Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Maria” di Lucia Focarelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

All’odore forte del mirto che veniva dalla parte del mare non si era mai abituata. Le entrò nelle narici insieme all’aria tersa settembrina appena aprì la porta. Spalancò anche le finestre. Non c’erano vetri. Due portelloni che riparavano solo in parte dal freddo dell’inverno e obbligavano al caminetto acceso per il caldo e per la luce. Non avevano corrente elettrica. Avesse potuto spalancare il tetto lo avrebbe fatto. Invece no. Quel tetto le stava sopra come un macigno. Le zolle erbose che lo ricoprivano sembravano una lapide sottomessa all’incuria.

Da piccola  stava in una casa che aveva più o meno le stesse caratteristiche di questa. Ma lei ci stava bene. Qualche pecora dormiva con loro la notte e poi al mattino quell’odore acre svaniva lasciando il posto all’odore fresco del mirto. Per questo le piaceva tanto. Il profumo le entrava dentro, arrivava alla gola e più giù, la riempiva di energia nuova. I fratelli e il padre si alzavano all’alba per andare con le pecore e le capre al pascolo. Loro neanche si spogliavano la sera per andare a dormire. Vestiti dormivano. Tutti. L’acqua era fuori. Una sorgente che veniva giù da i sassi del monte che stava dietro. La madre scaldava il latte per tutti, ma lei, Maria, si alzava più tardi, per lavarsi, specialmente in certi giorni,  quando gli uomini se ne erano andati. Si lavava anche la mamma, Angela. Scaldavano l’acqua gelida d’inverno e riempivano una piccola tinozza. Prima si spogliavano la parte di sopra del corpo e poi quella di sotto. Tremavano e ridevano. Dopo sapevano di pulito. La madre conosceva un’erba profumata che cresceva poco lontano e loro se la passavano sul corpo, la strusciavano sul collo e poi sulle braccia e le mani e qui davanti, sopra il petto. E ridevano. Maria si era sempre chiesta perché la madre rideva solo la mattina quando erano sole e le raccontava anche qualche storia dei nonni: di quando gli avevano rubato tutte le bestie e il nonno aveva preso il fucile ed era andato via per qualche giorno e non era più tornato perché  aveva ammazzato Efisio Sannia con soli due colpi. Così  l’avevano messo in galera e la nonna lo andava a trovare una volta al mese. A piedi. Un giorno per andare e uno per tornare. Andava insieme a Pietro che all’inizio aveva otto anni e quando il nonno era morto ne aveva ventotto e Angela ne aveva venticinque.

Un giorno era venuto a casa uno, aveva anche lui le pecore e due capre, abitava a sole tre ore di cammino.

Voleva sposare Angela. Angela aveva ventisette anni. La nonna disse di sì. Angela in dote portò tre pecore. Le altre rimasero a Pietro. Non ci fu matrimonio. Stavano lontano dal paese. E così era nata lei, Maria e i due fratelli.

I fratelli erano come il padre, non parlavano mai. Si caricavano gli agnellini sulle spalle e andavano fuori tutto il giorno con le pecore. A volte dormivano anche fuori. Angela gli dava  del pane e il formaggio. Nella fiasca c’era l’acqua e qualche volta invece il vino.

Maria e Angela se ne stavano in casa ad aspettare. Non avevano molto da fare. Solo lavarsi e lavare qualcosa. Non il pavimento che era in terra battuta. Avevano un paiolo e due tegami. Dovevano fare il pane. Magari una volta alla settimana. D’estate facevano tanti bucati per tenere puliti il fratelli e il padre, ma d’inverno lavavano poco perché la roba non si asciugava e davanti al caminetto ci stavano loro a levarsi l’umido di dosso mentre il paiolo bolliva.

Tante volte in primavera e estate stavano fuori, Angela e Maria, si mettevano a correre fra il mirto e i cisti  bianchi e rosa e scendevano fino al mare per un sentiero che solo loro conoscevano. Due volte avevano anche fatto il bagno, ma non sapevano nuotare. In casa non avevano detto niente, perché il padre non avrebbe capito e avrebbe battuto Angela.

Anche per Maria un giorno era arrivato un uomo. Maria aveva diciotto anni e lui quarantaquattro. Se la portò via, mentre Angela piangeva. E così Maria aveva cambiato casa. Era questa, con il tetto che la soffocava e lei che lo avrebbe voluto spalancare come le finestre. All’inizio aveva sperato di stare bene. Non fu così. L’uomo che l’aveva portata via si chiamava Giovanni. Appena furono a casa le disse: “Ora tu per nove mesi non devi farti vedere da nessuno” e non la lasciò più uscire. Dopo nove mesi un giorno arrivò a casa con una neonata fra le braccia e le disse: “Questa è tua figlia, anzi nostra figlia” e le consegnò la piccola. “Come si chiama?” chiese a Giovanni, e lui “Come vuoi, non ce l’ha un nome”. “La posso chiamare Angela?” chiese. “Chiamala come vuoi” disse  Giovanni. E di quella bambina, di dove venisse non ne parlarono più.

Maria la amò come non sapeva neanche di saper amare, forse più di quanto aveva amato Angela, sua madre.

Se la teneva per ore in grembo a dondolare e le parlava come se capisse. Le faceva tutti i versini e la baciava sulla fronte. Lei  non aveva latte e così Angela fu allevata a latte di capra. Cresceva ogni giorno fra i mirti, i cisti e i lecci. Profumava come loro. Potevano essere una famiglia, ma Giovanni non fu un padre. Fu solo un padrone. Era lui che faceva la spesa in paese. Portava  le pecore e le capre al pascolo tutto il giorno e quando tornava pretendeva che tutto fosse fatto e la cena pronta. E dopo cena che Maria fosse disponibile. La piccola Angela neanche la guardava. Non l’aveva più guardata dal giorno che l’aveva portata in braccio e consegnata  a Maria.

Quando Angela ebbe circa un  anno, Maria, che fino ad allora l’aveva vestita di stracci, dovette scendere in paese per comprarle qualche vestitino. Giovanni non ne era capace. Si legò Angela sulle spalle e scese a Burichisu in una mattina di primavera.

Ci volevano due ore a piedi. Maria era felice. Sembrava volare saltando di sasso in sasso verso il mare per il sentiero appena segnato. A destra e a sinistra albatri e lecci secolari, querce, olivastri e  roverelle. Lei non ne conosceva il nome ma ne conosceva bene le foglie  e i tronchi. Poi fu sul sentiero in piano fra i campi recintati dai muretti a secco a cui le ferule facevano da sentinelle e le querce da sughero, nude nei loro tronchi, davano il colore intenso della vita.

Le veniva da cantare mentre si avvicinava al negozio con la cucciola sulle spalle. Le gridò con dolcezza, come se le cantasse la ninna nanna: “Tue ses sa prenda ‘e oro e mamma”. E Maria rideva guardando verso  il mare. E ancora: “Ses su fiore bello e mamma, s’angheleddu adoradu e mamma tua”. Dietro anche Angela rideva, quasi singhiozzava tanto si divertiva ai salti della mamma e al suono della sua voce.  Cantò l’unico canto che conosceva, una ninna nanna, sottovoce, ma avrebbe urlato, per dire a tutti che questa era sua figlia.

“Anninnia, anninia, drommidi fiza mia – anninnia anninnoro, mamma di dà su coro

Anninnia anninnare canto po di pasare – anninnia a fizu meo de mamma su recreu”

Quando arrivò al paese, c’era già stata con la madre, si recò direttamente al negozio che vendeva un po’ di tutto, dalla farina a qualche pezzo di stoffa che le sarebbe servito per fare qualcosa per Angela. Tolse la piccola dalle spalle e se la portò davanti come un trionfo. Era sua figlia. Era certa che Giovanni sapeva quello che faceva quando le aveva impedito di farsi vedere pernove mesi. Proprio perché tutti pensassero poi che la figlia era veramente sua.

Non c’era nessuno per la strada. Due o tre finestre si chiusero mentre passava. Entrò nel negozio. Dietro il bancone  c’era zia Eufrasia. La conosceva. Quando ci andava con mamma Angela, zia Eufrasia era sempre sorridente e gentile e faceva anche credito se erano in difficoltà. Questa volta, quando Eufrasia la vide, si aggiustò il fazzoletto nero sul capo e ci  si coprì quasi tutta la bocca.

“A Burichisu sei scesa? E a cosa?” . Maria mostrò la piccola Angela. “Per lei sono scesa. Per mia figlia. Volevo della stoffa  per un vestitino”  disse.

La frase di zia Eufrasia la colpì a morte: “Per la figlia de sa bagassa stoffa non ne ho”.

Maria si appoggiò ad alcuni sacchi che erano lì di lato.

Con un filo di voce soffiò: “Io non sono una bagassa”

“Tu no ma sua madre sì.”

Si fece buio negli occhi di Maria e Angela cominciò a piangere. Fiza mea ‘e su coro…

Le parole della ninna nanna le battevano nella tempia destra. Anninnia anninnia. Si dovette sedere.

La gente sapeva, sapeva che non era sua figlia e che era figlia di bagassa. Lei invece non se lo era mai chiesto.

“Noooooooooooooo. Figlia mia è, figlia mia!”. Maria arretrò verso la porta.

Zia Eufrasia non ebbe pietà, la maledetta. “Non è tua figlia. Figlia della sorella di Giovanni è. Quella che fa la bagassa nel continente”. Questo glielo disse sottovoce anche se erano sole.

Maria ascoltava il cuore batterle nelle orecchie. Non era più una ninna nanna, era un ritmo di tamburo. Strinse Angela e la bambina pianse più forte. La portò via, verso casa. “S’angheleddu adoradu e mamma tua”…

Perché le avevano sporcato quella figlia così bella, così rosa come il cisto quando il cisto è fiorito di fiori rosa e bianchi? Strappò tutti i fiori che trovò sul sentiero e se li buttò dietro le spalle dove Angela rideva felice. E l’odore dell’elicrisio e del mirto sembravano voler coprire il dolore  di una madre che non era più madre. Si sentì nuda, violata, violentata.

In quel punto la costa era alta. Sotto, scogli e spuntoni di roccia entravano come chiodi nel mare. Maria guardò di sotto. Pensò che era la cosa migliore, come scoperchiare la casa. Si fece più vicina al bordo . Di lì il salto era sicuro. Le rocce a punta non avrebbero dato scampo. Prese Angela fra le braccia e le tolse dai capelli piccoli fiori gialli e azzurri. La bimba rideva. La baciò con dolcezza. Si girò verso il mare calmo di smeraldo. Un gabbiano stallò proprio davanti a lei, quasi poteva toccarlo. Fu un attimo e il gabbiano andò in picchiata giù verso l’acqua e riemerse subito con un piccolo pesce nel becco. Maria si riscosse. No, quella era sua figlia. Doveva difenderla. Maledetto gabbiano.  Era sua figlia per tutti quei giorni che aveva avuto cura di lei. A lei questo bastava.

Salì verso casa. Sentì forte il profumo del mirto. Voleva scoperchiare il tetto, ma non ci riuscì. Non ci riuscì mai .

 

 

 

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2 commenti »

  1. Bel racconto di miseria e d’amore, con questa mamma bambina che, nonostante tutto, è ancora capace di essere felice. Bisogna però aggiustare il testo, copiato e ricopiato per farcelo leggere tre volte. Non ti sembra di esagerare?

  2. Ora va bene? Grazie per il commento, ma non pensare che l’avevo scritto tre volte per esagerare. No, solo per imperizia. E’ grave? Bacioni.

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