Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Primo giorno di scuola” di Andrea Polini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Il primo giorno a scuola di un figlio è sempre un giorno speciale.

Lo pensavo accompagnandovi Michele poche mattine fa. Erano quasi le otto, e il sole ancora estivo avvolgeva di un aureo tepore le strade, gli alberi, i palazzi e le villette che punteggiano il quartiere. Tenevo mio figlio per mano, e di tanto in tanto lo osservavo mentre camminava con la testa abbassata, senza fare parola.

Mi domandavo se non andasse volentieri a scuola, oppure se in qualche modo avesse intuito che tra me e sua madre le cose non andavano più bene. Anzi, andavano così male che pure quel mattino abbiamo litigato, poi Simonetta si è rifiutata di accompagnarlo, e così ho dovuto farlo io. I bambini hanno una sensibilità particolare, ritengo che capiscano molto più di quello che supponiamo noi adulti. Ci vuole poco, del resto, a rendersi conto che Michele non è un bambino felice. Non fa mai domande del tipo “mamma e papà si vogliono bene?”, però temo che l’atmosfera di tensione che si respira in casa abbia riflessi nefasti sul suo umore. Mi sento colpevole per questo, ma la fragilità della famiglia non è forse una maledizione dei tempi moderni? Lungo la strada, incontrammo altri bambini accompagnati dai genitori o dai nonni, che, approfittando del bel tempo, avevano deciso, come noi, di andare a piedi.

Quando arrivammo di fronte la scuola, già una piccola folla attendeva il suono della campanella che segnava l’inizio delle lezioni. In quel momento l’emozione in me si accrebbe. Ricordai il tempo quando, oltre trent’anni prima, fu mia madre ad accompagnarmi per il mio primo giorno di scuola. Era questo stesso edificio, con la stessa facciata dipinta di giallo, uguale ad ora il giardino che lo circondava da ogni lato, vasto e ricoperto di un folto manto di erba.

Identici pure i locali interni che  intravedevo dalle vetrate dell’ingresso, molto ampi, estesi soprattutto in senso longitudinale. Anche i bambini assomigliano ai bambini della mia generazione, tranne per il fatto che al posto delle cartelle adesso imperano gli zainetti. Un particolare importante, però, è diverso dai miei tempi: le mamme. Allora le mamme, benché mediamente più giovani di adesso, avevano un aspetto sobrio, da vere madri di famiglia. Ora sembrano ragazze. Abbigliamento e pettinature più civettuoli, danno l’impressione di essere le sorelle maggiori dei loro figli, più che le madri. Michele riconobbe alcuni suoi compagni dell’asilo, anche loro al primo giorno di scuola. I bambini presero a rincorrersi sul prato che occupava uno slargo del marciapiede dove ci trovavamo.

Con vago imbarazzo mi presentai ai genitori e ai nonni degli altri bambini, ed insieme ci demmo da fare per calmare i ragazzi ed evitare così che entrassero in classe sudati, sporchi e spettinati. Io, però, intimamente ero felice. Almeno per una volta, avevo visto Michele sorridere. Improvvisamente, lo squillo della campanella vibrò nell’aria, suscitando nell’animo dei bambini un misto di euforia, impazienza e timore. Subito, un piccolo, vociante fiume in piena di ragazzini e accompagnatori si riversò nell’ingresso della scuola, dove troneggiava il busto del pittore Giovanni Fattori, cui la scuola è intitolata, e irruppe poi nel vastissimo atrio dove alcune maestre già cercavano di radunare gli alunni per classi e sezioni. Anche le maestre ebbero un bel da fare per ricondurre a un minimo di ordine la scatenata torma urlante. Alla fine, Michele fu assegnato alla sezione A della prima classe. Lo salutai con un bacetto sulle guance magre, poi rimasi ad osservarlo mentre al seguito della maestra, insieme ai compagni, si allontanava nel lungo corridoio che conduceva alle aule. Con un gruppetto di genitori e nonni lasciai il vasto atrio, poi attraversai l’ingresso e uscii dalla scuola. Discesi i pochi gradini che portavano nel giardino, e in quel momento notai, tra le altre persone, una giovane donna che a tutta prima mi sembrò una figura familiare. Continuai a fissarla fino a quando entrambi raggiungemmo il cancello del giardino prospiciente l’edificio, e stavamo per uscire in strada. Forse sentendosi osservata, lei si voltò verso di me. Aveva grandi occhi azzurri che spiccavano sul volto ovale dai lineamenti delicati, i lunghi capelli castani le arrivavano fino alle spalle. Non era molto alta, ma le sue proporzioni armoniose si sposavano bene al senso di dolcezza che evocava il viso.

“Laura…sei Laura?” domandai esitante, senza smettere di fissarla.

Lei per un attimo abbassò lo sguardo, poi per la prima mi fissò dritto negli occhi. “Sì,” rispose in un soffio. “E tu, tu sei Massimiliano…Oh Dio, quanto tempo è passato! Come stai? Anche tu hai un bambino?” Accompagnò le domande con un sorriso che sembrava irradiare innocenza. Lo stesso sorriso che aveva da bambina, più di un quarto di secolo prima. Rimanemmo come pietrificati proprio davanti il cancello, e dovemmo scansarci per far uscire dal giardino gli altri accompagnatori. Ci mettemmo a conversare sul marciapiede, a pochi passi dalla scuola. Mentre parlavo, pensavo quanto, a volte, sa essere strana e imprevedibile la vita. Avevo ritrovato il mio primo amore d’infanzia il primo giorno di scuola di mio figlio. Uno di quegli amori dell’età in cui non si sa che cosa sia l’amore. O magari è dopo, nell’adolescenza, che si smarrisce il vero senso dell’amore. Chissà. Di sicuro posso dire che quella mattina, per la seconda volta, mi sentii felice. Non mi capita spesso. Prima avevo visto sorridere Michele, e ora c’era Laura, bella e dolce come una volta, proprio di fronte a me. Ma un quarto di secolo era trascorso per entrambi, così appresi che era sposata, e aveva appena accompagnato sua figlia Carla, che frequenta la quarta classe. Dalle sue parole, se sia felicemente sposata non saprei dire. Anch’io le raccontai di me, e del mio matrimonio prossimo al fallimento. Stemmo più di mezz’ora a scambiarci confidenze sul marciapiede. Un record, o quasi, per due persone che la vita aveva reso a tutti gli effetti degli sconosciuti. Ero talmente preso da quei momenti, così felice, che quasi dimenticavo di andare ad aprire l’ufficio. Salutandoci con una stretta di mano e un bacio sulle guance, ci ripromettemmo di riprendere la nostra amicizia. Ci saremmo visti di nuovo quando sarei tornato ad accompagnare Michele. Ripercorsi la strada dove sorge la scuola, e come sempre succede quando nell’animo si agita un nuovo gradito fermento tutto mi sembrava più bello, anche i raggi del sole che si riflettevano sulle facciate dei palazzi e delle villette avevano per me una sfumatura più vibrante e gradita. Presto raggiunsi il viale principale del quartiere, e quando arrivai vicino l’agenzia vidi che la segretaria aveva già sollevato le saracinesche. Certo, Monica deve essersi meravigliata per il mio ritardo e per quell’espressione vagamente ilare che certo dovevo avere stampata sul viso, ma è molto discreta e fece finta di niente. Il mattino trascorse meno monotono del solito, ed anche il cliente che venne a protestare per il premio dell’assicurazione RCA a suo avviso troppo alto mi sembrò sopportabile. Alle una chiusi l’agenzia per la pausa pranzo. Con mia moglie eravamo d’accordo che sarebbe andata lei a prendere Michele a scuola alle undici. Peccato, sarei andato volentieri io, e lo ammetto con vergogna, non per stare di più insieme a mio figlio. A casa, la situazione era la stessa di sempre. In cucina la minestra fumava nelle scodelle, ed emanava un buon odore di pomodoro. Con Simonetta ci scambiammo due parole di circostanza. Michele nell’attesa di mangiare sbocconcellava qua e là quello che c’era in tavola. Solita routine, quando le cose non andavano peggio.

Tre giorni sono passati. Nel frattempo si è sempre occupata mia moglie di accompagnare Michele a scuola. Domani, però, toccherà di nuovo a me. Chissà se rivedrò Laura, e chissà che piega prenderanno gli eventi. Non lo so proprio. Approfittando che stamani c’è poco da fare in agenzia, ho scritto queste righe a mo’ di diario, fingendo di lavorare. Già, fingendo. La mia vita è stata soprattutto un fingere. Temo, però, che se vorrò vivere secondo i sentimenti che realmente si agitano in me, avrà un prezzo troppo alto la mia felicità. 

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