Premio Racconti nella Rete 2013 “Fame” di Davide Nardi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013La sua era una fame atipica, involontaria. Mangiava non già per appagare un bisogno fisiologico ma, si sarebbe detto, per inerzia, per noia. Mangiava con la medesima frequenza con cui respirava, e anche più. Non c’era modo di tenerlo una volta che lo prendeva la fame, bisognava solo aspettare che finisse, che avesse la bocca vuota e la pancia piena. Allora era più docile e si lasciava rivolgere la parola. Mangiava, mangiava, mangiava in ogni momento della giornata, ogni occasione era buona per mangiare. Mangiava, tutto qua: mangiare era divenuta la sua unica occupazione, il solo esercizio cui applicasse un impegno costante. Inutile farlo smettere, inutile indurlo alla ragione: il più piccolo screzio era sufficiente a scaldargli il sangue e in un attimo diventava bizzoso, un vero mostro. Eppure, a vederlo, non era proprio grasso: era grosso, fuor di dubbio, un armadio, ma non era esageratamente grasso. O, almeno, non di una grassezza insana e anomala. Tutto quel cibo gli era necessario e trovava facile collocazione nell’immensità del suo corpo, tutto quel cibo che sarebbe bastato a sfamare un reggimento al completo era la quantità giusta per lui, né più né meno. Ma se eccedeva, anche solo di poco, la nausea gli serrava lo stomaco ed era quasi triste vederlo solitario, senza il suo solito masticare. Se invece gli capitava di mancare un pasto, evento piuttosto infrequente considerata la distanza brevissima, se non proprio nulla, tra l’uno e l’altro, entrava in astinenza e, a quel punto, avrebbe ingerito la prima cosa capitatagli a tiro. Incontrarlo in simili frangenti significava mettere a repentaglio la propria incolumità, e questo ben lo sapeva il giovane magro che lo assisteva di frequente in quelle grandi abbuffate, guardandosi però dal prenderne parte. Si concedeva, è vero, di tanto in tanto, qualche rimasuglio; avanzi che l’altro, con molta parsimonia, gli tirava dal tavolo. Allora si attaccava a quei resti masticaticci e, dopo averli esaminati con cura, ne spiccava i minuscoli frammenti residui. Mai che gli si offrisse una pietanza vera e propria: il grasso teneva, neanche a dirlo, per sé i bocconi migliori. Il giovane magro, che tutto questo vedeva, non ne aveva a male poiché quei pezzi d’osso e le bucce di frutta e tutto il resto erano bastevoli alla sua povera dieta; non avrebbe chiesto di più ed era ben felice di imboccare il grasso quando questi lo supplicava dolcemente di farlo. Ed ecco che subito gli avvolgeva una lunga tovaglia attorno al collo e con un grosso cucchiaio delle dimensioni di un mestolo, infornava il cibo selezionandolo accuratamente tra quello presente sul tavolo e alternandolo, qualora fosse necessario, con copiosi sorsi d’acqua che travasava da un barile apposito. Capitava spesso che il grasso si assopisse dopo aver mangiato e rimanesse per ore immobile nella stessa posizione; fortuna che il giovane magro aveva il buonsenso e l’accortezza di allontanarlo dal tavolo, perché la testa non gli ricadesse in avanti imbrattandosi tutta quanta. A fatica trascinava indietro la sedia, un’operazione immane per una personcina tanto gracile e minuta, e l’altro neanche s’avvedeva di quel lento, impercettibile, trascinamento; affondava la testa nel petto ampio e villoso, con ronfi sonori. Quindi, sbrigato l’onere maggiore, passava ad ispezionare la tavola, riunendo gli avanzi in un largo piatto da portata che richiudeva con il suo coperchio, sia per proteggerli dall’assalto di mosche e tafani, abbondantissimi in quelle zone, sia perché sapeva che, una volta desto, il grasso ne avrebbe desiderato ancora. Mai lo sfiorò la tentazione di assaggiarne un poco, pur conscio che parti così prelibate e succose non gliene sarebbero toccate più. Non che non avesse fame, ne aveva moltissima in verità, ma la nascondeva; il fatto è che era tanto asservito al suo ruolo, e poi lo disgustava la semplice vista di tutto quel cibo trangugiato e rimestato e azzannato senza pietà. Il grasso, sospettoso di ciò, riponeva piena fiducia nel giovane magro e gli era fortemente grato di ritrovare sempre, ad ogni risveglio, il suo buon cibo intatto, proprio come lo aveva lasciato. Finora non si è detto, ma il lettore accorto lo avrà forse intuito, che a imbandire quei trionfi gastronomici degni di un Trimalchione, era sempre il giovane magro. Trafficava in cucina da mane a sera, provandosi di esaudire tutte le voglie culinarie del grasso, ed era al settimo cielo quando i suoi sforzi venivano ripagati, meno quando i suoi intingoli troppo sofisticati non incontravano il meritato consenso. Lo capiva subito da come il grasso masticava. Se masticava piano e rimaneva qualcosa nel piatto, fatto assai raro, di sicuro aveva avuto difficoltà a mandarlo giù. Se masticava meccanicamente fin quasi a ingozzarsi, allora era da credere che tutto fosse di suo gradimento e, nel migliore dei casi, il grasso lo avrebbe convocato al tavolo per inondarlo di ossequiose congratulazioni. Ciò esortava il giovane magro a far sempre meglio. Va pur detto, a onor del vero, che il giovane magro era molto scrupoloso e autocritico, motivo per cui non faceva mai uscire dalla cucina un piatto senza averlo prima pensato a lungo. Qualche volta, azzardando, licenziava anche prodotti meno perfetti; poco dopo se li vedeva restituire accompagnati da dure rimostranze. Non era certo il tipo vanitoso da sentirsi leso nell’orgoglio soltanto si mortificava di non essere sempre all’altezza del compito richiesto. Il grasso, persona oltremodo comprensiva, non gli faceva pesare troppo queste sue mancanze, offrendosi di buon grado da cavia, l’accordo era ch’egli avesse sempre qualcosa da metter sotto i denti, buona o cattiva che fosse.
“Perché non ti siedi al tavolo con me e mangi qualcosa?” gli chiese un giorno, notandolo pericolosamente deperito e in pericolo per la sua salute.
“Non posso” rispose il giovane, tenendosi a distanza con un nuovo piatto fumante fra le mani.
“Possibile che tu non abbia mai fame?”
“Sono affamatissimo, signore, ma le ripeto che non posso”. A quelle parole, il grasso fece scivolare a terra un barattolo colmo di olive dall’aria veramente appetitosa che l’altro neppure toccò; non accettava più cibo da parecchi giorni e tutti gli avanzi venivano buttati ai cani.
“Davvero non capisco perché tu non debba mangiare, se hai fame” disse il grasso, senza interrompere la masticazione e ingegnandosi allo stesso tempo affinché il cibo non trasbordasse dalle sue fauci; poi, con un calcio, gli avvicinò una sedia:
“Accomodati, oggi sei mio ospite”
Il giovane, imperterrito, restò fermo sulle sue posizioni, facendo mostra di dissentire, quindi, con compunzione:
“Qualcuno dovrà pur cucinare- disse- C’è bisogno di qualcuno che cucini e di qualcuno che mangi, Continuiamo pertanto a fare ciò che ci riesce meglio”
“Ma questo non ti obbliga a non mangiare”, insisté il grasso.
“Io mangio, mi creda, ma la mia è una fame diversa. Questo cibo è per lei, a me non piace più” e, così dicendo, depose il piatto sulla tavola ingombra e, come ne sfilò il coperchio, ne sortì un profumo gradevolissimo da metter voglia. Di certo era il più bel piatto e il più buono che il giovane magro avesse mai preparato, il grasso lo sbafò senza riguardo e ne chiese ancora. Il giovane, compiaciuto, corse in cucina a prepararne dell’altro: era un piatto rischioso, elaborato, in cui aveva mischiato un po’ di tutto e già presagiva, in cuor suo, che non sarebbe stato facile replicarlo alla lettera. Ma più di ogni altra cosa gli premeva di accontentare il grasso.
Il racconto lascia nel lettore un’impressione fortissima di angoscia e nello stesso tempo il desiderio di “saperne di più” sul giovane magro. Nella sua brevità, è un piccolo capolavoro, anche per lo stile asciutto e incisivo.
Bravissimo Davide,bellissimo racconto scritto in maniera davvero impeccabile,ancora complimenti!
Ho trovato molto interessante la profonda distanza emotiva che separa i due personaggi, i quali con particolare zelo tentano di contentarsi a vicenda. Ma dai loro gesti traspare soprattutto una patente goffaggine, come conseguenza dell’incomunicabilità che regna nei rapporti umani di cui il racconto manifesta l’ambiguità. Lo stile disinvolto ben si accomoda alla sensazione di disagio che suscita il contenuto.