Premio Racconti nella Rete 2013 “Verso un altro west” di Chiara Leone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Lavoro freelance. Detto così sembra una figata: non hai orari, sei padrone di te stesso, libero di accettare i lavori che ti garbano e di rifiutare quelli che non si confanno alla tua indole. Il sogno di ogni adolescente che voglia fare il giornalista.
Ma quando realizzi che gli articoli vengono pagati una miseria e con molti mesi di ritardo, che non solo ti conviene accettare anche quelli che non rispecchiano il tuo modo di essere, ma ti devi addirittura prostituire moralmente per poter scrivere qualcosa di così triviale che non lo leggeresti nemmeno dal parrucchiere, quando ti senti perennemente in debito con la fidanzata perché è lei a pagare tutti i mesi l’affitto e verso i genitori che ti anticipano sempre qualcosa a fondo perso, quando arrivi a un livello di abbrutimento tale per cui ti alzi alle undici in pigiama e vai a letto alle tre di notte senza essertelo levato, quando contro ogni tuo sano principio ti riduci a mangiare cibi in scatola in orari imprevedibili, è il momento di darsi una scrollata.
Quella sera io e Sofia avevamo litigato di brutto, non saprei dire per cosa. Aveva iniziato a contestarmi di tutto: lo spazio che occupavano i miei rasoi in bagno, i piatti accatastati nell’acquaio, la spazzatura mal differenziata. La questione economica non l’aveva toccata, ma io sapevo che era sullo sfondo. In più avevo passato la giornata a rendere meno grossolano e volgare possibile un articolo sulla seduzione delle calzature femminili. Le lasagne in scatola riscaldate al microonde mi erano rimaste sullo stomaco e il Brioschi effervescente non era bastato a sgorgarmi il tubo digerente, né l’anima che forse era ancor più ingorgata.
Senza una ragione particolare mi ricordai di Yaya.
Lo incontravo spesso al negozio di computer e a quello dell’usato. Era sempre in cerca di apparecchi di seconda mano. Mi aveva spiegato che una volta all’anno caricava una vecchia auto con ogni genere di articoli usati: abiti, giocattoli, apparecchiature varie e si metteva in viaggio per Dakar dove vendeva o regalava tutto, auto compresa, per poi tornarsene in aereo.
L’idea cominciò a circolarmi in testa come una palla da biliardo.
Avrei messo a disposizione la mia Skoda station wagon che prima di considerarsi al capolinea poteva ancora sopportare i cinquemila chilometri da Milano a Dakar per poi fruttare un piccolo gruzzolo.
Yaya accolse la mia candidatura coi sui modi gioviali ed esuberanti.
Il giorno concordato per la partenza scoprii che avevamo altri due compagni di viaggio: il cugino di Yaya, Issa, e Manuel, uno spagnolo un po’ stonato che partiva per dimenticare, credo una donna anche se non lo ha mai detto chiaramente.
I primi duemila chilometri attraverso la Francia, la Spagna e lo Stretto di Gibilterra fino a Casablanca sono stati quasi indolori, se si eccettuano le continue discussioni per la pausa sigaretta che Manuel continuava a chiedere e il chiasso che facevano Yaya e Issa sul sedile posteriore con le loro chitarre, armoniche e tamburi: si erano portati una two-men-orchestra in macchina.
In territorio europeo mi ero sentito sicuro alla guida, ma appena giunti in terra africana, col pretesto della stanchezza, ho lasciato volentieri il volante a Yaya.
Le larghissime strade accecate dal sole mi davano un senso di vertigine.
Man mano che procedevamo verso sud, verso il confine con la Mauritania, persino i carretti tirati dagli asini diventavano sempre più rari. A perdita d’occhio solo dune gialle e sparuti branchi di dromedari. Oltre il confine, sotto un sole sempre più torrido, dove il raro verde che si vedeva era forse frutto di allucinazioni, superammo alcuni camion straripanti di merci e uomini, forse pellegrini, forse addirittura profughi. Il caldo intorbidiva il pensiero.
Non ci diede nessun preavviso.
Tutt’a un tratto il motore della Skoda diede un urlo di dolore da animale ferito, tossì e rantolò a morte e infine esalò l’ultimo respiro.
Aprii il cofano e ci guardai dentro sconsolato. Lo richiusi e mi sedetti tra Yaya e Issa ad aspettare, mentre Manuel percorreva ossessivamente lo stesso otto con la sigaretta in mano. Prima o poi qualcuno dei camion che avevamo superato ci avrebbe raggiunto.
Il camion era già stracarico di ogni tipo di mercanzia. Un gigantesco fungo montato su ruote. Sulla sommità di un cumulo di pacchi, sacchi, fagotti, materassi legati stretti, ai cui fianchi penzolavano taniche e ruote di bicicletta, decine di uomini stavano appollaiati ben saldi, il capo avvolto in un turbante di stracci a proteggersi dal sole implacabile.
Yaya si avvicinò all’autista e contrattò un prezzo per il traino dell’auto.
Era evidente che non ci sarebbe stato spazio per noi e i nostri zaini. Ma quando Yaya iniziò ad arrampicarsi sulla scaletta il vociare si fece più intenso, gli uomini che erano seduti davanti si spostarono, si strinsero, risalirono leggermente verso la sommità della cupola. Il fungo ondeggiava paurosamente. In pochi minuti si era creato un nuovo equilibrio, ognuno di noi aveva trovato una nicchia in cui collocare il proprio bagaglio che da quel momento sarebbe stato il suo sedile. Il camion si rimise in marcia, lentissimo. Anche per il potente motore Mercedes spostare un peso simile era un impegno gravoso.
D’altra parte la pista era talmente sconnessa che uno scossone mal assestato avrebbe sbalzato carico e passeggeri. La pista si intuiva a malapena, solo l’occhio esperto dell’autista poteva interpretare una traccia e seguire un percorso sulla terra rossa.
Dopo aver percorso duecento chilometri, entrammo a Nouakchott, la capitale della Mauritania, quasi senza accorgercene; praticamente era la continuazione del deserto con qualche bassa costruzione dello stesso colore del terreno. Man mano che ci addentravamo, le strade si stringevano e la vita iniziava a brulicare. I lunghi abiti azzurri degli uomini spiccavano nel giallo dominante.
L’autista del camion ci lasciò con la nostra Skoda davanti a quella che poteva essere la bottega di un rigattiere e invece era l’officina di un meccanico. Questi, un mauritano alto e magro, col pizzetto e il tradizionale abito azzurro, trattò con Yaya il prezzo e il tempo della riparazione.
Arrivammo a Dakar di notte, le strade erano fiocamente illuminate. Mi ero da poco destato da un sonno di piombo, quando Yaya parcheggiò la Skoda in una larga via sterrata, a quell’ora completamente deserta. Ci infilammo in una porta stretta e salimmo al buio una ripida scala fino alla terrazza. Yaya aprì una porta e ci mostrò una stanza arredata solo di due letti gemelli avvolti nelle zanzariere e due sedie di vimini. Era la stanza degli ospiti. Per lavarsi un rubinetto all’aperto e una bacinella di metallo. Il bagno era in comune. Alle finestre non c’erano vetri, solo una fitta zanzariera. Crollai in un sonno denso come lava.
La mattina mi ritrovai inaspettatamente in un luogo brulicante di vita. Sulla terrazza davanti alla mia porta una donna stendeva il suo bucato variopinto. Un’altra, che poi Yaya mi presentò come sua moglie, stava distribuendo delle tazze su un basso tavolo di vimini per la nostra colazione. Mi affacciai dal parapetto: su una terrazza a un livello inferiore una donna accovacciata fra molte bacinelle lavava i panni con un neonato beatamente addormentato sulla schiena. Tutt’intorno un puzzle esheriano di terrazze variamente embricate, dove decine di bambini di tutte le età schiamazzavano additando la curiosità del momento: l’uomo bianco sulla nostra terrazza.
Soffiava il vento dell’oceano. Amina, la moglie di Yaya, ci portò due baguette appena sfornate.
L’oceano era appena due isolati più in là. La strada che la sera prima taceva si era svegliata alla sua festosità quotidiana.
Svoltai un angolo e mi si aprì davanti la spiaggia. L’oceano era vasto, ma infinitamente più vasta ai miei occhi era l’inaspettata moltitudine di uomini e donne, la vista di centinaia di coloratissime piroghe da cui gli uomini scaricavano il pescato, ne facevano montagne, lo caricavano con le pale sui calesse tirati dai cavalli per scaricarlo di nuovo dove le donne vocianti attendevano per lavorarlo.
Mi sentii risucchiato in quella vitalità caotica e frenetica.
Avrei voluto esser nato lì, avrei voluto perdermi e rimanere lì per sempre.
Rividi me stesso in pigiama, perennemente in lotta contro il tempo…
Ora vivo qui. La mia casa è una di quelle laggiù, che affacciano proprio sulla spiaggia. Ho imparato a pulire il pesce e mia moglie, Khady, lavora con me. Abbiamo tre bellissime bambine: Zeyna, Fatou e Aissata.
Ho ritrovato questo diario di viaggio in fondo allo zaino che usavo allora.
Adesso per me la vita ha altri sapori, altri ritmi, altri colori.
Un lavoro deludente, una storia sentimentale al capolinea e quel tristissimo Brioschi effervescente che dà tutta la misura di quanto il protagonista abbia davvero bisogno di una bella scrollata.
E certo che se la dà la scrollata.
Attraverso quel viaggio turbolento che lo porta a contatto con un mondo tanto diverso, ma forse più a misura d’uomo, capace anche di restituirgli degli stimoli nuovi.
Buona la padronanza narrativa ed efficace lo stile. Bel racconto.
Ci ricorda quanto l’evasione, la fuga e i tentativi di rinascita, a volte, possano rivelarsi strategie vincenti.