Premio Racconti nella Rete 2013 “Vita, prepotente vita” di Valeria Emmi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Il giardino di arance si trovava sulla collina di fronte il paese.
Amava quel luogo soprattutto nei chiari pomeriggi di maggio. L’odore di zagara talmente denso che te lo portavi dentro per tutto il resto dell’anno, il suono rarefatto delle campane della chiesa madre nel cuore antico del paese, il vulcano in lontananza che in cima difendeva ancora la neve invernale e, con indolenti sbuffi di fumo, altezzosa faceva mostra della sua possenza. Quando il cielo era terso, poi, si riusciva ad intravvedere anche il mare, il mare, come desiderava il mare.
Lunghi capelli nero corvino e grandi e profondi occhi blu, guardava e continuava a perdersi in un mondo, mondo sognato da una ragazza in un tempo ormai lontano, troppo lontano. Com’era semplice la vita allora, sognava e pensava che tutto sarebbe andato come avrebbe voluto, “diventerai pianista” si diceva, “grande concertista famosa e stimata in tutto il mondo”. E soprattutto nel mondo al di là di quel mare che lei soltanto intravvedeva, ma che allora pervadeva tutto il suo mondo di sogni da ragazza. Non era istruita, non sapeva cosa realmente ci fosse oltre quel mare e nemmeno quale fosse il nome di quel mare. Lei, semplice ragazza di paese, lo chiamava oceano e lo vedeva solcato dalle grandi navi che avevano portato i suoi genitori a fare fortuna. Lo vedeva solcato dalla nave che aveva riportato i suoi genitori nell’isola dove erano nati ed aveva riportato anche lei, piccolo scricciolo allora. Lo vedeva solcato dalla nave sui cui presto sarebbe salita per tornare li dove lei era nata, in quel grande continente chiamato America, e li, si, sarebbe stata libera, libera di realizzare i suoi sogni, “si presto partirò e diventerò la famosa e stimata concertista, la migliore pianista siciliana d’america”. Ma quel mare era li fermo e nessuna grande nave lo solcava e nessuna mano le veniva tesa.
In quei lontani, sognanti pomeriggi di ragazza, teneva stretto a se il ricordo del suo pianista soldato. “Quanto eri bello anima mia, con quella tua divisa e quella tua espressione scanzonata, non capivo bene cosa dicevi, ma la tua musica, quella si la capivo, la respiravo, la vivevo. Ricordo quando entrasti la prima volta nel salone di casa mia, “plise?” non si capiva cosa dicevi, ma lo stesso tutti capimmo che chiedevi di suonare il mio pianoforte. Avevi la divisa del vincitore nella Sicilia del 1943 e quindi “sa ‘bbinirica, s’assittassi e sunassi chiddu ca voli” disse mio padre. Non penso capisti, ma il gesto di mio padre fu eloquente e teatrale e quindi con sorriso di bimbo ti sedesti, quasi precipitasti, al pianoforte e noi li tutto ad aspettare. Mio pianista soldato, li hai resi vivi quei tasti d’avorio, hai riacceso la vita in tutti noi, in quegli attimi tutto l’orrore, le privazioni, gli scanti, sono volati via, magicamente non c’era più quell’oscuro terrore, tutto era luce, tutto era lieve, tutto era vita e onda possente come quella che ti aveva portato sulla nostra isola. Ricordo che fuori, nella piazza del paese tutti si fermarono e respirando la vita si fecero trasportare ciascuno nel proprio mondo libero. Ricordo che piansi per lo sprazzo di vita che ci donasti, vita, prepotente vita, che ti urla di essere vissuta nonostante tutto. Ricordo che anche tu piangesti, non so perché, forse perché anche tu volevi riappropriarti della vita, volevi in quei momenti offuscare un dolore, annebbiare un ricordo, non sono sicura, ma pensai quello. Quando finisti, “tenchiu…tenchiu”, guardasti tutti e poi me, occhi ladri i tuoi, occhi da pirata, occhi che ti portano via per sempre in un mondo diverso e lontano dal tuo. Mio pianista soldato, tornasti molte altre volte e la voce si sparse nel paese “cuttigghiaru” e sempre più paesani si accalcarono sotto il nostro balcone per riappropiarsi ciascuno di un pezzo della propria vita in quei pomeriggi del 1943.”
Ma il soldato era giovane e bello, con occhi da bimbo sognante e ricci scuri da pirata, e quando suonava, matri quannu sonava, era energia primordiale che ti entrava dentro e non potevi far altro che lasciarti trasportare in un altro mondo, in un altro tempo. Ma il soldato era giovane e bello, ma la figlia era giovane e bella ed in età da marito, ma il padre era siciliano d’onore e così un pomeriggio nessuno rispose al bussare del pianista soldato e nemmeno il pomeriggio successivo e l’altro ancora. Nessuno rispose ed il paese tornò a vivere la sua vita oppressa dallo scanto del 1943. Poi nessuno bussò più alla porta e la guerra finì e lei, giovane ragazza che sognava l’america ed il suo pianista soldato ed il suo futuro da concertista famosa e stimata, fu sposata con un giovane giornalista, ottimo partito e “’bbona robba in doti, macari u diploma avi…”.
Gli anni passarono e lei cominciò a non sognare più, “chi sensu c’avi? Tuttu finiu, i sogni sunu camurrie, fissarie, ‘chi ni vali? Nenti”.
Ma in quei pomeriggi di Maggio, quando con la cinquecento da poco comprata, andavano su quella collina, e lei vedeva, intravvedeva o anche solo percepiva il mare, la vita tornava a pulsare, prepotente vita, e tutto si trasformava in musica, nella musica del suo pianista soldato e lei tornava a perdersi in quei sogni lontani di ragazza inconsapevole.
Ora in quel letto di ospedale, in quella città estranea, dopo tutti quegli anni e i capelli ormai corti e bianchi e gli occhi ormai piccoli, occhi non più blu, occhi spenti , come spento era ormai il desiderio di quella nave, ora in quel letto di ospedale quando sentì che anche la vita si stava spegnendo, ricordò quei pomeriggi di Maggio, ricordò il suo pianista soldato , ricordò la scheggia di vita vera e profonda che aveva vissuto con quelle note. Ricordò quegli occhi e la felicità di quei brevi momenti, e nonostante tutte le amarezze, tutti i sogni infranti, tutte le architetture inutili che aveva dovuto costruirsi intorno, cominciò a piangere. Ma non era un pianto di rabbia, non era un pianto pieno di amarezza per ciò che aveva sognato e mai avuto, era un pianto antico lo stesso pianto di quel pomeriggio del 1943, pianto per la vita, prepotente vita, che ti urla di essere vissuta nonostante tutto e a cui lei anche se per brevi momenti aveva partecipato.
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Alla mia nonnina e a tutti coloro che non sognano più o non hanno mai sognato.