: quello di essere stato utile, anzi di più, di avere evitato la morte di un proprio simile. Barcollando, sfuggì ai tentativi di abbraccio del suo involontario paziente, e di sua moglie, e tornò a sedersi. Si prese la faccia tra le mani per qualche secondo, e quando le aprì, si accorse che stava piangendo.
Era passata una decina di minuti, e l’atmosfera si era fatta surreale. I due viaggiatori si guardavano muti, scioccati non si sa se più dal pericolo corso, o dalla terribile notizia che lo aveva provocato. Silenziosamente si chiedevano l’un l’altro se il loro viaggio, a questo punto, avesse ancora senso. Anche i padroni di casa erano taciturni. A sbloccare la situazione fu Miles, che si alzò, e con un filo di voce si rivolse alla compagna:
“È meglio che andiamo, cara.”
“Va bene, ma… andare dove?”
“Io… non lo so. Ma intanto togliamo il disturbo.”
Né Pawel né la moglie ebbero il coraggio di protestare o pronunciare frasi di circostanza. Ci furono abbracci e strette di mano, le parole non potevano descrivere quello che ciascuno provava, per cui tutti si affidarono al più espressivo silenzio. Guardarono la macchina che si allontanava, chiedendosi cosa ne sarebbe stato di quei due. Poi tornarono in casa. Si era fatto tardi.
“Sono stanco, vado ad appoggiarmi sul letto.”
“Vai caro, io sistemo la cucina e arrivo.”
In camera, lui aprì un cassetto alla ricerca di un pigiama. Sentì qualcosa di metallico sotto le mani, e ricordò di avere nascosto la pistola, in fretta e furia, all’arrivo dei due ospiti. Che strano, da quel momento sembravano passati dei secoli: di quella decisione meditata ancora e ancora, e delle motivazioni che l’avevano provocata, non c’era più traccia. Sembrava fosse successo a un altro, come l’avesse visto in un telefilm. Si sentiva di nuovo utile, sereno. Vivo. Richiuse il cassetto e si diresse verso la cucina. Passando per il salone, lo sguardo gli cadde su un vecchio giradischi, con ammucchiati accanto dei 45 giri. Ne prese uno, lesse l’etichetta: ‘Moonlight serenade’, di Glenn Miller. L’ondata dei ricordi lo travolse: era stata la “loro” canzone, subito prima di scappare dalla terra dov’erano nati. Gli ricordava nello stesso momento i tempi sereni e la loro fine, l’amore e la fuga. Estrasse il disco dalla copertina e lo mise sul piatto. L’impatto con la puntina provocò inizialmente un fruscio, e subito dopo dolcissime note si diffusero per la casa.
Stupita, Agneszka si affacciò nella stanza, ancora con il grembiule allacciato addosso. Erano mesi, anni forse, che quel giradischi non veniva messo in funzione. A quell’ora poi! Fece appena in tempo a iniziare a parlare:
“Pawel…”
Ma lui la zittì gentilmente, portandosi un dito alla bocca. Poi le porse la mano, e con un gesto che era stato tipico della loro gioventù le disse:
“Balliamo?”
[1] Bigos: piatto tipico della cucina polacca, consistente in uno stufato di carne, cavoli e crauti, arricchito con spezie varie.
[2] La manovra di Heimlich è una tecnica di primo soccorso per rimuovere un’ostruzione delle vie respiratorie.
Bel racconto, con una trama credibile e coinvolgente. Belli i personaggi, bella l’ambientazione, bello lo stile. I miei complimenti.
Gran bel racconto, affronta in toni molto delicati il problema del razzismo ed il finale è davvero commovente! Bravo!!!
Molto dettagliata e non proprio comune l’ambientazione, importanti i temi affrontati con finale e mutamento psicologico del personaggio quasi commoventi. è stato il primo racconto che lessi su questo sito e mi è piaciuto molto
Storia ben strutturata, con personaggi che il lettore percepisce come veri e pulsanti nella loro umanità e non come distaccate e fantomatiche figure di cartone.
Un protagonista maschile sull’orlo del fallimento esistenziale. Una donna con cui ha condiviso tante avversità. E una giovane coppia di passaggio in cerca di un posto dove mangiare.
Nel mezzo della vicenda narrata irrompe un fatto di cronaca, destinato, nella sua tragicità, a diventare uno degli avvenimenti più importanti della storia americana.
Sullo sfondo ambientale una piccola città dell’Illinois, un luogo di passaggio, una route di collegamento tra est ed ovest ormai deserta.
Anche lo stile narrativo mi è piaciuto: sicuro, misurato, privo di inutili orpelli. Ogni frase viene messa al servizio della storia narrata.
In alcuni passaggi forse il racconto appare troppo “spiegato” e la narrazione un pochino didascalica, ma la storia è talmente coinvolgente e ben strutturata che si legge tutto con interesse.
Un racconto che lascia qualcosa che vada oltre il tempo della lettura: un’idea di fratellanza che l’autore ci dimostra essere non un concetto astratto e vuoto, ma un valore che si riflette sulla vita nostra e su quella di chi ci sta intorno.
Fratellanza che, in questo caso, per il protagonista, diventa addirittura un modo per ritornare a vivere.
Ottimo racconto.