Premio Racconti nella Rete 2013 “FIATO CORTO”- storia di un autarchico mancato di Alberto Giusti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013In sottofondo: < Notte in Bovina – Calibro 35 >
Il sole ha il cancro, questa mattina: quel colore giallo, filtrato attraverso il grigio afoso di una cappa nuvolosa che stenta a reggersi in aria, e che da un momento all’altro potrebbe collassare sulle vostre teste. In realtà, è piuttosto simile a ciò che marcisce nei bidoni di pittura avariata – giusta osservazione, anzi ottima, per cominciare allegramente la giornata; ma è tutto ciò che viene illuminato, che in effetti inquieta, acquistando un che di rigogliosamente malefico.
Due occhi, all’apparenza senza un colore, tagliati da un raggio che va ad esaltare gli zigomi un pelo sporgenti, finendo su una ciocca di capelli ricci.
«Ehi, svegliati.»
Voce che ha un che di surreale – in piena follia onirica, sfiderei chiunque a rendersi conto di cosa è reale e cosa no: chi cazzo sei? E, soprattutto, cosa vuoi da me? Sempre che io sia io, in questi deliri sonnolenti disturbati da ronzii di zanzare. Ah, no: è quel rompipalle del ventilatore che si incaglia a un quarto di giro. I comfort delle camere ad ore.
«Dico sul serio, muoviti. Ci stanno addosso.»
Herbert Bocanegra apre vagamente un occhio, e continua a percepire una sensazione indefinita di mistero, panico e attrazione; improvvisamente, si ricorda una folle corsa a piedi, verso l’una di notte, fuori dal bistrot: forse che non abbia pagato il conto? Forse che un’orda di osti bisunti di grasso e pelati lo stia braccando, lurido scroccatore infame?
«Merda.»
Si alza di scatto: tira su quei quattro stracci, in fondo alla stanza, li infila nel sacco, controlla dove siano passaporto e spiccioli, e, coguaro, è pronto alla fuga. Corre verso la porta, si lancia verso la rampa di scale, le mangia a due a due, a quattro a quattro, finché, con un balzo da cestista, atterra sul piano terra in granito.
Strana sensazione. Manca qualcosa.
O qualcuno.
«Merda»
Sembrano quelle scene dove il protagonista viene rincorso dai Bobbies, i quali poi improvvisamente si ritrovano, dopo una serie di centrifughe attorno a un albero, ad essere loro quelli rincorsi, e così via, in un loop dal dubbio humour inglese.
Herbert Bocanegra riprende fiato, se ancora ne ha a disposizione; risale le due rampe a due a due; a quattro a quattro; paonazzo, apre la maniglia e trova James Douglas, illuminato questa volta da un sorriso beffardo: «Li ho sentiti arrivare qui, a due strade più in su.»
«Ma allora… non è il pelato bastardo.»
«Se Nell’ FBI arruolino gente calva, non ci giurerei.»
«Quindi ieri sera…»
«Tutto apposto. Abbiamo mangiato, bevuto, riso alle spalle dei difetti di chiunque entrasse come facciamo sempre; poi abbiamo telato. La solita routine.»
«…non abbiamo pagato.»
«E con che cosa? In due abbiamo meno di duecento franchi.»
Sgranando gli occhi, gli apparve netta la compenetrazione del piano reale e di quello del sogno; agnizione che però era destinata a durare giusto quaranta secondi appena, dato che una sirena stava avvicinandosi sempre di più, coprendo il ronzio del ventilatore elettrico della stanza.
«Hai un’idea?»
«C’è un tizio dalle parti di Saint Charles . Mi deve dei soldi, ed ha un materasso a molle.»
«Gran lusso.»
Risero, i loro denti resi in controluce un po’ più sporchi del loro naturale avorio dall’alba malferma sulle nuvole di smog. La miglior medicina contro la tensione.
Pochi istanti dopo, una Citroen Pallace color canna di fucile era pronta sul retro dell’albergo.
Un viaggio, verso la zona della stazione, solcando felpati le vie periferiche attorno all’Opera: ogni incrocio, una possibile trappola, ogni macchina, un possibile sospetto.
Fuga.
Nessuna prospettiva, se non quella di essere in perenne stato di preallarme, col risultato di notti insonni dentro scantinati di amici fidati o umidi ostelli di menefreghisti albergatori interessati solo ai soldi, per altro troppi, che ricevevano in cambio di una rete buttata su una specie di orso scuoiato macchiato qua e là che doveva costituire la “moquette”.
Ma quando sei costretto a farti terra bruciata attorno, passi sopra tutto: famiglia, amici, pseudo-fidanzate, lavori fissi e piacevoli; ciò che conta è la libertà: schivare e rispondere; guerriglia contro lo stato, le istituzioni; di lotta attiva e passiva al tempo stesso.
Ci saranno momenti come questo, in cui con la coda tra le gambe ci si vergogna di subire; ma ci saranno anche duri scontri, barricate, lanci di pietre e molotov, pestaggi a sangue, devastazioni di interi quartieri. Tutto ciò, per poter orgogliosamente gridare, come i Clash di Joe Strummer nel 1979, “Ho combattuto la legge, e la legge ha vinto.”
Ma intanto, ho combattuto.
E intanto, James Douglas ha appena frenato la sua corsa un oscuro caseggiato, in Rue Becquerel. Herbert Bocanegra scende; «Aspettami sopra», mormora James Douglas, «Vado a mettere la macchina sulla strada principale. Devi seguire la scala fino all’ultimo piano; la porta è la 3 B.»
Nella tranquillità delle sei e un quarto,nessuno lo vedrà camminare rasente ai muri, topo di fogna dal sangue latino amaro, nessuno lo scruterà, con aria suspiciosa, a colpi di paso-doble strisciare fino alla soffitta del civico 243, settimo piano, interno 3 B, nessuno, come del resto era il risultato successivo al colpo di nocche che Herbert Bocanegra esplose, fiaccato dalla fatica delle rampe, contro la porta.
“E’ aperta. Io entro.”
Sono i pensieri di Herbert Bocanegra, che potrebbe benissimo urlare nella tromba delle scale, perché tanto, non c’è nessuno.
Ma Nessuno, si dà il caso che sia anche il nome di quell’agente della sezione investigativa della Sicurezza Nazionale, oltre la soglia, nascosto da un cono d’ombra a ridosso del corridoio d’entrata. Il sole, allo stadio terminale, ormai è abbastanza alto da tagliare in due questa soffitta vaporosa e lisergica.
Herbert Bocanegra non lo vide in faccia, perché la prima – e l’ultima – cosa che vide, fu una Walker P 38 Parabellum con silenziatore che decise deliberatamente di sfondare il suo cranio dalla glassa di Valium.
Forse l’oroscopo aveva ragione: “ Salute e lavoro in crescita costante; diffidate degli amici stronzi, cocainomani e puttanieri che girano con una Citroen Pallace ”.
Mai dare contro agli oroscopi. Ci sono persone che non escono di casa, senza aver letto prima quello che le stelle hanno previsto per la loro grigia e monotona giornata lavorativa. D’altronde, la monotonia uccide; meglio credere alle stronzate degli astrologi, che al dottore, nella consueta visita di controllo trimestrale, durante la quale ti fa notare l’evidente “divergenza di opinioni” tra un carcinoma al terzo stadio inoperabile e due pacchetti di Gitanes senza filtro al giorno; che alle previsioni meteo che ripetono da due interminabili settimane che il caldo è in calo, quando alla mattina alle dieci e quarantacinque – ora della colazione – in casa ci sono ventotto gradi.
Tutto è costante, tutto è chiaro, tutto è razionale. Così come ai nostri occhi è chiara la maldestra fuga di James Douglas, che nella ventiquattrore dentro il baule sa che ci sono la bellezza di cinquecentomila franchi: più di quanti ne abbia vista in tutta la sua misera e vagabonda esistenza di rockeur de rue.
Maldestra, ho detto, perché non sa che successivamente alla messa in moto, alla scintilla che la candela saetterà per causare lo scoppio della benzina nei cilindri, un boato sordo sveglierà la cittadinanza di artisti falliti che abita queste topaie grigie dall’intonaco scrostato.
La Citroen canna di fucile è diventata un’immensa palla di fuoco, che sembra contrastare con l’evidente pochezza della luce solare, ribadendo la falsa supremazia dell’uomo sulla natura.
Non una goccia di sangue, dal corpo di James Douglas, che ormai non si può nemmeno definire “corpo”, poiché è un tutto con la tappezzeria dei sedili.
Sangue, ho detto: ne finì un po’ sulle scarpe francesi del suddetto agente, scagnozzo dall’aria seria e fidata, di quelli che li riconosceresti a due chilometri solo per il fatto che camminano gonfiando i pettorali, la mascella quadrata intenta a scrutare qualsiasi filo-comunista si aggiri per gli Champs Èlysées, rovinando lo shopping spensierato del parigino medio.
Rumore, questo sì; ma la signora Girardin del piano di sotto non ci sente proprio un cazzo – beata vecchiezza!
Così siamo di fronte a due cadaveri: Herbert Bocanegra, ricercato da una sezione speciale dei servizi segreti, in quanto depositario di un eversività generazionale; James Douglas, un lurido e pidocchioso musicista di strada che cercava di espandere un po’ – vittima della stag-flazione post ’77 – il suo “business” in Francia.
L’agente Nessuno chiude delicatamente la porta a chiave; getta un sacco di iuta neri su un camion dell’immondizia che, guarda caso, si trova sotto la finestra minuscola della topaia lisergica di Rue Becquerel. Fa sparire tutto: foto alle pareti, copertine di giornali sparsi sul tavolo; quarantacinque giri di Miles Davis; cartacce scarabocchiate qua e là sul tavolo bagnato di Jack Daniels; due riproduzioni litografate di William Blake, ed infine quelle foto alle pareti dove ci sono quattro hippies che posano sulla spiaggia di Santa Monica, California.
Qui non c’è niente, non c’è nessuno, non c’è stata anima viva che abbia mai dimorato all’interno di questa cella dalle pareti acide, e non ce ne sarà mai più un’altra.
Domani la Municipalità eseguirà la demolizione del vecchio palazzo popolare degli artisti in Rue Becquerel, per far spazio ad un centro commerciale dove – oltre alle caféteries intellettuali che stanno ormai dilagando in tutta la città – la generazione industriale post-punk, alle soglie del nuovo decennio, potrà sperperare denaro, alle spalle degli onesti lavoratori che hanno duramente combattuto per le loro Timberland.
“Non si esce vivi dagli anni ottanta”.