Premio Racconti nella Rete 2013 “La Vista” di Fabio Massimo Pellicano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Anche quel giorno mi ero alzato, come tutte le mattine tra la solita fretta
e movimenti cadenzati ed in fondo sempre uguali.
Però, qualcosa era diverso: sporgendomi dalla finestra non avevo visto nulla.
Forse anche le mattina prima era stato lo stesso, ma, probabilmente, non avevo avuto il tempo per pensarci.
Tutto intorno era scolorito e uniforme, assorbito in una nebbia densa e priva di significato, le mie strade e la mia casa non c’erano più.
Passarono alcune ore, e anche la mia stanza era sparita, non somigliava più a se stessa, non riconoscevo nulla che mi circondasse. Ad un tratto, una voce chiamò il mio nome.
Non ricordo, ero confuso, al di là di ogni precisa cognizione, conservo però, la distinta sensazione, il fremito quasi, che provai al suono di quelle lettere, l’una dopo l’altra, pronunciate con concitazione mista a strana autorevolezza. “No non conosco questo timbro, no no…” ripetevo, scuotendo la testa e rincorrendo con gli occhi gli angoli più esterni della mia visuale; tutto appariva indistinto.
In quel preciso istante non riconobbi la voce, su questo sono certo, poi passarono pochi attimi e, subito, dinnanzi a me apparve un uomo minuto, calvo, l’esatto contrario di come l’avevo pensato. “Avv. Retina, buongiorno, vedo che si è alzato, E ha addirittura aperto gli scuri, bene, bene”, continuando con lo stesso fare impettito, tendente allo sbrigativo.
Passarono due, o forse tre minuti, prima che riuscissi ad elaborare un pensiero.
Stropicciatomi l’occhio sinistro, con un singulto fermo, domandai: “Perché sono qui?”.
Il medico, sbuffando, sommessamente, borbottò: “Caro avvocato, è da ieri che accusa sintomi di straniamento, ripetendo di non riconoscere più la piazza dove vive, non si vuole convincere che lì fuori è tutto bianco, e basta! Tutto assomiglia a se stesso, è uno sfondo, una muta scenografia, non si deve preoccupare. E poi, e poi, non c’è tempo. E’ tardi!”.
Alla parola piazza, rimasi muto. Ma certo pensai, la piazza, la fontana, la cuspide dell’obelisco, immagini consuete, quotidiane, tanto da appiattirsi nella mia testa, fino a scomparire.
Credo di non aver proferito alcuna parola, ero i miei pensieri.
Poi un tonfo, improvviso, sconvolse quell’atmosfera sospesa ed irreale. Entrò un giovane, robusto e dondolante, semplice nei modi, occhi sinceri e mani grandi. “Dottò, buongiorno! Avvocà come annàmo? Vède ancora tutto bianco?”. Doveva essere, immaginai, l’addetto alle pulizie della stanza.
Pensai, allora, che anche lui fosse al corrente, non eravamo solo io ed il medico a condividere lo stesso identico vuoto. “Non sono ammalato”, mi ripetevo. Così rinvigorito, chiesi: “Dimmi, cosa vedi sporgendoti da questa finestra?’”.
Occhi grandi, tondi, corsero lì, davanti al davanzale: il ragazzo si voltò di scatto e con tono rassicurante esclamò: “Avvocà e che tè vèdo, ‘a piazzètta cò li règazzini che sé schizzano alla fontana”; aggiungendo con vigore: “Oggi è er venti, mé sbàjo, o non comincia ‘a primavera?”.
Il medico china il capo, sospirando che la nuova stagione inizia il ventuno!
Silenzio, io ed il medico, in piedi, l’uno di fronte all’altro, e fuori la bellezza, pura e vera.