Racconti nella Rete 2009 “Non le nuvole, nè gli alberi” di Giovanni Cicero
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Il fruscio delle foglie calpestate, nel vialetto del parco, era l’unico rumore che si udisse in quel momento. Lo percorrevo a passi lenti, assaporando il tepore dell’ultimo sole autunnale, immerso nella solitudine e nella volontà che essa rimanesse tale per un tempo indefinito. Sotto il peso dei miei pensieri, mi chiedevo perché mai si è costretti, in questa vita, a dar conto di tutto a tutti fin dal primo vagito e perché, ad un certo punto, non si possa, invece, rinchiudersi nel proprio guscio, isolandosi dalla società e dal mondo intero, senza dar fastidio a nessuno e badando soltanto a se stessi, aspettando la fine. Raggiunsi una panchina, per metà illuminata dal sole e lì mi sedetti. Chiusi gli occhi e rimasi ad ascoltare il silenzio irreale di quel parco, dove solo qualche rara folata di brezza riusciva a smuovere le foglie che ancora resistevano attaccate ai rami degli alberi e quelle che già erano cadute, vinte dalla secchezza. Mi assopii, e il tempo che trascorsi così, sospeso nei miei pensieri, trascorse senza che ne ebbi avuto coscienza. Talvolta, pur nella semi-incoscienza in cui mi trovavo, percepivo un’ombra attraversarmi il volto, forse una nuvola, pensai, o l’ombra dei rami degli alberi sotto i quali ero seduto, mossi dal vento. Ma non c’era vento e l’ombra, ora, persisteva. Aprii gli occhi, e sobbalzai.
“Ma chi è lei?” quasi gridai.
Il signore seduto accanto a me mi guardava come stupito, col mento appoggiato al suo bastone, a due passi dal mio viso. Era lui, dunque, che m’aveva fatto ombra, e non le nuvole, né gli alberi.
“L’ho spaventata?” –mi chiese, con una voce profonda.
Era vestito di scuro, con un abito nero coperto da un impermeabile. Appariva di una magrezza sconcertante e le mani appoggiate al bastone sembravano rinsecchite da una qualche forma di artrosi. Ma non era vecchio, sebbene fosse difficile riuscire a dargli un’età.
“Sì, mi ha spaventato –risposi- soprattutto perché non l’ho sentito arrivare”.
Sorrise, mostrando una dentatura perfetta- “Oh, beh, succede spesso che la gente non senta arrivarmi, sebbene io faccia di tutto per non cogliere nessuno alla sprovvista. Ma il fatto, generalizzando un po’ il discorso, è che tutti, in questa vita, abbiamo la tendenza a sottovalutare certi segnali ed a non saper interpretare certi segni che potrebbero servire a farci aprire gli occhi ed a farci riconoscere meglio la realtà nella quale siamo immersi. Non è d’accordo con me?
“Sì, potrebbe essere –risposi- anche se non sono sicuro a cosa lei voglia riferirsi di preciso”. Nello stesso tempo, mi chiesi perché stessi lì ad ascoltare quello sconosciuto, quando il mio desiderio, fino a poco prima, era stato quello di starmene da solo con me stesso ed i miei pensieri e le mie preoccupazioni.
Parlò di nuovo, come intromettendosi a commentare i miei pensieri: “Stare da soli non è la soluzione dei problemi, mi creda. Isolarsi è una forma di fuga e fuggire dai problemi non è mai un buon metodo per risolverli. Ammesso, beninteso, che si possa risolverli”.
Sorrisi amaramente: “Infatti. E questo purtroppo è il mio caso”.
Poi mi chiesi chi fosse e come aveva fatto ad indovinare quello che stavo pensando.
Mi prevenne. “Oh, ma io non mi sono ancora presentato! Mi perdoni. Il mio nome è … Faustus. Dottor Faustus. Piacere di aver fatto la sua conoscenza diretta, signor Offa”.
“Lei … mi conosce?” -chiesi, allungandogli meccanicamente la mano in risposta al suo saluto.
Mi fissò con uno sguardo penetrante che sembrava provenire da lontano. “Io conosco tutti- disse- o, almeno, ho imparato, durante il mio lungo peregrinare per il mondo, a conoscere bene ogni tipo di persona, e come essa è … Lei, per esempio, in questo momento è molto preoccupato, se non sconfortato, sebbene …”.
“Sebbene?”- chiesi, incuriosito.
“Sebbene, lei stesso, col carattere che si ritrova, o col carattere che lei credeva di avere prima di oggi, si stupisca di sentirsi assai meno scoraggiato e sconfitto di quanto avesse mai supposto, pur ritrovandosi all’improvviso nella situazione nella quale ha appena scoperto di essere”.
“E’ vero- ammisi- ma lei come fa a sapere queste cose?”
“Gliel’ho detto. Ho imparato a conoscere le persone”.
Tacqui, non sapendo cosa aggiungere. D’improvviso, mi sentii anche molto stanco e svuotato, e mi sentii combattuto fra due opposti sentimenti: da un lato, ero incuriosito da quel personaggio un po’ originale che mi era parato innanzi proprio in quel momento, ma, dall’altro lato, mi sentivo contemporaneamente anche infastidito dalla sua presenza, che mi distoglieva dalle preoccupazioni che occupavano i miei pensieri da quella mattina, quando mi era stata comunicata la notizia che avevo un male incurabile. “Ecco cos’era questa tosse insistente- avevo pensato subito- altro che bronchite mal curata”. E la cosa che mi aveva fatto più male era stato l’aver scoperto che tutti sapevano questa cosa da tempo e nessuno aveva voluto dirmi niente. Mi ero quasi arrabbiato più per questo fatto, che per l’aver scoperto di essere ammalato. E così me ne ero voluto uscire da solo, quel pomeriggio, per rimanere con me stesso e con i miei pensieri e mi ero ritrovato, così, in quel parco. E poi avevo incontrato questo tizio stravagante che sembrava conoscermi e che aveva indovinato che in me c’era qualcosa che non andava.
Mi guardai attorno e mi accorsi che la sera stava già calando. Tutto era stranamente deserto e, facendo bene mente locale, mi accorsi che non s’udiva neanche alcun rumore. Alzai meccanicamente lo sguardo e vidi che i rami e le foglie dell’albero sotto il quale ero seduto si muovevano, smosse dal vento, ma non udivo niente. Anzi, notai, non sentivo neanche l’alito del vento posarsi su di me. Mi voltai di scatto.
Il signore di poco prima non c’era più! Dov’era andato a finire? Mi alzai dalla panchina e lo vidi in fondo al vialetto camminare lentamente, dirigendosi verso l’interno del parco. Lo chiamai, istintivamente, e quello si fermò, e si volse a guardarmi. Improvvisamente mi sentii incerto sul da farsi. Ero a metà circa del vialetto: alla mia destra vi era l’uscita, in fondo, mentre dall’altra parte, alla mia sinistra, dov’era quel tizio, il vialetto s’addentrava nel parco alberato. Mi mossi istintivamente verso l’uscita e in quel momento mi accorsi che un gruppetto di persone stava entrando nel parco. Parvero fermarsi per qualche istante, poi uno di loro indicò con un dito verso di me e cominciarono a correre. Mi spaventai e mi feci da parte mentre mi raggiungevano e mi oltrepassavano, quasi, sembrava, senza vedermi. Mi volsi e vidi che si dirigevano verso la panchina dov’ero stato seduto fino a pochi attimi prima. Facevano capannello, ma riuscii a scorgere il corpo riverso d’un uomo, accasciato su di essa. Guardai oltre, e il signore di poco prima era ancora là in fondo al vialetto, immobile. Mi avvicinai alla panchina, mentre sopraggiungevano altre persone, una delle quali, con una valigetta in mano, si fece largo e si affaccendava intorno all’uomo riverso. Mi venne un improvviso tremore e mi sentii addosso una sensazione di gelido.
Il corpo riverso sulla panchina era il mio. Ero io l’uomo attorno al quale quelle persone si accalcavano e sul quale, adesso, una di loro aveva posto un fazzoletto bianco sul volto.
D’improvviso, capii.
E capii anche che sarebbe stato inutile cercare di farmi vedere da quelle persone che, adesso, si erano aperte a ventaglio attorno al corpo senza vita che avevano davanti.
Ecco chi era, dunque, quell’uomo che mi si era presentato poco prima. Ecco di cosa parlava quando diceva che la vita ci mette davanti dei segnali di fronte ai quali, quasi sempre, non riusciamo ad interpretare il significato. Ecco cos’era accaduto quando mi ero seduto sulla panchina e, assopendomi, avevo percepito un’ombra attraversarmi il volto e l’avevo attribuita alle nuvole o agli alberi. Non di nuvole si trattava, né di alberi.
Mi avvidi che il signore in nero era ancora là ad attendermi e, lentamente, mi avviai verso di lui.