Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Daisy” di Cristina Ghezzi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

D-a-i-s-y

Ricordo ancora l’effetto che mi fecero quelle lettere, bianco su nero sul registro di seconda media. Era il primo giorno di lezione, e per gioco mi ero messa a leggere ad alta voce i nomi impressi sul registrone blu, aperto sulla cattedra.

Fingevo di fare l’appello seria, imitando lo sguardo presbite del professore di educazione artistica, che per osservare i nostri disegni o leggere qualcosa doveva avvicinare il foglio al viso, strizzando gli occhi.

Ogni compagno che chiamavo rispondeva “preseeeenteee” in falsetto. Ci stavamo divertendo un mondo, finché non si materializzò quel nome estraneo ed esotico.

          Sarà straniera?

          Bho, fa Ricciardi di cognome

          Magari la madre è inglese

Mi feci improvvisamente silenziosa: come un oscuro presagio, quelle cinque lettere mi procurarono una stretta allo stomaco, uno strano malessere cui non avrei saputo dar nome.

 

La Daisy non subì l’umiliazione di entrare, da sola, in una classe dove nessuno la conosceva, di dover cercare timidamente un posto libero, sostenere lo sguardo incuriosito e indagatore di quindici perfetti sconosciuti, pronti a etichettarla quale sfigata con la crudeltà dei dodici anni.

Lei fece la sua entrata trionfale, preceduta dalla professoressa e seguita dal bidello con il banco.

          Ragazzi, questa è Daisy, la vostra nuova compagna. Ecco, appoggi qui il banco, prego. Si è trasferita qui da due giorni con la famiglia. Mi aspetto che ognuno di voi faccia del suo meglio per metterla a suo agio.

Una con quel nome non poteva essere un tipo comune, con gli occhiali o l’apparecchio ai denti, o con dei capelli color can-che-fugge come i miei. Madre natura l’aveva dotata di una folta chioma color miele, che le ricadeva in graziosi boccoli dorati sulle spalle. Gli occhi invece erano scuri scuri, ornati da folte ciglia, brillanti come quelli dei negri. La sua pelle color crema sembrava non esser mai stata offesa da alcun tipo di neo o foruncolo.

Il corpicino, sottile come un giunco, era valorizzato da un maglione largo con lo scollo a barca. Noi ragazze guardavamo rapite quei capelli, quei vestiti, ed i graziosissimi orecchini che le tintinnavano dai lobi.

Ma i ragazzi guardavano estasiati lei, Daisy, e ridacchiavano agli inviti dell’insegnante di essere gentili con la nuova arrivata.

Guardando i loro occhi, i colli protesi, i pomi d’Adamo pulsanti, sentii di nuovo quella stretta al ventre, persistente.

 

Ricreazione. Vertigine di domande. Da dove vieni, cosa fanno i tuoi, dove abiti qui, che musica ascolti. Niente era fuori posto. Composta, sicura, affatto intimidita, la Daisy rispondeva cortesemente a tutte le domande mentre annotava sulla Smemo, con la grafia tondeggiante tipica di quel genere di ragazza, i numeri di telefono dei nuovi compagni che le si accalcavano intorno.

Il diario era già pieno: dediche dei vecchi compagni, foto di attori e cantanti, una foto di lei da piccola. Ce la passavamo: nessuno aveva mai visto una bimba tanto bella.

 

Suo padre faceva il giornalista. Mio padre è un architetto il padre di Luisa un avvocato, ma la parola “giornalista” evocava in noi una vita affascinante e rischiosa; senza contare il fatto che i giornalisti erano per noi soprattutto dei personaggi televisivi, e tutto quello che aveva a che fare con la televisione ci stregava.

 

Dopo la ricreazione spuntò l’insegnante di storia e geografia, con le nuove ricerche per l’anno scolastico. Questa simpatica signorina aveva l’abitudine di dividerci in gruppi da tre, assegnarci varie ricerche da svolgere e correggerle alla fine del mese.

In prima avevo scelto come compagne le mie migliori amiche, Luisa e Lucia. Passavamo lunghi pomeriggi a cincischiare sulle enciclopedie, a scaricare materiale da internet, a bere cioccolata calda e scambiarci confidenze.

In particolare ci divertivamo a casa di Lucia, perché i suoi non c’erano fino alle sei; potevamo ascoltare musica a tutto volume, provarci i meravigliosi vestiti di sua sorella, pasticciare col trucco davanti allo specchio grande del bagno.

Loro due erano le ragazze più carine della classe, organizzavano delle feste sbalorditive, si vestivano già da grandi. La loro amicizia mi faceva brillare di luce riflessa, mi rendeva una tipa “giusta” davanti al gruppo.

Io, grassoccia e impacciata, non ero mai stata oggetto delle feroci prese in giro che i maschietti riservavano alle “ciccione”: mi associavano a Luisa e Lucia, e mi trattavano con paterna benevolenza.

          Daisy, tutti i gruppi sono da tre, meno quello di Giacomo e Sandro. Però magari ti ambienterai meglio con delle ragazze.. perché non ti siedi al posto di Caterina, tra Lucia e Luisa? Caterina chiacchiera troppo, preferisco averla in prima fila. Le ricerche le farai con loro due, così Caterina insegnerà qualcosa a Giacomo e Sandro, che lo scorso anno non si sono impegnati. Conto su di te, Caterina..

Mi strizzò anche l’occhio, la megera, come per farmi capire che il suo provvedimento non era una punizione, ma una dimostrazione di fiducia nella mia maturità.

Non avevo mai odiato nessuno in vita mia, ma quella strizzata d’occhio fece nascere nella mia giovanissima persona un rancore sordo, terribile.

Rossa in viso, raccolsi le mie cose e mi diressi al banco di Daisy, senza guardare in faccia l’insegnante. Le orecchie mi ronzavano. Nessuno si accorse del mio turbamento: guardavano tutti lei.

 

 

II

 

La festa

 

 

 

 

Fu così che Luisa e Lucia divennero le migliori amiche della Daisy. “La Daisy”: dalle mie parti non usiamo l’articolo davanti ai nomi, ma questa ragazza nordica lo faceva sempre. A forza di sentirla dire al telefono “pronto sono la Daisy”, e di sentire sua madre, con quella erre moscia tanto distinta, parlare “della Daisy”, alla fine Luisa e Lucia presero a chiamarla così, e tutta la classe con loro.

Mi sembrava un segno di rispetto, di riguardo, dire “la” Daisy e non semplicemente Daisy.

Un po’ come il “don” riservato ai signori di un tempo.

 

Durante la ricreazione mi avvicinavo al loro gruppetto, come ai vecchi tempi. Loro tre però ridevano di cose che non conoscevo, alludevano agli incontri di studio pomeridiani: facevo fatica a stare dietro alle loro conversazioni. Si era creata una confidenza, una complicità tra di loro che mi faceva sentire non dico rifiutata, ma appena tollerata. Un di più, una figura tozza e sgraziata in mezzo a quei tre fiorellini

Se devo essere sincera, parlando col senno del poi, la Daisy era gentile con me; ad esempio quando avvicinavo le mie amiche, era lei a tentare di coinvolgermi, e loro ad ignorarmi. Senza intenzione, naturalmente. Erano talmente prese dalla personalità della Daisy, dai suoi consigli su trucco e vestiario, dalla musica che aveva nell’I-pod, che proprio non mi vedevano. Penso che se avessi detto loro quanto stavo male, si sarebbero sentite in colpa e per qualche giorno avrebbero fatto del tutto per includermi.

 

Un giorno mi invitarono a casa di Lucia, per una festa.

Organizzata da LORO tre.

L’anno prima eravamo NOI tre ad organizzare le feste.

Temevo che i compagni mi avrebbero derisa, facendomi notare come le mie amiche  mi avessero abbandonata. Ma non lo fecero: sembrava così normale che quelle tre creature stessero insieme, che in realtà nessuno aveva notato la mia sparizione dalla scena. Facevo così bene da tappezzeria, che per lo meno fui lasciata in pace a rimuginare.

Intanto avevo dato un nome alla fitta allo stomaco provata il primo giorno di scuola. Era un nome che non mi piaceva: si chiama invidia, ed è la forma più potente di odio.

Un odio che cresce tanto, quanto più la persona in questione non è nemmeno sfiorata dall’idea di averti fatto un torto.

 

I genitori di Lucia non c’erano, quella sera. Avevano lasciato la tavola piena di bibite e stuzzichini. Le ragazze avevano addobbato la stanza a nostra disposizione con festoni e candele colorate e profumate, e collegato l’I-pod della Daisy alle casse dello stereo.

 

La musica mi sembrava poco ballabile: l’anno prima mettevamo su la disco-dance, e saltavamo e pogavamo come matti, eccitati e sudati. Lei invece proponeva Ligabue, Vasco, Cremonini. Nessuno ballava, notai con gioia, buttandomi sul buffet.

Mentre trangugiavo allegramente un tramezzino al tonno, però, le ragazze annunciarono un gioco per  movimentare la serata. Avremmo ballato a coppie, tipo “lento”, e siccome i ragazzi erano più delle ragazze, uno avrebbe ballato con la scopa e l’avrebbe passata ad un compagno a caso, così da mescolare le coppie.

Cominciammo che ancora masticavo: il mio cavaliere, un ragazzino magro che mi arrivava alla spalla, guardava nervosamente il compagno con la scopa. L’oggetto passava, a turno, dal cavaliere solitario a quello della Daisy, da questo al compagno di ballo di Lucia, che a sua volta tornava da Daisy o da Luisa.

Giacomo ballava con Sandra, che aveva una fama da sfigata: alta alta, con un neo bruttissimo accanto all’occhio. A un certo punto si spazientì e cominciò a dire: “Oh, non mi date il cambio?”

Subito gli altri lo imitarono: chiedevano a gran voce “il cambio”, ed andavano diritti da una delle tre ragazze.

Sembrava che tutti si divertissero: si divertivano i ragazzi, che potevano a turno stringersi alla Daisy, affondando il viso tra quei capelli che profumavano di shampoo; se la spassavano le tre stelline, naturalmente, che ballavano e ridevano con i maschietti che facevano i buffoni. Anche le altre ragazze sembravano contente: facevano crocicchio, commentando i vestiti della Daisy, la casa di Lucia, e tirando ad indovinare chi delle tre piacesse ad ogni singolo ragazzo.

Avevano interiorizzato tanto bene il loro ruolo di tappezzeria, che non si sentivano ribollire il sangue per l’umiliazione di sentire il proprio cavaliere pretendere il “cambio”.

Tornai a casa e piansi tutta la notte.

III

 

Una pessima idea

 

 

 

 

Ero davvero brava a scuola, lo ero sempre stata. E disciplinata, solo un po’ chiacchierona.

Ma con la professoressa di storia, quella che mi aveva giocato quel tiro mancino, ero diventata una furia: rispondevo male, non ascoltavo, mi rifiutavo di partecipare alle lezioni. Se mi interrogava rispondevo bene, ma con risentimento.

Ha avuto anche la faccia tosta di chiedermi cosa fosse successo, perché il mio atteggiamento fosse così difficile nei suoi confronti; mi disse che mi stimava e cavolate del genere. Come poteva chiedermi cosa aveva fatto? Non era evidente?

Un giorno si spazientì e mi mandò fuori dalla porta.

Sola nel corridoio bianco, iniziai a vergognarmi, e mi assalì il timore che passasse il preside. Allora mi rifugiai in bagno, a piangere di rabbia e frustrazione. Ero in una di quelle stanzette piccole con il WC, quando sentii qualcuno che entrava nella stanza grande, comune.

Voci maschili parlottavano, qualcuno mugolava. Aprii uno spiraglio della porticina.

C’erano due ragazzi di terza, che trascinavano una di prima. Uno le premeva la mano sulla bocca, l’altro le alzava la maglietta.

Uscii fuori, come in trance. Vidi un terzo ragazzo armato di telefonino, che riprendeva la scena. Il ragazzo della maglietta, che si chiamava Paolo, alzò anche il reggiseno e scostò il proprio corpo, in modo che i seni fossero bene in vista sul display.

La lasciarono lì, muta e piangente, e si allontanarono sghignazzando. Quello col telefonino si accorse della mia presenza. Si avvicinò e mi disse: “Guai a te se parli. Sennò lo facciamo anche a te.”

 

Non parlai, ma il giorno dopo quella storia girava per tutta la scuola. Il bello era che il viso della ragazza era sfocato, non si capiva bene che le stavano impedendo di chiamare aiuto, né si poteva distinguere il suo sguardo peno di lacrime e imbarazzo.

Tutti i ragazzi commentavano la procacità della ragazza e i più bruttini si ripromettevano di provarci con lei, convinti che chi aveva dato prova di tanta disinibizione dovesse, logicamente, concedere le proprie grazie a chiunque, senza fare troppo la schizzinosa.

Così parlavano i ragazzi, mentre le mie ex amiche emettevano gridolini isterici per mettere a tacere quelle volgarità che insultavano le loro caste orecchie.

Pian piano, un’idea malsana si fece strada nella mia mente. Ma non avrei avuto il coraggio di portarla avanti se non si fosse presentata l’occasione.

Paolo, il ragazzo della maglietta, mi avvicinò qualche giorno dopo, all’uscita di scuola.

– Non hai parlato. Brava. Lo sapevo che eri una dritta. Si vede. Peccato che non sei carina, sennò ti chiedevo di uscire

– Nella mia classe però c’è una ragazza molto carina.

– La Daisy? Ma quella se la tira

– Guarda, oggi era tutta eccitata quando parlavano del filmato del bagno. Sembrava le piacesse.

 

La volevo vedere come quella poveraccia di prima: svergognata, umiliata, disprezzata.

 

Concertai un piano con Paolo: nel pomeriggio, la Daisy doveva andare a studiare a casa di Luisa. Ci andava sempre a piedi, la incontravo qualche volta. Prima della casa di Luisa c’è una villetta abbandonata, un po’ cadente, che andavamo ad esplorare da piccole con le torce, Luisa ed io.

Paolo e i suoi amici si sarebbero dovuti nascondere là. Io ci avrei attirato la Daisy con una scusa, e loro l’avrebbero spogliata e filmata.

          Ma quella è una che parla! – diceva Paolo

          Non parla; vedrai che le piace. Se ci prende gusto, ve la passate a turno

A forza di studiare con i ragazzi, avevo acquisito il loro linguaggio e parlavo come uno scaricatore di porto. A Paolo ed ai suoi amici non sembrava strano: non mi vedevano come una ragazza, tutto qua.

 

Quel pomeriggio aspettai la Daisy nei pressi della vecchia casa, per minuti che sembrarono ore. Ma spuntò, con un poncho verde ed una bellissima borsa di cuoio con le frange, tipo texana, i riccioli dorati che le ondeggiavano sulle spalle.

          Caterina!

          Daisy, abbiamo trovato un diario nella vecchia casa.. sembra antico. Vieni, c’è anche Luisa. Ti aspettavamo

Mi prese per mano, venne fiduciosa con me verso la casa. Era la prima volta che la toccavo. Provai una strana emozione.

Entrammo. Subito i ragazzi la afferrarono e le tolsero il poncho e la borsa. Lei provò a urlare, ma le appoggiarono del nastro da imballaggio sulle labbra.

Non erano solo i tre della scuola, c’erano anche altri due più grandi. Uno aveva una videocamera, e me la mise in mano già accesa, ordinandomi di riprendere.

Le tolsero la maglietta, il reggiseno. Lei si difendeva debolmente. Piangeva.

I seni erano acerbi, le costole sporgevano dalla pelle candida. Io riprendevo. Poi le tolsero anche la gonnellina, e le mutandine, tutto d’un colpo. Non me lo aspettavo.

Non capivo. Cominciai a tremare. La stesero sui suoi abiti, uno le teneva le braccia, altri due le furono addosso. La Daisy era paonazza dallo sforzo, sembrava soffocare per le lacrime.

          Basta!

Cercai di gridare, ma la voce uscì pianissimo. Mi sentirono, guardarono verso di me. Videro che avevo abbassato la videocamera, che tremavo, che piangevo. Uno dei tre con i pantaloni abbassati mi prese la telecamera, in silenzio, e prese a filmare.

Io volevo scappare, ma ero inchiodata a terra. Si mise a cavalcioni addosso alla Daisy, spingendo e imprecando. Poi cominciò a mugolare, come di piacere, con gli occhi acquosi.

Scappai. Corsi a casa, mi buttai a letto e piansi fino al mattino.

Non volevo andare a scuola. Non ci volevo più andare. La Daisy mi avrebbe denunciato? L’aveva già fatto? Come l’avrei guardata in faccia?

IV

 

L’illustre assente

 

 

 

 

 

 

 

A scuola non c’era. Sta male, la madre non mi ci ha fatto neanche parlare, diceva Luisa a Lucia.

Per un mese si vociferò che la Daisy fosse malata, e nulla più. Seppi più tardi che non aveva raccontato nulla di quella vicenda: si era chiusa in camera, piangeva, non voleva uscire.

Ma i suoi genitori non ci misero molto a scoprire che qualcosa doveva essere successo, e vennero a parlare col preside.

 

Qualche tempo dopo, raccontano, la madre di Paolo tornò a casa prima dal lavoro, e sorprese suo figlio con due amici sul divano buono, che guardavano un filmato.

Urlarono; lei urlò di rimando. Guardò cosa c’era in TV, e per poco non si sentì male.

Fu così che scoppiò la bomba. Non per me, non ancora.

 

Mi sono chiesta a lungo perché i ragazzi non mi avessero subito nominato. Non era certo per amicizia, visto che non ci conoscevamo quasi. Tantomeno per cavalleria, pensavo. Credo che la causa sia stata il mio essere una nullità. Loro pensavano che l’idea fosse stata di Paolo, e Paolo stesso si era convinto, nel ripeterlo agli amici, di essere la geniale mente criminale. Io ero stata una insignificante pedina nelle loro mani.

Davanti agli inquirenti Paolo avrebbe potuto scaricare parte della colpa su di me; credo però che si fosse completamente dimenticato della mia persona. Del resto, dicono che non abbia fatto altro che piangere, durante quelle discussioni.

I genitori della Daisy decisero di non rimandarla a scuola, avrebbe studiato a casa, poi avrebbe dato un esame per passare in terza. Meditavano inoltre di tornare a Parma, o comunque di allontanare la figlia da questi luoghi, che dovevano suscitarle ricordi angosciosi.

 

Io per un po’ fui tormentata dai rimorsi. Luisa e Lucia mi invitarono al mio vecchio posto, e ripresi  anche le riunioni pomeridiane con loro. Ma sul mio banco c’era inciso quel nome, Daisy, ed i diari dove mi chiedevano di disegnare qualcosa di carino erano pieni di sue dediche, citazioni di canzoni, poesie scritte con quella graziosa grafia tonda.

Eppure piano piano cominciai a dimenticare, a riprendere i vecchi ritmi. Rimossi quell’orribile vicenda, non volli più pensarci.

 

          Dal preside

Non avevo mai visto Emilio, il bidello, con uno sguardo tanto truce. Capii subito che la mia latitanza era finita.

C’erano i miei genitori, c’era una psicologa. Non riuscii a dire nulla: solo a piangere, come Paolo.

Daisy era finalmente riuscita a parlare di quello che le era accaduto, ed aveva fatto il mio nome come adescatrice.

I miei decisero di togliermi da scuola per un po’; un destino ironicamente simile a quello della Daisy. Nel tornare in classe per raccogliere le mie cose, mi accorsi che tutti avevano saputo: presero a insultarmi, a sputarmi in faccia, a tirarmi addosso di tutto.

Lei era stata la loro beniamina.

Era finita.

Tornai a casa schiantata, volevo solo morire. Per giorni non feci altro che piangere, e pensare. Da una parte ero davvero pentita del mio gesto. Rivedevo la Daisy, sempre gentile e sorridente. Mai l’avevo sentita parlar male di qualcuno, mai l’avevo vista perdere le staffe.

Del resto, perché avrebbe dovuto se tutti l’adoravano? L’avevo odiata; non a causa sua, a causa del resto del mondo, che confina le persone come me nel girone delle nullità, degli sfigati, degli smidollati.

Ero pentita, certo, e molto. Tentavo di figurarmi una storia diversa, una sorta di “come sarebbero dovute andare le cose”, e tornavo sempre a quei primi giorni di scuola: vedevo l’insegnante che stavolta faceva accomodare la ragazza accanto a me, che ci metteva nello stesso gruppo di ricerca; saremmo diventate amiche per la pelle. E ci saremmo divertite con i nostri compagni di classe.

Nonostante il lavoro della psicologa, con la quale peraltro non collaboravo molto, stavo malissimo. Ma ricevetti un aiuto insperato.

V

 

Il crimine paga

 

 

 

 

 

 

 

Sui telefonini degli stupratori fu rinvenuto il filmato del bagno, e la ragazzina fu identificata ed interrogata. Lei raccontò tutto con dovizia di particolari. Anche che io ero uscita dal bagno, le ero sembrata sconvolta, e che Paolo mi aveva minacciata di fare lo stesso con me.

Tutti i compagni testimoniarono che non avevo un rapporto di amicizia con quei ragazzi. Allora, pensarono i miei genitori e gli stessi inquirenti, come mai ero stata loro complice? Forse avevano continuato a minacciarmi?

Interrogarono Paolo, che intanto aveva riconquistato la sua aria strafottente da bullo: “quella è una stupida, se la faceva sotto” sentenziò, e fu l’unico commento sulla mia posizione nella vicenda. Dal filmato, poi, emergeva anche il mio flebile “basta”, il tremore delle mani, e quella voce maschile “dammi qua, filmo io!”

 

          Lo sapevi cosa le avrebbero fatto?

          Pensavo.. la stessa cosa dell’altra, nel bagno

          Cioè riprenderla a seno nudo?

          .. (annuii, piangendo)

          Cos’hai fatto, quando hai lasciato la telecamera?

          Sono scappata

          Perché?

          …. (lacrime)

          Perché non hai chiamato aiuto?

          Avevo paura

          Dei ragazzi?

          Anche. Ma più di voi

          Temevi che la tua compagna dicesse che eri stata tu ad adescarla?

          Ne ero sicura

 

Da carnefice divenni vittima. La notizia si sparse per la scuola: ero stata minacciata, plagiata. Eppure avevo detto “basta”, avevo sfidato le loro ire ed ero scappata.

Cominciarono ad arrivarmi messaggini di solidarietà dai miei compagni.

 

La prima volta che li rividi, mi guardavano con un misto di compassione ed ammirazione.

“Povera, come sei dimagrita..” esclamò Luisa. Non me ne ero accorta, ma quel periodo di sofferenze mi aveva trasformata in una ragazza emaciata.

Mia madre, decisa a farmi uscire da quel brutto periodo, mi portò al mare per tutta l’estate e mi rinnovò il guardaroba.

Niente più abiti da bambina, la trascinai nei negozi preferiti della Daisy.

Mi accorsi che i ragazzi, al mare, mi guardavano in modo diverso. O semplicemente mi guardavano. Ero snella, vestivo alla moda, ero abbronzata.

Il tipico gruppetto di giovani dei villaggi vacanza, quello che osservavo sempre da un angolino senza osare avvicinarmi, mi spalancò le porte. Furono loro ad avvicinarsi a me, a presentarsi. Passai l’estate a studiare, nuotare, uscire con questi ragazzi sani, belli, normali.

 

Mi preparavo ad andare in terza.

Anche io non sarei tornata nella vecchia scuola: la psicologa diceva che era meglio cambiare aria, e mio padre aveva avuto un importante contratto in un paese a 50 km. Doveva progettare un importante centro direzionale: avrebbe dovuto lavorare giorno e notte, e preferiva abitare sul posto. Così ci trasferimmo.

Andai a trovare la psicologa per l’ultima volta. Era una giovane donna, bella, vagamente somigliante a Michelle Hunziker. Il mio nuovo look da aspirante velina, il taglio di capelli ad opera di un parrucchiere di tendenza (altro consiglio della Daisy), la linea finalmente conquistata la colpirono positivamente. Avevo reagito bene allo shock, ne ero uscita bene.

Nel salutarla, volli togliermi una curiosità che mi divorava fin dalle prime visite:

          Quando ci siamo conosciute, mi hai detto che ti chiami Sara.. ma sulla targa della porta c’è scritto Spadoni Rachele, psicologa..

          All’anagrafe mi chiamo Rachele, è il nome scritto sulla carta d’identità, ma amici e familiari mi chiamano Sara..

          Perché?

          Non so, mi chiamano così fin da bambina.. forse i miei si erano pentiti del nome scelto..

Poi mi diede un bacio e mi salutò.

 

Ed eccoci al primo giorno di scuola. Mi sono cambiata cinque volte, prima di avviarmi alla macchina: so che la prima impressione è importante.

Mi guardo, non mi riconosco. Nello specchio vedo una figura sottile, dall’apparenza ingenua e maliziosa nello stesso tempo. Il mio zaino è pieno di dediche degli amici del mare, scritte con gli Uni Posca. Il diario, l’hanno voluto firmare tutti i compagni della vecchia classe.

Arriviamo a scuola, ho fatto un po’ tardi. L’insegnante mi accompagna in classe, mi presenta: “questa è Caterina, una nuova compagna. Si è trasferita da poco: suo padre è l’architetto che si occuperà del nuovo centro direzionale”

Venti paia d’occhi mi guardano. Quello che leggo nei loro sguardi mi dà dei brividi di piacere: curiosità, ammirazione, un po’ d’invidia.

Prendo posto, sorrido ai vicini. A ricreazione, i nuovi compagni mi circondano, per darmi il benvenuto. Il primo si presenta: “ciao Caterina, io sono Matteo”

“Caterina è il nome scritto all’anagrafe. Ma amici e familiari, da sempre, mi chiamano Daisy..”

 

 

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2 commenti »

  1. Mi è piaciuto il tuo racconto Cristina! Finalmente qualcuno che racconta una storia! Da qui poi possono partire le riflessioni: sull’adolescenza, sulla società, sulla psiche umana, ecc. Se posso darti un consiglio: aspetta prima di decidere che quella che hai appena completato è la versione ultima del tuo lavoro…ma rileggi rileggi riscrivi riscrivi ecc ecc Andrea Ercolini

  2. Grazie per i complimenti e la sincerità! Anche se ho poco tempo in questo periodo ho limato un pò qua e là.. e continuerò a farlo!! peccato che non si possa farlo on line..

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