Premio Racconti nella Rete 2013 “Il caffè, il maiale e la bambina” di Natalya Ponomarenco
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013( abbozzo di uno sfogo )
Sono contento che sia andata a finire così com’è, perché in fondo in fondo, sono un conformista. Dal giorno della mia nascita fino ad oggi non ho fatto altro che seguire tutte le tappe sociali concernenti un cittadino-modello: il battesimo, la prima comunione, la scuola materna, elementare, media, il liceo e l’attestato di operaio specializzato. Insomma, tutto fatto da un bambino-ragazzo-uomo direi mediocre, senza infamia e senza lode, come da migliaia e migliaia di altri come me, insetti-lavoratori che sostengono e spingono avanti il complesso meccanismo dell’economia del paese. Per questo motivo neanche mi presento, tanto lo stato si ricorda di me solo nel momento in cui devo tirare fuori la scheda elettorale. E allora sì, che si rianima il signor Rossi! Ops, ho detto, come mi chiamo. Non importa, va bene lo stesso, di signori Rossi l’Italia è piena.
Dunque, ora vi racconto tutto, come se mi confessassi. Ho preso la decisione di fare una cosa un po’ strana per me o piuttosto inusuale per il mio comportamento conformistico. Che cosa mi ha portato a farla? La risposta è semplice: la crisi. Questa benedetta crisi, di cui non se ne può più. La radio, la televisione, i giornali, l’Internet tutto il mondo ne parla e dà dei consigli su come superarla. Il telegiornale ci insegna come cucinare le bucce di patate e di melanzane per evitare gli sprechi ( figuriamoci, se sono questi gli sprechi ). L’altro programma, dove si chiacchera parecchio e non si conclude mai niente, ci suggerisce certi marchingegni per diminuire le bollette della luce e del gas, l’altro ancora come vestirsi bene spendendo poco. Ma ditemi voi, quando mai nei momenti più drastici della vita, il pensiero dell’uomo fu quello del vestiario? Consigli, consigli, consigli, da tutte le parti, siamo subissati dai consigli e dai suggerimenti. Ma chi l’ha fatta questa crisi, chi l’ha fatta? Io? La classe operaia? I dipendenti statali con stipendio fisso e tasse pagate per loro e per altri? Qualcuno mi risponde? BASTA! Ora basta! Un bel giorno non sapevo più cosa fare, dove andare. Ero completamente al verde e tutto stava andando a rotoli. L’azienda, dove lavoravo era fallita. Il titolare gli ultimi stipendi li pagava con i propri risparmi. Poi, quando non ce l’ha fatta più, si è impiccato, soffocato dai debiti e prestiti mai concessi. ” L’ennesima vittima della piccola imprenditoria italiana”, così fu definito in un trafiletto sul giornale locale. Invece era un imprenditore onesto, una persona buona, insomma, un conformista come me, senza infamia e senza lode. Soltanto per saperlo c’e voluto il suo suicidio. Così mi sono ritrovato disperato, esaurito, sfinito e senza lavoro, mentre le bollette continuavano ad arrivare, infischiandosene della crisi, e l’unica mia fortuna in tutta questa vicenda è di non aver avuto famiglia. Allora ho deciso io di abbattere questa crisi. Come? “Prestandomi” un po’ di denaro in un bar con la pistola, non una pistola vera, ma un giocattolo, uno scacciacani, promettendomi di restituirli appena mi fosse stato possibile, poiché in fondo sono una persona perbene, un conformista, senza infamia e senza lode.
Non si può mai sapere come possono volgere gli eventi. L’imprevedibilità mi ha colto sotto la forma di una banalissima tazzina di caffè, la quale mi ha cambiato la vita. Sì! A qualcuno un libro letto, a qualcuno la nascita di un figlio, a qualcuno una vincita a un quiz, a qualcuno un’eredita inaspettata, a me una tazza di caffè. A dire il vero per me il caffè è la cosa a cui non rinuncerò mai, caschi il mondo con tutti i suoi malanni! Per noi italiani è un rito magico che si compie ogni mattino. Toglierlo equivale a toglierci la pizza, il calcio, la canzone. Non saremmo più noi senza il nostro lungo, ristretto, macchiato, corretto caffè. Il mio “nero come la notte e forte come la maledizione” me lo prendo tuttte le mattine.
Per quel “caffè-affare” ho scelto il bar dalla parte opposta della città, lontano dal mio quartiere. Fare una rapina al bar sotto casa mia, dove mi conoscevano tutti da quasi trentacinque anni, capirete, non potevo. Ho deciso di andare a piedi. Erano i primi giorni di marzo e la città si svegliava dopo un lungo inverno. L’aria era ancora fredda, ma si sentiva già il primo alito di primavera, l’alito di una nuova vita. I ghiaccioli di neve pendenti dai tetti delle case si scioglievano ai primi raggi, più caldi e più generosi, del sole. I bambini, ignari del pericolo, si mettevano sotto i tetti e si divertivano, cercando con la bocca aperta di catturarne le gocce cadenti. Vedendoli in quell’istante capii che la mia vita era simile a un ghiacciolo di neve. Non era fatta di cose sicure e solide e alla prime avversità si sarebbe dissolta come la neve sotto il calore.
Il bar prescelto da me aveva il nome poetico “L’infinito”. La scena, che dovevo compiere, l’avevo girata mille volte nella mia testa: entro, saluto, mi avvicino al bancone, facendo finta di scegliere la prima colazione, dopo passo alla cassa e contemporaneamente estraggo il mio scacciacani e dico ciò che voglio. Tutto sarebbe andato liscio, però, come ho detto prima, non si sa mai cosa troverai e cosa succederà.
Non appena varcai la soglia percepii l’atmosfera tranquilla e indolente di un bar di periferia. Forse questa dolce pigrizia che aleggiava nell’aria mi fece cambiare la sceneggiatura della mia rapina. Prima di agire decisi di prendere un caffè, il quale risultò alla fine la mia salvezza. Mentre lo stavo sorseggiando, la porta si aprì ed entrarono tre ragazzini di circa undici-dodici anni. Da poco era finito il carnevale, tuttavia i suoi segni erano presenti per le vie: coriandoli e stelle filanti sparsi di qua e di là e anche i ragazzini erano travestiti in costumi carnascialeschi. Il maschio più alto del gruppo aveva il vestito da lupo e gli altri due, una feminuccia e un maschietto, indossavano una tuta di pelo soffice color rosa, di porcellino. Ne mancava uno della fiaba. Pensai a me stesso, paragonandomi a loro, in quanto stavo per compiere un atto di un vero porco. Considerando l’imprevista presenza dei bambini, decisi di non agire, aspettando che se ne andassero e intanto cominciai ad osservarli. Dapprima il lupo e i due porcellini si misero davanti al banco dei dolci, indicandoli con le dita, sporcando il vetro ed elencando ad alta voce i loro preferiti. In seguito, si spostarono verso la vetrina dei gelati, rimanendo a lungo estasiati dai diversi gusti. Sembrava che stessero decidendo quale gelato comperare, quando la porcellina si stacccò dal gruppetto e pian piano a passo incerto si avvicinò allo stand delle caramelle e delle gomme da masticare. Alla fine allungò la sua “zampetta” in direzione del ripiano più vicino a lei e con un gesto spiccio se le prese e le infilò nella segreta tasca di morbido pelo. Guarda caso, la piccola ladra si è servita della “ladra”. Poi tornò dai suoi compagni. Il proprietaro non si accorse di niente, perché teneva sott’occhio gli altri due ragazzi. Nessuno la vide all’infuori di me. Di gente ce n’era poca: una coppia di innamorati che tubavano al tavolino, una signora dall’aria annoiata che era troppo concentrata a sfogliare una rivista e un suo accompagnatore quasi assopito sopra il cappucino ancora intatto.
Se non avessi deciso di prendere prima il mio caffè, chissà come sarebbe andata? La mia tazza di caffè mi aveva salvato non dico la vita, ma una cosa altrettanto importante per un uomo: la dignità. Non mi aveva permesso di diventare un maiale.
Mi è bastato poco. Quel gesto fatto dalla bambina provocò in me un forte disgusto, che non immaginavo di avere. Assistere a un furto, anche così piccolo, dal vivo è diverso dal seguire la stessa scena in un film. Lì per lì ero letteralmente paralizzato e ammutolito. Avvertivo soltanto la nausea che saliva dal profondo del mio stomaco verso la gola. Stavo guardando il braccio della bambina con il fiato sospeso e combattuto se denunciarla o meno. Mi veniva di richiamarla: “Cosa stai facendo?” Alla fine non disse nulla, non avevo coraggio. La ruberia è stata compiuta ed io ne ero testimone e complice silenzioso.
Cosa mai può essere una gomma da masticare in confronto con quello che stavi per compiere tu? Direte voi. E avete ragione da una parte e dall’altra no. Anche se la bambina ha rubato poco e l’ha fatto, probabilmente, per il solo piacere di rubare, non può esssere giustificata. Io avevo necessità di quel denaro, ma ciò non mi scagiona. E qui ho capito: la bambina non è meglio di me ed io non sono peggio di lei. Siamo sulla stessa bilancia, a pari peso, perché la dignità di un essere umano è una sola, non pesa di più o di meno. Non si può trasformare il suo valore in cifre o in grammi.
Mi rimaneva l’ultima goccia di caffè, la bevvi e uscii. Non mi arrischiai di improvvisare il ladro- dilettante. Ne sono fiero! In qualche modo vivrò, non so ancora come, ma ce la farò. Va bene la crisi economica, ma la crisi della dignità umana no! Di fronte c’era il tabacchino, entrai, presi la “Smorfia” e guardai “il caffè”, “il maiale”, “la bambina”, ringraziandoli tutti e tre, tra me e me. Sono il 42, il 4 e il 2. Fra poco sarà il primo maggio, la festa dei lavoratori, giocherò i miei numeri. Chissà se vincerò? Se così sarà, festeggerò! Come? Con la mia immancabile tazzina di caffè, senza infamia e senza lode.
Alla vostra salute! Il sig.re Rossi
( rimasto l’uomo e non … )
Molto attuale questo tuo racconto che, per tema, esce fuori dal coro. Mi è piaciuto perché rispecchia la tragicità di questi anni di crisi, che purtroppo ci ruba spesso anche la dignità. Non tutti hanno la forza , ahimè, di tenersela stretta, soprattutto se si ha una famiglia da mantenere. Due appunti: è poco credibile che dei ragazzini in maschera se ne vadano di prima mattina in giro. Secondo: se dovessi mai rapinare un esercente, andrei a fine giornata, per un incasso più sostanzioso. O no?