Premio Racconti nella Rete 2013 “Attimo” di Valentina Vertucci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Quando ti dicono che stai per morire, tutto cambia. Non solo dentro di te, ma anche attorno. E’ come rinascere, trasformato. In quel preciso momento, solo in quel momento, inizi davvero ad apprezzare la vita in pieno e a fondo. I giorni, le ore, i minuti, anche i secondi diventano importanti. Diventi attento a tutto ciò che ti circonda. Inizi a notare le meravigliose sfumature che la luce del giorno crea nell’aria e che cambiano colore con il passare delle ore. Ti meravigli del bianco splendente con cui si sveglia la mattina. Ti sorprendi del giallo che l’ora di pranzo porta con sè. Osservi con attenzione lo stesso giallo che cambia intensità lungo il pomeriggio. Ti godi l’arancione con cui il tramonto saluta il sole che se ne va. E poi la notte. La scura e bellissima notte, con le sue stelle stupende e la luna a far da padrone al cielo. Chissà cosa nasconde lassù. Chissà se tra poco diventerò parte di quelle stelle, per brillare sopra i sogni e le speranze delle persone che restano. E poi impari a sentire, sentire per davvero. Senti tutti i profumi che ti stanno intorno. Chi si era mai accorto prima che ogni cosa ha un suo preciso odore? E i colori poi. Quanti milioni di colori esistono dentro le cose? E i sapori. Come sono buoni i sapori? E infine le persone. Diventano fondamentali. I loro sguardi, le loro espressioni, le smorfie, i sorrisi, le lacrime, le linee del viso. Vedi tutto adesso. Con una precisione che ti fa capire quanto non vedevi prima.
Ero una ragazza come tante altre. Non bella ma carina, cosa che bastava per avere la mia piccola fila di pretendenti tra cui scegliere e di cui vantarmi. Niente di serio però, l’amore lo riservavo per tempi futuri, quelli in cui mi sarei stufata di uscite e divertimenti da una sera o due e sarei stata pronta a impegnarmi in un modo diverso, maturo. Quell’impegno che sa di matrimonio e figli piccoli che corrono e urlano per la casa che sei riuscita a fatica a comprarti e di cui vai molto fiera, di conti a fine mese, di asilo e poi scuola, di vacanze al mare e natali in famiglia. No, non ero ancora pronta a tutto quello. Il mio tempo lo dedicavo agli amici. Quelli ne avevo un sacco. Tutti diversi, ma con quel qualcosa di simile che ci aveva permesso di incontrarci e unirci. E’ bello quando gli amici ti assomigliano un po’. Non devi sforzarti di essere ciò che non sei. Non devi riempire a fatica ogni silenzio che c’è. Non devi creare situazioni particolari o trovare posti pazzeschi per riuscire a divertirti. Basta un niente: un prato su cui buttare una coperta per riempire l’aria con le note di una chitarra, un tavolo con qualche bicchiere di vino, una cena preparata con gli avanzi del frigorifero, una passeggiata ovunque. Nulla di più. Perchè il resto lo fanno la complicità, le risate, l’armonia, lo star bene insieme. E’ questo che riempie l’amicizia. Noi ce lo avevamo. Ed era bello.
Avevo anche un lavoro, che odiavo. Uno di quei lavori statici, sempre uguali giorno dopo giorno, noiosi fino allo sfinimento. Me ne lamentavo sempre. Sbuffavo. Mi stressavo. Alzarmi la mattina era un’agonia al pensiero di passare 10 ore dentro quel piccolo ufficio a fare le stesse identiche cose. Davo il tormento a tutti parlando di ogni aspetto negativo della mia giornata lavorativa. Dei miei colleghi grigi e tristi. Dei miei clienti scassa cazzo oltre l’immaginabile. Spesso mi perdevo interi weekend chiudendomi dentro lo stress e la stanchezza che mi toglievano la voglia di mettere piede fuori casa.
Mi lamentavo anche del mio fisico, mai simile alle aspettative che avevo. E mi buttato dentro a diete che non rispettavo mai fino in fondo, per riuscire a togliere quella maledetta pancetta e quella ciccia che aveva deciso di fare il nido sui miei fianchi. Quante cene saltate con il pensiero di fare qualcosa di giusto per me stessa. Quante insalate mal digerite, mentre guardavo le amiche abbuffarsi di pizza e kebab. Io però ero fissata. Voleva essere magra. Perchè, per me, quella era la vera bellezza.
E poi ero permalosa. Mamma mia quanto ero permalosa. Bastava una battuta di troppo, una frase che superasse i limiti da me stabiliti o uno scherzo che non mi piaceva, e giù musi lunghi. A volte anche per giorni. Perchè poi, quando lo scazzo era superato, subentrava l’orgoglio che non mi permetteva di alzare bandiera bianca e magari fare qualche passo indietro e scusarmi per quel brutto carattere che madre natura aveva deciso di donarmi, senza però darmi le istruzioni per aggiustarlo.
Il resto era normalità: sport nel tempo libero, shopping quando lo stipendio bastava, viaggetti qua e là, vacanze, concerti, aperitivi, cene fuori,… E due grandi passioni: Vasco e il Napoli. La mia squadra del cuore. L’unica a sapermi incendiare di rabbia e accendermi di felicità. L’unica a farmi battere il cuore pure da lontano. Almeno fino a quando nella mia vita non è arrivato Eugenio, che ha scombinato tutti i miei piani e stravolto il mio mondo. Era un pomeriggio come tanti altri: alle 17 in punto avevo lasciato l’ufficio di corsa, mi ero lanciata dentro la mia 500 nuova di zecca, avevo attraversato la città rimanendo ferma 10 minuti al solito passaggio a livello che mai beccavo aperto, ed ero arrivata nel mio piccolo appartamento. Cambio rapido, t-shirt e pantaloncini e via per la mia corsetta quotidiana alla pista ciclabile. Solita storia. Non quel giorno però: a metà tragitto un cane di dimensioni quasi umane mi era piombato addosso, facendomi urlare di paura. Non mi ero accorta che voleva solo giocare. Ed è lì che l’ho visto per la prima volta. E’ arrivato di corsa a fermare il suo cane troppo espansivo. Un angelo biondo dagli occhi azzurro mare. La freccia mi aveva colpita in pieno petto. Cupido aveva fatto centro. E pensare che i biondi non mi erano mai piaciuti. Non me lo ero fatta scappare: con la scusa della caviglia dolorante mi sono fatta accompagnare a casa. E lui si era dimostrato il classico ragazzo di una volta, dolce e gentile, sensibile e serio, premuroso e simpatico. E, per una volta, Cupido aveva fatto il bis, colpendo anche lui e non lasciandomi sola a disperarmi per una cotta non corrisposta. Ci siamo innamorati subito. Ed è stato amore folle. In nemmeno un mese vivevamo già insieme e ci conoscevamo come se non fossero mai esistiti giorni in cui non eravamo insieme. Non avevo niente di ciò che desideravo nella mia vita, ma avevo tutto solo avendo lui. Tre anni fa. L’anno più bello della mia vita. L’anno perfetto, di quelli da incorniciare e mettere tra i ricordi a cui aggrapparsi quando le cose vanno male.
Una ragazza come tante della sua età insomma. Questo ero. Ciò che mi ha reso speciale e diversa da tutte le altre, si chiama tumore. Me lo hanno diagnosticato pochi mesi fa. Non so spiegare quello che ho provato quando ho avuto la sentenza. E’ un malessere violento e velenoso, tragico e terribile, duro e penetrante. Ti si infila nella testa e scende rapido per tutto il corpo, togliendoti tutte le forze. Prima arriva il dolore e lo sconforto, che ti strappano la mente in tanti piccoli pezzettini. Tutto diventa buio. Vedi i tanti anni che ancora avevi davanti cadere uno dopo l’altro senza possibilità di salvarli. Vedi i tuoi sogni crollare a peso morto sul cemento. Vedi i progetti spegnersi come candele su cui soffia un vento troppo potente. Vedi la vita che immaginavi e attendevi, sparire nel nulla. E ti butti giù, è inevitabile. Lasci che la depressione e il male ti avvolgano nella loro bolla nera. Poi arriva la rabbia. Una rabbia folle, cieca, distruttiva. Ti rende cattiva, stronza, violenta. Ferisci te stessa per ferire quel male che ti porti dentro e ferisci gli atri perchè non sai in che altro modo sfogarti. In realtà tutto questo nasconde solo l’amarezza e il disorientamento che ti porti addosso e che vorresti buttare fuori in ogni modo. Infine, arriva la resa. Disperata, spenta, stanca. Lasci che le ultime forze ti abbandonino. Lasci che gli altri se ne vadano. Lasci che la fine ti prenda. E’ in quell’istante che esce fuori ciò che sei davvero. Perchè la fase della resa può durare fino alla fine dei tuoi giorni, o può lasciare il posto alla forza che porti dentro. Se ti aggrappi a questa, vivere l’ultimo periodo che ti è stato concesso diventa un regalo enorme. Rinasci per morire diversa, migliore.
Ho saputo di essere malata un pomeriggio di giugno. L’estate stava pian piano facendo il suo ingresso dopo una primavera di freddo e di pioggia. Ero felice in quel periodo. Io ed Eugenio festeggiavamo i nostri primi tre anni insieme e stavamo iniziando a pensare di diventare una famiglia vera e propria, con tanto di abito bianco, cerimonia in grande stile, casa tutta nostra e, in seguito, un piccolo bimbo che prendesse un po’ da me e un po’ da lui. Lo so, avevo sempre rifiutato quell’idea e l’avevo rimandata a quando sarei stata più grande, ma quando l’amore arriva non c’è niente da fare, i piani e i desideri cambiano. Così era stato anche per me. Aveva tirato fuori la donna che c’era in me, in tutte le sue tante sfacettature e voglie.
Ero con lui quando mi diedero la notizia. Ricordo che ciò che mi ferì di più fù vedere il dolore e la disperazione dentro i suoi occhi. L’avevo ferito ed era l’unica cosa che non avrei mai voluto fare nella mia vita. Passamo ore a piangere e stringerci. Sapevamo che quel tempo indefinito che pensavamo di avere davanti, adesso aveva una data di scandeza. Sapevamo che il nostro grande amore non ci avrebbe visti insieme da anziani, come avevamo sempre immaginto. Sapevamo che tutti i sogni e i progetti con cui avevamo dipinto il nostro futuro, famiglia e figli compresi, non ci sarebbero mai stati. Era un tormento che ci bruciava la carne.
Passai le varie fasi del dolore, fino a scoprirmi forte come non pensavo di poter essere. E lui lo fù insieme a me. Mi sono innamorata di lui una seconda volta.
«Voglio che compili una lista dei desideri – mi disse – Scrivi tutto quello che hai sempre voluto e che non hai mai potuto fare. Scrivi i tuoi sogni. Scrivi ciò che ti viene in mente, perchè ti prometto che faremo ogni cosa che la tua testolina matta riesce a immaginare e sognare!»
Voleva che quegli ultimi mesi che mi restavano, fossero magici. Ed è stato davvero così. Abbiamo girato l’Europa in camper, cancellado dalla lista i primi otto punti: vedere Parigi, salire sulla Sagrada Familia, fumare una canna in un coffe shop di Amsterdam, cantare a squarciagola e ballare tra le vie di Berna, salire sulla ruota panoramica di Londra, godermi il famoso «mercoledì da leoni» sulle spiagge del Portogallo insieme ai surfisti, prendere un mattone del muro di Berlino e raggiungere la Grecia in traghetto.
Siamo poi passati ai punti successivi, nel nostro bel paese: siamo stati al San Paolo per vedere finalmente dal vivo una partita del Napoli, abbiamo pranzato in barca a Capri, siamo scesi tra la folla al concerto di Vasco, abbiamo imparato i balli tradizionali del Salento, abbiamo visto il Colosseo, la Torre di Pisa, le due torri di Bologna, il balcone di Romeo e Giulietta e l’Arena a Verona, il Duomo di Milano, la Torino sotterranea e le vallate innevate della Valle d’Aosta. Abbiamo riso, pianto, ballato, cantato, corso, camminato. Ci siamo tenuti per mano. Ci siamo baciati e abbracciati. Ci siamo presi in giro. Ci siamo divertiti. Ci siamo conosciuto fino al punto più intimo, superando tutti i confini che due persone diverse hanno. E abbiamo fatto l’amore, sempre e dovunque.
Siamo tornati a casa solo quando la lista era vuota.
Abbiamo cenato con tutti gli amici. Ero finalmente pronta a dare la tragica notizia anche a loro. Avevo trovato la forza per farlo, per far diventare realtà quell’incubo.
Ora sono qui. Alla fine. Ho combattutto con tutta me stessa contro questo nemico invisibile ma presente. Ho combattuto fino a quando ho potuto farlo. Ho combattuto per prendermi tutti i giorni in più che sono riuscita a prendermi.
Si può essere pronti a morire? No, non si può. Anche se lo sai, anche se ne hai la certezza, anche se ti sei ormai rassegnata a quel finale. Non si è mai pronti a morire. Restano sempre mille cose che ancora si vogliono fare. Restano sempre mille sogni da voler realizzare. Restano sempre mille emozioni da voler ancora vivere. E ora mi pento dei minuti persi per la strada. Delle paure da cui mi sono lasciata frenare, dei sogni che ho visto troppo grandi, delle possibilità che non ho colto. Mi pento di quel lavoro di cui mi sono sempre, troppo lamentata e che ora vorrei poter fare per altri cento anni. Mi pento di quella magra bellezza che ho sempre ricercato, perdendomi i piaceri della vita. Mi pento di aver perso tempo a tenere il muso, perdendomi sorrisi e risate che non bastano mai. E mi pento di aver pensato di avere ancora tutto il tempo del mondo davanti a me e aver così rimandato molte cose al domani.
Ora sono qui. Ferma nel mio letto. L’orologio che scandisce i minuti che mi separano da quel sipario scuro che si poserà sulla mia storia. Il ticchettio del monitor che mostra la mia vita che rallenta sempre di più. La finestra aperta che manda i rumori del mondo fuori che va avanti. E lui accanto a me. La sua mano nella mia. I suoi occhi dentro i miei. I nostri cuori mai così vicini. Cosa si può dire prima di morire? Quale frase può essere così importante da essere scelta come ultima? Che parole possono salutare questo amore così grande? Nessuna. Ci siamo promessi di non dirci nulla. Ci siamo detti tutto nei mesi passati.
Sento il respiro che diminuisce. Ci siamo. Cerco di non piangere. Non voglio che l’ultimo mio soffio di vita arrivi a lui in forma di lacrime. Lo guardo ancora una volta, l’ultima. E’ bellissimo, come il primo giorno che l’ho visto. Mi sorride piano e il mio cuore, nonostante si stia per spegnere per sempre, riesce ad accelerare un’ultima volta. Lo amo più di qualsiasi cosa abbia mai amato. Gli sorrido anche io e so che è l’ultimo sorriso che potrò regalargli. Chiudo gli occhi. Sento la sua mano che stringe più forte la mia. Respiro forte per sentire ancora il suo profumo. Mi godo questi ultimi istanti di lui. Immagino i suoi occhi azzurri e il suo sorriso meraviglioso. E riesco a sorridere dinuovo. Poi, mentre la vita sta lasciando leggera il mio corpo, riesco a sentire da lontano la sua voce.
«Ti amo»
Ed era l’unico saluto che volevo.
«Ti amo…»
Riesco a soffiare fuori, prima di andarmene.
Molto intenso e scritto bene questo racconto, sicuramente è utopia pensare che quando si è agli ultimi istanti, ma che dico istanti, a volte anche giorni, si riesca a non essere travolti dai dolori e dal male che prende ogni cellula del proprio corpo, è utopia pensare che avrà la meglio la razionalità, il poter ancora lucidamente formulare un pensiero, ma in questo pezzo l’autrice è riuscita comunque a dare parola a quelle che, secondo un mio umile parere, sono “sensazioni” ed “emozioni” che difficlmente potrebbero mai essere dette. In bocca al lupo per il concorso!
Emozionante, intenso, scritto molto bene, con un finale che lascia davvero un nodo in gola.
Il racconto viene narrato come fosse un monologo interiore.
Tecnica difficile, perché si rischia di cadere facilmente nell’effetto diario.
E, forse proprio per questo motivo, si tratta anche di una tecnica molto utilizzata.
Ma poche volte in modo tanto efficace.
Molto brava.
Fiore eccoti qua, alle sponde estreme del Concorso! Stai bene? Hai fiducia in te ? E in me? 🙂 Il racconto in questione – scritto comunque molto bene, tranquilli – non mi convince fino in fondo. La prima parte è psicologicamente attendibile (anche se non mi piace l’idea del giro del mondo sapendo che…) nella seconda qualcosa a mio parere non funziona. Comunque la si veda infatti la vita non può mai lasciare “leggera” il corpo. A meno di essere Mosè. Il momento finale della narrazione, la morte fisica signore e signori!, va infatti inteso come uno strappo la cui cifra non può che essere disperata. E’ infatti il corpo stesso, ancor prima che la mente o il vitale, a ribellarsi in un modo che non può che essere drammatico e lacerante. L’uomo è fatto come una cipolla, il centro, l’Anima non soffre e non muta, torna a Dio ed è pronta a ricadere nel tempo in nuovi corpi (sperando di non reincarnarsi in Lele Mora o qualcosa di simile) tutto il resto – mente, vitale, nervoso, carne, ognuno con la sua coscienza – NON accetta la morte. Ripeto, ben oltre la coscienza diciamo umana (l’io) del morente che può anche fingersi qualcosa di simile a quello che l’autrice fa provare alla protagonista. Per questo la seconda parte del testo mi appare falsa. Andrebbe integrata da una seconda voce interiore. L’autrice, cui auguro comunque un grande in bocca al lupo anche in considerazione di una scrittura di ottima qualità e molto coerente mi perdoni la franchezza. In fondo siamo qui per vedere sangue (intendendo il vero) e occorre sempre dire quello che non ci piace. 🙂 CEMF
Racconto triste che ti coinvolge emotivamente. Descritto molto bene quello che prova e sente la protagonista, negli ultimi giorni che scorrono verso la fine, quando tutto si chiude con l’ultima semplice dichiarazione d’amore. Complimenti!
appunto
Io penso che nessuno possa sapere come ci si sente, cosa si prova o come ci si comporta sul punto di morte… Lo sa solo chi si è trovato a viverlo e, ovviamente, non ha potuto raccontarlo o spiegarlo. Io non so se prevale la paura di morire, la rabbia di andarsene, l’aggrapparsi alla vita disperatamente o l’accettare ciò che sta per capitare. Io ho solo provato a descrivere una possibilità di reazione a questo terribile istante. Credo che non sia nè giusto, nè sbagliagto, nè vero, nè falso. Credo sia una delle infinite possibilità di atteggiamento. C’è chi piangerà. C’è chi sarà infuriato perchè non voleva ancora lasciare questo mondo. C’è chi sarà terrorizzato. C’è chi sarà pietrificato dalla paura. C’è chi non sarà più lucido per capire. E, secondo me, c’è anche chi dopo aver tanto lottato, ha trovato la forza di accettare il destino scritto per lui e, anche all’ultimo, decide di concentrarsi su ciò che di bello lascia e per cui ha vissuto. E’ una scelta di narrazione. Non la vedo sbagliata. Forse per una persona che “conclude” così ce ne sono altre 100 che invece si lasceranno travolgere dal terrore e dal non voler morire, certo… ma non trovo incredibile che ci possa essere qualcuno che riesce ad arrivare a questo momento preparato e “sereno”. Almeno questo è il mio pensiero!
No non funziona così. Proprio perchè l’uomo è fatto a strati non c’è una sola voce quando si
muore. Non è che uno si comporta così e l’altro cosà perche accetta o meno. E’ una complessità da intuire (sapere cosa davvero accade non lo sa nessuno tranne la Veggente che spesso ci sta dentro) e di cui occorreva dare a mio parere conto trattando il tema. Cosi penso. Salutoni e in bocca al lupo per il concorso. CEMF
se clicca sul mio nomignolo c’è il sito dove è pubblicato “Cristina dei morenti” racconto che esprime la mia opinione sul tema. CEMF
io la penso diversamente! per questo l’ho scritto in questo modo!
🙂
…COMPLIMENTI PER LA VINCITA VALENTINA…Il tuo racconto l’avevo letto…non avevo fatto in tempo a commentare…bellissima storia d’amore e…di rinascita!