Premio Racconti nella Rete 2013 “L’anfiteatro di Castruccio” di Giovanni de Liguoro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Conobbi Castruccio in terza classe alla Scuola Elementare di San Marco. Abitava in Piazza dell’Anfiteatro; una zona bellissima della città di Lucca, ma a quei tempi assai degradata. Sua madre faceva la venditrice ambulante di frutta e verdura; era vedova e aveva messo al mondo Castruccio diversi anni dopo la morte di suo marito, dal quale aveva avuto un altro figlio emigrato poi in Canada. In conclusione, Castruccio era senza padre e non aveva conosciuto neppure il fratellastro. Viveva libero e selvaggio come un ragazzo di strada. Era sporco e trasandato. Nessuno, in classe, lo vedeva di buon occhio, anzi, quasi tutti lo scansavano e io ero forse l’unico che lo teneva in considerazione. Fu per tale motivo che si accostò a me e, ben presto, divenimmo amici. Perciò la Maestra ci mise assieme, allo stesso banco.
Dovevamo apparire davvero una strana coppia. Io biondo, con una testata di riccioli come un cherubino, pulito, ben vestito e curato. Lui moro, con la testa sporca e i capelli cortissimi, maldestramente acconciati da sua madre; vestito di straccetti logori. Sembrava davvero uno scugnizzo. L’unica cosa che ci assimilava era la magrezza; eravamo infatti tutti e due “secchi rifiniti”: lui perché affamato, io disappetente.
Mamma mi metteva ogni mattina in cartella un’abbondante colazione senza immaginare che, nella pausa di ricreazione, la davo interamente a Castruccio il quale la divorava con grande soddisfazione reciproca. Ci volevamo un gran bene e il mio amico non perdeva occasione per dimostrarlo. Ricordo che, a causa dei miei capelli troppo lunghi, alcuni compagni mi canzonavano. In quelle, e in altre evenienze, Castruccio mi difendeva “ a spada tratta”.
La nostra consuetudine cresceva col tempo e giovava ad entrambi. Castruccio era molto intelligente e particolarmente abile nella soluzione dei problemi; io decisamente più bravo nello sviluppo dei componimenti. Grazie a lui arricchivo inoltre il mio vocabolario di parole mai sentite prima, quali: “cazzo, casino, stronzo e budello”. Quest’ultimo termine, in particolare, mi piacque assai; così, il giorno stesso che l’appresi, appena vidi la mia sorellina, le dissi subito che era proprio un bel budello. Purtroppo mamma era a portata di mano. La sua reazione fu di quelle che lasciano letteralmente il segno e non si possono più dimenticare!
Castruccio aveva pure l’abitudine di “tirare moccoli” e anche quella per me era una novità. Provenivo infatti da una famiglia borghese, ortodossa e puritana, ove l’idea di bestemmia non era neppure ipotizzabile. Devo dire, comunque, che non mi scandalizzavo quando il mio amico bestemmiava. Mi rendevo conto che lo faceva per abitudine, senza alcuna malizia. Il suo, in definitiva, era un innocente intercalare. Ad ogni buon conto gli chiesi di non farlo più.
Quando uscivamo da scuola Castruccio m’accompagnava a casa sul Borgo Giannotti, vicino Porta Santa Maria. Lui proseguiva, quindi, fino all’Anfiteatro, ma spesso, rincasando non trovava nessuno ad attenderlo. Perciò chiesi ed ottenni dai miei genitori il permesso d’invitarlo. La prima volta che mamma lo vide, l’accompagnò subito nella stanza da bagno e lo fece lavare ben bene; quindi lo rivestì completamente coi miei abiti. Castruccio lasciava fare, ma io temevo che si sentisse a disagio o addirittura offeso. Lui invece sorrideva e sembrava contento con addosso i miei vestiti che gli stavano proprio “a pennello”.
Castruccio venne sempre più di frequente a casa mia. Dopo pranzo studiavamo e facevamo i compiti. In poco tempo divenne bravissimo, tanto che la Maestra lo elogiò più volte di fronte all’intera scolaresca. Tutto filava a gonfie vele, ma un giorno accadde l’imponderabile. Eravamo in casa a studiare e il mio compagno “tirò un moccolo”. Sfortunatamente mamma lo udì. Fu un disastro! Da quel giorno la mia casa gli fu proibita. Ne rimasi sconvolto. Più volte, piangendo, cercai di giustificarlo, ma mamma non si lasciò impietosire. Ancor più doloroso fu dovermi scusare con lui, perché il nostro rapporto di lealtà m’impediva di mentire. D’altra parte Castruccio era troppo furbo per non comprendere, ma vedendomi turbato, mi propose di continuare a vederci a casa sua all’Anfiteatro, anzi: al “Parlascio”, come lui usava chiamare quel luogo. L’invito mi parve straordinario; dovevo però inventare una scusa plausibile a mia madre. Lo feci con notevole riluttanza e ottenni l’agognato permesso.
La casa di Castruccio era davvero singolare. Vi si accedeva da Via dell’Anfiteatro, attraverso una scala stretta e buia che saliva fino al primo piano. Da lì si entrava nell’abitazione vera e propria, formata da poche stanze comunicanti le quali prendevano luce da un’unica finestra grande a da alcuni finestrini più o meno incassati in fondo a muri di notevole spessore. Il pavimento della casa era disposto su vari livelli che delimitavano ambienti diversi. Anche il soffitto risultava posizionato a diverse altezze, a seconda delle stanze. Queste ultime erano ulteriormente caratterizzate da varie sporgenze e rientranze delle rispettive pareti, le quali conferivano all’appartamento un aspetto davvero originale.
Arrivavo da Castruccio verso le tre del pomeriggio e ne uscivo intorno alle sei, dopo avere concluso i compiti; cosa che, di solito, sbrigavamo in fretta per poi dedicarci al gioco. Mi portavo dietro la cartella con i libri e un’abbondante merenda che davo subito al mio amico.
Questa consuetudine si protrasse fino al mese di aprile, e si concluse bruscamente, in maniera tanto imprevista quanto straordinaria, l’ultimo giorno di scuola precedente le vacanze pasquali. Quel pomeriggio avevamo appena iniziato a studiare, quando udimmo un rumore provenire dalla parete dov’era sistemato un vecchio armadio. Ci voltammo e vedemmo apparire un grosso topo. Castruccio si alzò immediatamente e cominciò a inseguirlo, urlando e gettandogli addosso alcuni oggetti. La bestia, spaventata, tornò rapidamente sotto l’armadio scomparendo alla nostra vista. A quel punto spostammo, con molta fatica, il mobile per cercare di stanare l’intruso, ma una volta riusciti nell’impresa, notammo soltanto un grande foro tra il pavimento e la parete. Avvicinandoci al pertugio ci accorgemmo che una vecchia mattonella di cotto era parzialmente sollevata da terra. La spostammo. Sotto c’era una mezzana spezzata. Togliemmo pure quella e il nostro sguardo si perse in un’ampia cavità buia e sinistra, dalla quale esalava un acuto odore di salnitro. Con una pila la illuminammo e ci apparve un ambiente misterioso, gremito di strane ombre inquietanti. Decidemmo immediatamente di esplorarlo. Ci munimmo di torce e pile. Legammo quindi una grossa fune alla grata della finestra, e ci calammo nel vuoto. Scendemmo per alcuni metri appoggiando i piedi su un muro scabro e sconnesso, fino a raggiungere il fondo.
Eravamo entrati in una specie di grotta stretta e lunga. Una parete recava ancora tracce d’intonaco. Esaminandola notammo alcuni graffiti incomprensibili e la figura ricorrente di un sole stilizzato. Sembrava la traccia disegnata da una persona desiderosa di luce e libertà. Probabilmente un recluso. Castruccio mi disse infatti, di avere saputo da sua madre che, anticamente il “Parlascio” era stato utilizzato come carcere. Rabbrividii all’idea di restare prigioniero in un simile luogo. Illuminando il terreno notammo che era coperto da una specie di polvere a forma di minutissimi aghi dalla vitrea lucentezza. Vicino alla parete di fondo il pavimento sembrava abbassarsi. Avvicinandoci potemmo scorgere una fenditura. La liberammo dai detriti. Si trattava di un pertugio scavato in maniera grossolana, ma sufficientemente ampio da consentire il passaggio di una persona. Vi entrammo uno alla volta chinando il capo e ci ritrovammo in un corridoio ben rifinito in laterizio, piuttosto alto e coperto da un’elegante volta a botte. Il nuovo percorso discendeva con andamento curvilineo. Lo seguimmo per un tratto che mi parve lungo. All’improvviso s’interruppe, e davanti a noi s’aprì un nuovo ambiente di forma quadrata. Fra il corridoio e il nuovo ambiente c’era un notevole dislivello e l’interno appariva ingombro di ruderi. Nel buio vidi brillare piccole luci sinistre. Spostando la pila illuminai alcuni ratti che scomparvero rapidamente negli anfratti del terreno. Avvertii allora i battiti del mio cuore farsi tumultuosi ed ebbi paura.
Castruccio sembrava sereno; eccitato in quel ruolo imprevisto di esploratore. Fu lui a prendere l’iniziativa. C’incamminammo fra vestigia di muri diroccati. In fondo alla stanza si apriva un ulteriore percorso. Lo illuminammo. Era una sorta di tunnel lungo e stretto, anche perché ostruito dal crollo parziale del soffitto. Per attraversarlo fummo costretti a farci largo fra le macerie, ma giunti quasi in fondo, la volta cedette del tutto alle nostre spalle, bloccando completamente la via di ritorno. Corremmo col cuore in gola verso l’uscita. Mi sentii in trappola; sepolto come uno zombi sotto terra, in un mondo perduto, dimenticato da secoli di storia. Mi scossi la terra di dosso. Le gambe mi tremavano. Castruccio ostentava sicurezza dandomi una certa fiducia. Intanto eravamo arrivati in una nuova cavità di vaste dimensioni, a forma circolare, dalla quale si dipartivano diversi ulteriori itinerari: ne contammo sei. Non sapevamo quale scegliere temendo di addentrarci in un labirinto senza uscita. Nell’incertezza illuminammo una ad una le nuove vie e così notammo, incisa su una delle pareti d’ingresso, la figura stilizzata del sole. Era identica a quelle incise sull’intonaco della prima stanza da noi visitata. Evidentemente era stata tracciata dalla stessa mano. La mano di un recluso, probabilmente fuggito scavando il varco che noi pure avevamo utilizzato, per seguire poi il medesimo itinerario fino a quel punto. La figura del sole poteva dunque rappresentare una via di salvezza. La seguimmo e dopo alcuni metri giungemmo in un vano cieco. Illuminandolo notammo sul terreno una sagoma inquietante. Ci avvicinammo timorosi e incuriositi abbassando le torce. Orrore!, i nostri occhi terrorizzati si erano posati sulla carcassa di un uomo.
Era un enorme scheletro ancora parzialmente vestito. Le ossa della mano destra sembravano stringere un punteruolo di ferro. Pensammo trattarsi del recluso fuggiasco; l’autore del simbolo solare che ci aveva fatto da guida. Un lungo brivido mi scosse le membra. Guardai Castruccio; era ancora intento a esaminare i resti mortali del fuggiasco, e sollevando quello che sembrava un lembo del vestito, apparve qualcosa di rotondo. Avvicinai la torcia e notai un oggetto simile a un piccolo baule di metallo bullonato e guarnito di cuoio. Cercammo di smuovere l’oggetto che risultò molto pesante e, dopo qualche tentativo, riuscimmo ad aprirlo. La nostra meraviglia fu così grande da sovrastare ogni altro sentimento.
Il piccolo forziere era colmo di monete d’oro che brillarono alla luce fioca delle pile quali vividi raggi di sole. Erano monete di varie dimensioni e struttura. Alcune a forma usuale di dischi metallici ben rifiniti; altre con bordi irregolari; altre ancora concave come cucchiai. Tutte quante raffiguravano su una faccia una testa coronata, probabilmente l’effigie di un imperatore romano o bizantino. Certamente lo scrigno era stato rinvenuto dal povero recluso durante la fuga, da qualche parte in quei sotterranei. Cercammo di portarcelo dietro, ma fummo costretti a rinunciare per il peso eccessivo. Decidemmo allora di prelevare tutte le monete che potevano entrare nelle nostre tasche; quindi riprendemmo il cammino a ritroso, fino alla grande sala circolare.
A quel punto dovevamo nuovamente decidere quale direzione seguire. Ci rimanevano quattro possibilità. Esaminammo attentamente ogni angolo della sala e le aperture degli anditi. Sollevammo quindi le pile verso il soffitto formato da una grande volta a crociera e lo esplorammo minuziosamente. In una zona della volta notammo pendere alcuni pipistrelli. – Chissà da dove saranno venuti! – dissi meravigliato a Castruccio. Il mio compagno, senza rispondere, si chinò, raccolse un ciottolo, e lo scagliò verso il soffitto. Un chirottero si mise allora a volteggiare. L’osservammo con le lampade. Dopo qualche volo a zig-zag imboccò uno dei quattro cammini inesplorati, indicandoci così una possibile via di salvezza. Lo seguimmo immediatamente lungo Il corridoio che sfociò in una stanza ingombra di terra e detriti, i quali formavano sulla parete di fondo, un cumulo alto fino al soffitto. Fu proprio guardando il soffitto che vedemmo finalmente la luce del giorno.
Io e Castruccio ci abbracciamo urlando di gioia. La salvezza sembrava ormai a portata di mano. Spegnemmo le pile e osservammo in alto una fessura tra la parete e il soffitto. Salimmo sul cumulo di detriti fino a raggiungere il varco. L’apertura era troppo stretta per permetterci di uscire, ma oltre il pertugio i nostri occhi increduli videro le piastrelle di porfido di via Fillungo e la gente camminare a pochi passi da noi. Riuscimmo allora, con mezzi di fortuna, ad allargare la fessura quanto bastava per la nostra salvezza e, con un ultimo sforzo, fummo nuovamente all’aria aperta. Eravamo sporchi come spazzacamini. La gente che ci vide apparire in quel modo, avrà immaginato che si giocasse a rimpiattino in qualche seminterrato. In effetti il pertugio da cui si proveniva era poco distante dallo scantinato di un palazzo quattrocentesco.
Così malridotti tornammo a casa di Castruccio forzando, senza problemi, la porta d’ingresso; quindi, per prima cosa, vuotammo le tasche per recuperare le monete. Le mie furono subito sul tavolo di studio, ma Castruccio, con immensa delusione, s’accorse d’avere perduto il prezioso carico. Le sue tasche infatti, forse per l’eccessivo peso, si erano lacerate vuotandosi completamente.
Povero amico mio, com’era mortificato! Cercai di consolarlo donandogli tutto il mio tesoro, ma lui non voleva accettare. Dovetti insistere dicendogli che, in definitiva, l’aveva trovato lui, che inoltre a me non interessava e, in ogni caso, non avrei saputo come giustificarlo ai miei genitori. Finalmente riuscii a convincerlo. Per lui quelle monete erano troppo importanti. Mi guardò con espressione di profonda gratitudine; i suoi occhi erano immensi come la sua anima. Rimettemmo poi in ordine la stanza e ci ripulimmo alla meglio; quindi ripresi la cartella e tornai a casa.
Dopo le vacanze pasquali feci ritorno a scuola, ma non vidi il mio amico. Lo cercai più volte, inutilmente, anche all’Anfiteatro. In classe l’aspettammo fino alla fine dell’anno scolastico senza sapere alcunché, né di lui, né di sua madre.
Trascorse ancora molto tempo in un’inutile attesa; il mio amico sembrava davvero scomparso nel nulla. Il suo ricordo però, era rimasto vivo in me e forte il desiderio di sapere cosa gli fosse capitato. Finalmente un giorno ricevetti una lettera dal Canada. Era proprio di Castruccio. L’aprii e la scorsi d’un fiato, con profonda emozione. Riportava queste parole:
– Caro Giovanni, spero che tu possa leggere questo scritto. Prima di tutto devo scusarmi per non averti dato notizie da quel pomeriggio trascorso assieme nei sotterranei del Parlascio. Posso ora dirti che la nostra scoperta e la tua generosità hanno radicalmente cambiato la mia vita. Da tempo mamma meditava di lasciare Lucca per ricongiungersi con suo figlio in Canada . Con le monete che hai voluto donarmi ha potuto realizzare il suo sogno. Quanto a me ho concluso gli studi a Toronto. Mi sono laureato in Ingegneria, sono sposato, e dirigo una grande azienda meccanica. Non ho più alcun bisogno materiale da soddisfare, mi manca solo la tua amicizia. Il ricordo di te, infatti, è la cosa più bella che posseggo, assieme a mio figlio che ha oggi l’età di quando ci conoscemmo e, non a caso, porta il tuo nome. Caro Giovanni, è davvero strano e imponderabile il destino. A volte basta un incontro a fare la differenza fra il nulla e il tutto. Cosa sarebbe stato di me se non ti avessi conosciuto? Non oso neppure immaginarlo, ma di una cosa sono certo: hai dato un senso alla mia vita trasformando un monello senza futuro in un uomo consapevole. Di questo non potrò mai sdebitarmi. Per ora non aggiungo altro; confido di rivederti presto. Ti saluto con tanto affetto.
Tuo Castruccio –
Storia avventurosa, mi ricorda l’infanzia e le scoperte di quell’età che mai ritorna. Grande capacità descrittiva, la narrazione è appassionante, coinvolgente, il finale nostalgico. Complimenti davvero!
Un racconto avventuroso, per un pubblico di adolescenti. Forse perché adolescente più non sono, ma ho faticato a seguire i due ragazzi nella loro avventura sotterranea.
Ho trovato poi la lettera di Castruccio un po’ troppo formale. Comunque bel racconto di amicizia e solidarietà.