Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “A volte ritornano” di Alberto Giusti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

A volte, ritornano. E spaccano prepotentemente il cuore in due, pretendendo di dare un colpo di spugna, quando i colpi, quelli duri, sono già stati incassati.

Devastare la tomba di un passato a cui forse ho fatto troppo presto il funerale, come se fosse del tutto normale. Già, perché chiunque, succube dello scorrere del tempo, sedimenta esperienze, emozioni talmente fresche e diverse le une dalle altre, che finisce per seppellire – realmente – il dolore.

Ma io no. Io sono come i cani: associo persone, cose, luoghi, alle sensazioni che ricevo. E se c’è una cosa che ho imparato col tempo, con quello stesso, inevitabile sbriciolamento degli anni, è che la memoria – quella della coscienza; quella che sta dentro, inconsciamente incontrollabile – ha impresso nitido, inviolato negli anni, solo lui. Solo il dolore.

Togliere la pelle, penetrare nel vivo della carne più rossa, per infilarsi nelle cavità ossee e mangiarti un po’ alla volta, giorno per giorno, fin quando ormai non te ne accorgi nemmeno; e ti senti leggero, anzi, come sgravato da un peso di sofferenza esistenziale a cui ormai ti sei affezionato.

E poi c’è quel momento, che irrompe in una tranquilla giornata di novembre, quando il telefono squilla ed una voce femminile ti sconquassa le budella: «Sei tu? sono La Lu.»

Panico. Vuoti cosmici accompagnano l’affannosa ricerca di un senso, di un qualcosa a cui aggrapparsi per tenersi lontano dalla vertigine vorticosa. E’ il virus, che si è improvvisamente ridestato dopo anni di quiescenza zen, immerso nella viscosità di un posto – probabilmente il subconscio – di cui non sai, o meglio, non vuoi sapere, l’esistenza.

«Non mi dice niente, mi spiace.»

La verità: confermare, con voce incerta, il timore che ho dentro.

«Ma si dai… In classe assieme… Alle medie…»

«Ah… Sì.»

Convincente quanto basta, in particolar modo per me stesso, quello che ha attraversato la palude stigia che ho nello stomaco ed è ri-uscito a riveder le stelle, portando a galla tutti quei ricordi.

È qui, pallido, di fronte a me: porta i segni della lotta con il suo gemello – la sua nemesi – per la supremazia su questi brandelli di esistenza preadolescenziale funestati dalla colpa (meravigliosa, oggi) di un diavoletto tutto rosso e speciale, che già in tenera età abitava dentro di noi.

Dentro di me.

Il resto del dialogo fu interpretato in maniera magistrale da un performer di rara perizia, il quale prese fiato, mi diede una pacca affettuosa sulla spalla – segno che dovevo necessariamente farmi da parte – prese fiato e cominciò a far emergere un’insicurezza ragionata, un’incertezza artificiosa ed artificiale, nel rispondere vago alle domande dell’interlocutrice di una galassia lontana:

«Guarda, in realtà devo pensarci, perché probabilmente quel weekend lì sarò via. C’è un’interessante ciclo di conferenze sugli orsi grizzly, quei bestioni di una tonnellata, sai?, e in quanto tesserato al WWF non posso assolutamente mancare. Comunque grazie per il pensiero.
«Non ti garantisco nulla… Si, si, tutto apposto, tu? Ti richiamo io, certo, stammi bene, ciao, ciao…Ciao.»

Cinque minuti. Ininterrotti. Fiumi di parole senza senso, descrizioni minuziose erette sul nulla, dissertazioni sulla consistenza dell’aria fritta. Che gran figlio di puttana, questo bizzarro caratterista, che mi lascia sbigottito, inebetito, con la cornetta in mano, quasi non fossi stato io a ricevere quella chiamata.

Ma di fatto è questa la realtà: cuore che batte forte; respiro lento, a catturare ogni microparticella d’ossigeno del bagno da cui stavo uscendo, e tante, tante lacrime, uscite da chissaddòve, perché mi sa che non sono i miei occhi, quelli che piangono.

Sono quelli di un tredicenne spaventato e paffuto, piccoli e neri, resi quasi brillanti dall’umido che li gonfia. È lì, allo specchio, che mi fissa con aria interrogativa, quasi a chiedermi chi fossi; ed è giusto così, perché lui, quella parte di me di dieci anni fa, non sa chi ha di fronte; sa solo, nella sua ingenuità, che sta male, che nessuno lo capisce, ma proprio nessuno, e cazzo è dura cercare, in mezzo alla gente, una risposta che solo il tempo ti può dare.

Allora stai fermo: conta i mesi, le settimane, i giorni, fin quando tutto questo finirà, e ti assicuro che finirà, quando sarai disperso in quelle corriere blu verso la città, vedere facce mai viste, sentire l’aria che ti taglia la faccia la mattina presto, perché sarai sempre il primo ad arrivare al portone, aspettando che ti aprano appoggiato alla colonna del portico, maledetto personale ATA, che mica si chiamano più bidelli adesso; quando il buio della sera ti farà venir voglia che venga subito mattina, prestissimo, per renderti ancora una volta conto che ne sei uscito del tutto.

Il buio, che adesso mi sta conducendo verso sensazioni che avevo completamente rimosso, e proprio non ce la faccio, mi sento tremare la terra sotto i piedi, cado.

Il buio.

Quando ritorno dentro di me e riunisco i pezzetti sparsi delle mie dramatis personae, sono disteso sul divano, la faccia umida.

È successo. Davvero.

Mi alzo, ho bisogno di una doccia. Stacco dalla presa la tripolare del telefono, perché non si sa mai che ritornino a chiamare proprio ora, nel momento in cui sono più debole, nel momento in cui non ho la forza di dire di no e sono ancora qui che gioco a pallone con gli altri, e probabilmente mi diverto anche.

Meglio non correre rischi.

Perché, a volte, ritornano.

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