Racconti nella Rete 2009 “High tech” di Monica Dini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Davanti al cancello guardò la casa nuova. Era verde.
Una foglia di tiglio avresti detto.
Era ostile con le larghe finestre e le inferriate, le siepi geometriche in un giardino troppo illuminato.
Era sera, il freddo scricchiolava sotto le scarpe sporche di fango rappreso. Il ghiaccio irrigidiva l’erba come stecchi.
Beppe stava davanti al cancello. Aveva suonato e aspettava che qualcuno gli aprisse.
Tornava dal lavoro.
Tornava a casa dopo una giornata di duro lavoro al freddo. Sui capelli, sulla giacca, sui pantaloni, una polvere chiara di calcina e schizzi d’intonaco erano testimoni. Solo la borsa del pranzo, conservava intatto il celeste originario. Aveva le mani secche, rattrappite.
Aspettava davanti al cancello che i suoi gli aprissero.
Alzò gli occhi sulla facciata verde, si sentì come un ospite.
Avevano traslocato da poco.
Suonò di nuovo. Nessuna risposta.
Aprì il cancello.
Fece girare la chiave nella porta. Dopo un signorile e ben oliato cloc-cloc, la porta si aprì, mostrando l’ingresso sfavillante di marmi e mobili high-tech.
Beppe abbassò gli occhi. Un cane si arrabbiò nella strada.
– Nessuno come al solito – Pensò.
Guardò il riflesso delle pesanti scarpe antinfortunistiche sullo specchio del pavimento.
Il fango formava rivoli di argilla rossa.
Senza toglierle percorse il corridoio. Camminava curvo, con le gambe un pò allargate. Era per colpa della stanchezza che camminava così. Si vide grigio e spento nella specchiera scintillante. Entrò nel salone. Più di dieci luci erano accese e rimbalzavano sui cristalli, sugli smalti, sugli acciai della casa nuova.
Tanta luce era come un forte rumore.
Guardò ancora le grosse scarpe sporche, percorse tutto il salone girando intorno all’appuntito tavolo di cristallo.
Si voltò a guardare. Aveva lasciato un sentiero di orme rosse sui marmi lucidi.
Tolse le scarpe senza slacciarle e le calciò via. Caddero in un angolo schizzando il muro smaltato. Presto si formò un mucchietto di fango lì accanto.
Andò a farsi la doccia. Anche la stanza da bagno era lucida di cristalli e acciaio.
L’acqua rimbalzava sul suo corpo, pungeva. Non somigliava al caldo abbraccio delle gocce rotonde della vecchia casa, là c’era poca pressione nei tubi e l’acqua arrivava con calma, un pò fredda, un pò calda, andava conosciuta, regolata.
Prese un accappatoio di spugna nuova. Era morbido, non asciugava. Era bianco intonato. Si strusciò bene per cercare di asciugarsi e lo sporcò con i residui di calcina che non era riuscito a lavare via.
Non asciugava ma era intonato.
Prima di andare nella casa nuova, sua moglie aveva buttato in grandi sacchi neri, tutta la biancheria vecchia e volentieri, soprattutto il vecchio accappatoio viola fiorentina che asciugava tanto bene. L’aveva vinto a carte al suo vicino di casa tifoso, era stata una bella sera da ubriachi.
Camminando scalzo gocciolò fino in cucina, si versò un pò di prosecco macchiandolo con il Campari. Il bicchiere era ovale. Quando bevevi ti cadeva sempre qualche goccia dai lati. Come ai vecchi.
Un bicchiere che andava capito.
Lo alzò e brindò alla sua immagine distorta nell’acciaio del frigorifero.
– Salute a te mio caro. Ti vedo stanco. Come è andata al lavoro? – Al solito cara, abbiamo gettato un tetto tutto il giorno e c’era vento. Ma è giornata passata. Niente mi ripaga di più che tornare in questa casa moderna, con voi vestiti alla moda, informati dal Grande Fratello, con la tavola apparecchiata, l’arrosto che cuoce nel forno ventilato autospegnente, con i tortelli che occhieggiano aggallati nell’acqua del pentolone nuovo autoscolante. Niente mi ripaga. Stai attenta che non scuociano… i tortelli.
Così disse al frigorifero che fermò il motore con un borbottio.
Bevve e sbrodolò l’accappatoio intonato con il liquido rosso.
Si sdraiò sul divano di pelle bianca. Erano le sette e mezzo, della sua famiglia nessuna notizia. Mangiò un pò di patatine, sapevano di muffa. Le briciole unte caddero sul divano. Ci mise una gamba pelosa sopra. Accese un sigaro e soffiò in alto il fumo, come un sospiro. Guardò il lampadario di vetro di murano colorato, 1250 euro di lampadario… ma fa tanto ambiente. Strinse gli occhi e la luce sembrò sprizzare in strisce.
Perchè si era fatto convincere? Lui voleva vivere nella casa colonica in mezzo ai campi. Da sempre qualcuno della sua famiglia aveva vissuto lì.
Aveva fame. Erano le otto. Nessuna notizia. Un flash lo illuminò, ricordò le parole di sua moglie. La sera prima avevano cenato al ristorante.
– Ricorda – gli aveva detto mentre mangiava melanzane ipocaloriche – che domani non c’è nessuno in casa quando arrivi. I ragazzi sono alla festa di Giulia e io vado a yoga poi alla cena della palestra.
E’ vero!
Da quando erano diventati ricchi, tutti erano impegnati. Palestra, sauna, piscina. Ogni tanto un fine settimana ad una Beauty Farm. Sua moglie e i suoi figli si erano montati la testa. da quando era diventato imprenditore e i soldi non mancavano, suo figlio giocava anche a poker.
Parassiti.
Ebbe un rigurgito acido di patatine. Aveva fame e nausea.
Tornò in cucina. Aprì il frigo. Un magazzino di yougurt. Trovò una pannocchia di mais, sua figlia doveva averla arrostita e lasciata lì. Prese uno yougurt 0,1% di grassi, lo colò sopra il mais e tornò sul divano. Mangiò anche un pò di torsolo della pannocchia come fanno gli animali. Si ricordò di quando era piccolo nella casa colonica. Sua nonna preparava il pastone per le galline. Un grande secchio di semola e patate lesse, le patate erano quelle piccole, gli scarti. A volte l’odore era così invitante che rubava una patata dal secchio delle galline. Se ci pensava bene, ancora sentiva quell’odore. Bevve un altro pò di spumante. Guardò i muri lisci della casa nuova. Non avevano macchie di umido da leggere, o buchi di ragno da spiare. Non c’erano rubinetti che gocciavano o porte cigolanti. Non c’erano spifferi e il caldo era ben distribuito come da progetto dell’ingegnere.
Tolse l’accappatoio e rimase nudo. Le chiappe si incollarono alla pelle del divano. Anche la schiena, era un contatto viscido. Pensò alla sedia a dondolo della casa vecchia. L’aveva regalata al vicino, quello dell’accappatoio viola. Pensò a sua madre quando faceva i biscotti e in casa c’era sempre qualcuno che si prendeva cura di qualcun altro.
Chi erano questi che vivevano con lui?
Di chi si preoccupavano?
Perchè si era lasciato convincere?
Lo sfinimento lo aveva convinto.
– Questa casa è troppo umida guarda le macchie nel muro, è impresentabile. Papi, se abitassimo in centro potrei vedere sempre gli amici, sarei indipendente, non dovreste accompagnarmi. I ragazzi sono troppo distanti da scuola, devono alzarsi troppo presto. Questo bagno va rifatto, mi piacerebbe l’idromassaggio, ce l’hanno tutti. Guarda questi alberi davanti, troppa ombra, troppe bestie, troppe foglie…
Troppo di tutto o di niente, ogni giorno tutti i giorni quando era stanco che tornava dal lavoro. Lo avevano convinto come convince a chiamare l’idraulico un rubinetto che gocciola quando vuoi dormire.
Nessuno per esempio, che apprezzasse i segni delle stagioni che cambiano. Il vero trascorrere del tempo, le sere buie davvero in inverno senza i bagliori della città. Le sere profumate d’estate. Gli animali e le loro voci. Nessuno. Ma soprattutto nessuno che desse significato a tutte quelle cose che da sempre gli appartenevano. Il forno a legna, il pozzo, la fontana con il braccio per pompare l’acqua. Nessuno che si domandasse se lui era contento.
Nudo prese il telecomando e accese la prepotente Tv 40 pollici HD. Pigiò i pulsanti uno dietro l’altro senza dare tempo alle immagini di fissarsi. Trovò un canale di rotonde donne nude. Con un dito arrotolava i peli del pube come alcuni fanno ai capelli. Si accarezzò un pò. Aveva mani ruvide, grattavano la pelle. Guardava le donne nude e si accarezzava. Le sue non erano carezze dolci come fanno le mani delle donne, ma lo facevano rabbrividire di piacere. Le donne si baciavano e lui baciava le sue braccia pelose, a tratti tirava fuori la lingua e si meravigliava del contatto con i robusti peli. Non arrivava bene fin dove avrebbe voluto, ma provava un piacere nuovo. Chiudendo gli occhi, lasciò le donne nude dello schermo.
Continuò a passarsi le mani sulle cosce, sul petto, sulle spalle, a lisciare il collo fin sotto le orecchie e dentro anche. Incrociò le dita delle mani e le strinse allungando le braccia verso l’alto, le lasciò scivolare sui fianchi. Poi si impegnò a fondo con un movimento ritmico che solo lui poteva dosare nel migliore dei modi, si impegnò molto e alla fine fu felice.
Erano le 22 e 07 di quel mercoledì di gennaio quando mise i vestiti in una borsa e andò a dormire alla pensione Marianna.
Pensione senza stelle ma vicina al cantiere dove lavorava.
Efficace nel raccontare il distacco fra quest’uomo (Beppe) e il mondo che lo circonda, in primis la propria famiglia. Un “classico” caso di alienazione dell’uomo moderno verso la modernità! L’uomo allora si rifugia in se stesso, e si basta pure sessualmente…Gli rimane solo questo, e il proprio lavoro, le uniche cose che non l’hanno tradito. Bello e molto ben scritto, brava! Andrea Ercolini