Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Vodka” di Federica Politi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Una sigaretta dietro l’altra. Minuto dopo minuto. Lo sguardo fisso. Le gambe penzoloni nel vuoto. Immobile. Aspira. Il fumo scende denso in gola. Aspira. Il fumo sale scuro nei polmoni. Smette di fumare solo per bere. Una lattina stretta tra le dita. Una birra da quattro soldi. Amara. Un sorso dopo l’altro. Senza assaporarla. Tira vento. Un vento gelido. Le nuvole sono basse. Grigie. E’ freddo. Il tempo ha perso consistenza: si assomiglia in ogni momento della giornata. E della notte.

Abbassa lo sguardo. Il fiume scorre sotto di lei. Lento. Marrone. Fangoso. Trasporta legni spezzati. Plastica colorata. Bottiglie di vetro. L’argine è liscio. L’acqua scorre senza impedimenti. C’è una quieta rassegnazione nel lasciarsi trasportare. Infondo, sa di desiderarlo. Infondo, è quel salto, l’unico passo che vorrebbe fare. Ha provato ad immaginare la sua morte. Si è domandata come sarebbe sentire i polmoni scoppiare per la mancanza d’ossigeno. Come sarebbe sentire l’acqua entrare dal naso, dalla bocca. Come sarebbe sentire la vita scivolare fuori dal proprio corpo. Infondo, è la morte che desidera.

E’ il coraggio che le manca. Sua madre aveva ragione quando le urlava contro che era una perdente, che non aveva le palle. Quando le gridava, paonazza in viso, che non era capace di prendere una decisione e affrontare le conseguenze che ne derivano. Tutto questo è così lontano ora. Ora che guarda in basso e vede solo un fiume che scorre. Lento. Come i suoi pensieri.

Accende un’altra sigaretta. Lascia cadere la lattina in terra. Comincia a camminare. Le strade sono deserte. Le gira la testa. Barcolla. Le poche persone che incontra la fissano con sdegno, cercano di scansarla. Non ha fame. Non ha mai fame. Ha solo sete. Una sete che non si placa. Lascia sprofondare una mano nella tasca della giacca. Trova qualche spicciolo. Gli ultimi. Li estrae. Li stringe nel palmo della mano. Ha bisogno di qualcosa di forte.

Entra nel primo bar che trova. E’ piccolo. Stretto e lungo. Il bancone occupa tutta la parete di destra. Non ci sono tavoli. Non ci sono sedie . Solo un paio di vecchi sgabelli appoggiati ad un alto tavolo di legno consumato e scheggiato. Il pavimento è sporco. La luce è bianca. Fredda. La televisione trasmette musica ininterrottamente.

Il barista la fissa. È un uomo. Un vecchio. È pelato. La faccia tonda. La barba da fare. La camicia si chiude a malapena sulla pancia. Ha perso un bottone. Ha delle mani grassocce. Pelose.

“Una vodka”, la voce le esce bassa, piatta, senza incrinature, “Liscia senza ghiaccio”.

Il barista continua a fissarla. Vede i suoi capelli sporchi. Vede le sue occhiaie. Vede le sue guance incavate. Vede le ossa spuntare dalla camicia aperta. Vede i suoi vestiti consumati.

“Ce li hai i soldi?”. Ha una voce grossa. Un tono autoritario.

Lascia scivolare gli spiccioli che stringeva in mano sul bancone appiccicoso. Lui sposta per un attimo lo sguardo dai suoi occhi ai soldi e poi torna a fissarla.

“Non bastano!”. Ha un tono che non ammette repliche.

Allunga la mano per riprendersi i soldi quando un braccio spunta da dietro la sua spalla destra e lascia cadere altri spiccioli.

“Ora bastano.”

Si volta e vede un uomo. Non lo conosce. E’ un uomo maturo. Ha i capelli corti. Brizzolati. Ha la pelle scura. Gli occhi azzurri. Qualche ruga intorno alle labbra sottili. Un tatuaggio spunta dal colletto del maglione.  E’ poco più alto di lei. Ha la sua stessa magrezza. Ride. Gli mancano alcuni denti. Altri sono rotti.

L’espressione sul volto di lei non cambia. Torna a guardare il barista che intanto ha appoggiato la vodka sul bancone e ha fatto scivolare gli spiccioli nel cassetto della cassa.

Stringe il bicchiere tra le dita. Lo porta alla bocca. Beve. Sorso dopo sorso. Senza indugi. Il tipo continua a fissarla. Sente il suo sguardo pesarle sulla schiena. Non importa. Beve. Fino all’ultimo goccio. Appoggia di nuovo il bicchiere sul bancone.  Si volta. Ed esce. Non saluta. Non ringrazia. Esce e basta. Sa che questo non può bastare.

Fuori è notte. S’infila in una strada. Una debole luce esce dalle finestre dei primi piani. Sente dei passi dietro di sè. Passi decisi. Veloci.  Non si volta. Continua a camminare. La vodka comincia a far effetto. Le brucia nello stomaco. Le infiamma il cervello. Le scende lungo le gambe. Rallenta il passo. Inciampa. Si appoggia al muro. È bagnato. Umido.

Riprende a camminare. I passi sono ancora dietro di lei. Più vicini. Le gira la testa. Lo sguardo si annebbia. Si ferma di nuovo. Cade in ginocchio.

Qualcuno la solleva da terra. Due mani la stringono per le braccia. La spingono. Trascina i piedi. Sente un forte odore d’alcool. Non il suo. Sente odore d’aglio. Sente odore di stantio. Le viene da vomitare. Ma continua a camminare.

Qualcuno la spinge in un portone aperto. Non oppone resistenza. Ha perso ogni forza. Galleggia in una nebbia fitta senza volontà. E’ buio. Non vede nulla. Sente un  respiro caldo sul viso.

Qualcuno la spinge a terra. Batte la testa. Il pavimento è freddo. Perde i sensi.

Quando si sveglia delle mani frugano ogni parte del suo corpo. La paura le stringe lo stomaco in una morsa. Un’ombra s’avvicina. Sente un corpo estraneo farsi strada dentro di lei. Con forza. Con violenza. Il peso la schiaccia a terra. Il dolore scende nel basso ventre. Chiude gli occhi. Trattiene il respiro. Cerca di sottrarsi. Cerca di chiudere le gambe.

Le arriva un pugno in viso. Un dolore lancinante. Quelle grosse mani, ormai conosciute, le prendono la testa ai lati e la sbattono con forza a terra. Una volta. Due volte. Il dolore diventa insopportabile. Tutto si fa scuro.

Sapeva che un “grazie” non sarebbe bastato. Poi. Non esiste più nulla.

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2 commenti »

  1. Una storia molto nera, carica di disperazione, disagio esistenziale, desiderio di scomparire.
    Sembra di vederla quella ragazza, che vaga per la strada, cammina svuotata di se stessa e barcolla, nell’indifferenza dei passanti che la vedono e la scansano.
    Alla fine arriva anche la violenza.
    Quelle mani che frugano in ogni parte del suo corpo e le sbattono la testa a terra, non lasciano più alcun margine di speranza.
    Forse quella violenza poteva esserle risparmiata, tenuto conto che il racconto, fino a quel punto, era già molto intenso e carico.
    Ma la mia è solo una considerazione, non una critica.
    Purtroppo la cronaca è fatta anche di storie come questa e un autore/autrice non si deve sentire in dovere di restituire un lieto fine o un senso morale ad una realtà che, a volte, sembra proprio averlo completamente smarrito.
    Ci può stare il messaggio di speranza.
    Ma ci può stare anche la cruda descrizione di una realtà agghiacciante.
    La tua scelta è stata decisamente per la seconda opzione e, con quel fine, hai condotto benissimo il racconto in questa direzione.
    Lo stile mi piace molto: secco, incisivo, tagliente.
    Esprimo una perplessità soltanto sull’ultima frase. Non era per niente facile trovare una chiusa adeguata al resto del racconto, però devo dire che quel “grazie che non sarebbe bastato” non mi ha convinto del tutto. Ma è soltanto opinione personale.
    Resta il fatto che si tratta davvero di un ottimo racconto.

  2. Ottimo racconto, concordo con Gioacchino.
    Il degrado ambientale fa da contorno al dramma esistenziale.
    I pensieri della protagonista sono lenti perchè la donna è rassegnata, schiava della dipendenza dal fumo e dall’alcol e vittima di una madre che “le urlava contro che era una perdente, che non aveva le palle. Quando le gridava, paonazza in viso, che non era capace di prendere una decisione e affrontare le conseguenze che ne derivano.”
    Chissà quante volte questo pensiero deve avere inaridito la volontà della donna.? Qual’è stata la sorte della madre?
    Come spezzare la catena che lega i destini delle persone?
    L’attuale società offre solo violenza e attenzione al vantaggio personale ed il finale del racconto fa meditare.
    Ciao.
    Emanuele

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