Premio Racconti nella Rete 2013 “Aspettami” di Alessandra Giannitelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Ricordo una mite sera di inizio novembre, piazza Esedra illuminata da sembrare in festa, quasi un’apparizione nel mezzo del traffico cittadino.
Un allegro viavai tra i tavolini del bar e le scale della metro, voci caotiche, conversazioni troncate e una gran fretta collettiva.
Ti aspettavo distrattamente, tra rumori di bicchieri e incessanti trilli di cellulari, nella confusione generale di una città che si stava risvegliando alle luci della sua seconda vita. Un aperitivo appena servito accompagnava la mia attesa, mentre i miei pensieri ripercorrevano quella giornata che non avrei mai più dimenticato.
Sulla banchina della metro, quella mattina, le storie di chi come me era immerso nell’attesa di tutti i giorni mi avevano tenuto compagnia e mi avevano distratta dai miei pensieri, dalla mia impazienza di arrivare, di raggiungerlo per il nostro appuntamento. Invece di continuare a pensare inutilmente alla notizia del suo ritorno e a come sarebbe stato rivederlo dopo tanti mesi, mi ero immersa nelle vite avventurose o romantiche, nei ricordi di guerra e nelle nostalgie di un’infanzia ormai andata, raccontate nelle pagine che accompagnavano molte delle persone in attesa, richiamandone l’attenzione attraverso quelle parole che conservano la forma dell’uomo anche quando l’uomo cessa di esistere, come sosteneva Seferis, stretto tra le mie braccia ancora intorpidite.
Roma si stava svegliando tra i fischi delle prime partenze e il frastuono degli altoparlanti che annunciavano incessantemente itinerari allettanti e informazioni di servizio, eppure si riusciva facilmente a varcare in punta di piedi l’apparenza di quelle facce assonnate, ancora intorpidite e quasi indispettite dal richiamo insistente del dolce cullare notturno. Riuscivo ad intuirne il carattere, le aspirazioni, gli stati d’animo tracciati a chiare lettere nei titoli dei loro libri.
Studenti alle prese con l’ultimo ripasso prima dell’esame, lavoratori in attesa di una nuova giornata di fatica, uomini e donne saltati giù al letto all’alba per raggiungere chissà chi o che cosa, preoccupati o semplicemente emozionati.
Una volta scesa alla fermata stabilita, il mio passo diventava sempre più veloce man mano che si avvicinava l’ora dell’appuntamento e col pensiero già vagliavo discorsi, circostanze, risposte possibili, tutte rigorosamente inutili. Gli avrei chiesto di restare e di intraprendere insieme il progetto editoriale per cui avevamo speso sogni ed energie, o forse avrei aspettato che fosse lui a chiedermelo.
Ore dopo, seduta a quel tavolino di piazza Esedra, ti aspettavo distrattamente e rivivevo attimo per attimo quei momenti che mi pareva di aver soltanto immaginato o sognato, forse in una notte pesante e difficile.
Invece era successo nella realtà di quel pomeriggio, dopo un’allegra passeggiata tra i vicoli del centro e un lungo pranzo chiarificatore.
Ai nostri sguardi rapiti, la Fontana del Tritone sembrava sorretta da veri delfini saltellanti e la nostra gioia sgorgare liberamente tra gli zampilli d’acqua.
Il pranzo era durato più del previsto, tra ricordi e progetti per un futuro che sembrava ormai dietro l’angolo: sarebbe stato la nostra rivista e non avrebbe deluso le aspettative, ne era certo ed io gli credevo. A parte qualche particolare stilistico da rivedere poi con calma, eravamo pronti e non ci saremmo tirati indietro di fronte a niente e a nessuno. La linea editoriale l’avevamo stabilita insieme senza difficoltà, l’importante era crederci sul serio, ma questo era il presupposto della nostra collaborazione sin da quando era solo un sogno, quando ancora non era nemmeno un’idea.
Di nuovo insieme dunque, stavolta anche sul lavoro, come tra i corridoi universitari qualche anno prima, sempre tra i libri ma con criteri e scopi molto diversi, seppur con la stessa, identica passione di allora.
I nostri passi sincopati sui sampietrini quel pomeriggio risuonavano rumorosamente nell’aria e riflettevano l’entusiasmo e la gioia che provavamo, la voglia di fermarci su noi per provare finalmente a stare bene davvero, di costruire qualcosa di serio. La sua decisione di restare in città, senza più indugi.
Tra i brusii della sera in festa senza perché, continuavo a pensare a quello che era stato tra noi poche ore prima, ai nostri momenti speciali, soltanto per noi, aspettandoti ormai con impazienza.
Senza accorgercene, senza che potessimo neanche lontanamente prevederlo, qualcosa stava cambiando – o era già cambiato – qualcosa che non saremmo riusciti a scordare. Tutto il resto non sarebbe stato più come prima.
Ci ripensavo senza sosta, come se rimuginare e rivivere quegli attimi potesse riportarmi indietro anche solo per un attimo. Invece non si poteva.
Una confusione totale mi governava in quel momento, mentre tra mille domande e inutili tentativi di riflessione mi tornavano in mente le parole di Seferis sulla vita che spesso scorre come un largo fiume tra le nostre dita senza che si riesca a berne un solo sorso. Ed io? Anch’io stavo lasciando scorrere la mia vita senza arrestarla neanche per un istante, nemmeno per bagnarmi appena le labbra con la sua acqua?
Non sapevo rispondere. Non sapevo più nulla di me, della mia vita, di cosa avrei voluto davvero in quel momento.
Emozioni e tappe importanti della mia vita erano passate per quelle strade, speranze e paure si erano affacciate spesso alle finestre della città, avevano oltrepassato mura e attraversato l’asfalto ed erano impresse nella mia testa insieme alla voce un po’ rauca ma sempre affascinante di quella città.
Ricordi e pensieri astratti si susseguivano in una connessione di piena libertà, senza un inizio preciso né una fine e non sapevo se veramente ti stavo aspettando o se aspettavo soltanto di capire me stessa.