Premio Racconti per Corti 2013 “Ilaria Nostra” di Nikki Simonetti
Categoria: Premio Racconti per Corti 2013
Ilaria Nostra (i)
Scena 1
31 Ottobre, Lucca – Esterno giorno; Interno giorno.
La giornata volge alla fine, le ombre calano sulla cittadina tinteggiando le antiche mura di una bruma color azzurro rosato.
Un turbinio di diavoli e streghe si rincorrono vocianti, i mantelli che svolazzano dietro agli angoli della Chiesa. Il più alto, un vampiro di un metro e venti scarsi, trotterella verso il prete che studia la scena, quieto, gli angoli delle labbra sollevati, le braccia incrociate. “Dolcetto o scherzetto, padre?”
Padre Giacomo, parroco della Cattedrale di San Martino, tuffa le mani nella tasca della tonaca.
Ne trae una manciata di cioccolatini che lascia capitombolare nella cesta. Sorride. E’ giovane, padre Giacomo, giovanissimo: trentacinque anni, dieci di sacerdozio. La festa pagana di Halloween mette allegria anche a lui – anche se non smania certo di correre a raccontare questo fatto al suo confessore. “Adesso filate a casa, piccoli senza Dio, che è quasi ora di cena”, brontola.
Ha celebrato l’ultima Santa Messa da poco più di un’ora. Rientrando in parrocchia, approfitta per gonfiarsi i polmoni dell’incenso che satura l’aria. “Purifica la mia mente, Padre, e il mio povero corpo”, mormora, mentre si appresta a spegnere i ceri che adornano l’altare, inginocchiandosi tra un’operazione e l’altra.
La vede con la coda dell’occhio.
Non è un’immagine, ma una screziatura scura, informe, che si staglia sul candore del transetto. La giovane è inginocchiata sullo scranno a fianco del sarcofago. (ii)
E’ assorta, distante, persa in un mondo che appartiene solo a lei, il capo reclinato in avanti, le mani giunte a coppa davanti alle labbra.
Padre Giacomo sfiora con lo sguardo il delicato profilo celato dal capello e da una pesante sciarpa di lana. Non è ancora freddo; anzi, fa ancora un gran caldo, per questi tempi. “Ci risiamo”, mormora, segnandosi la fronte e il petto prima di alzarsi. “Ilaria. Cosa ci fa, qui, a quest’ora?”
Una voce di donna esplode alle sue spalle, facendolo sobbalzare. “Oicchéparla a Ilaria Nostra? Oicchémmicombina, Padre?…”
Padre Giacomo dimentica spesso dell’andatura di Maria Assunta, come scivolare sul ghiaccio, che non produce alcun suono. Inquietante.
Il tono della perpetua suona allarmato, il che lo fa sorridere.
“Tranquilla, Assunta”, dice, dimenando lievemente il capo.
Non era uscito di senno. Non ancora. “Non sto parlando con Ilaria Nostra, ma con quell’altra signora; lì, la vede?”
Indica la giovane immersa nella penombra del transetto.
“Anche lei si chiama Ilaria; ogni tanto viene a cercare conforto in quest’altra, Ilaria Nostra”.
Padre Giacomo volge le spalle alla perpetua che aggrotta le ciglia, perplessa, e si avvicina alla giovane raccolta in preghiera davanti al sarcofago di Ilaria del Carretto in Guinigi, amatissima Signora di Lucca (ii).
Quest’altra Ilaria – questa qui, dei giorninostri – solleva gli occhi. Grandi. Un acquerello nelle varie tonalità del verde, carminio e blu.
Arrossati dal pianto, e gonfi per le botte.
“Oh, no. Non di nuovo, Ilaria”.
Nonostante lo sconforto, pronunciare il nome della giovane donna riempie la gola e i polsi di Padre Giacomo di un tremito sconosciuto.
Da mesi rivolge preghiere quotidiane al Signore per il pentimento dell’uomo- il marito di Ilaria, questa – che la riduce in quel modo.
“Non hanno ascoltato le sue preghiere, Padre”.
Ilaria abbassa la sciarpa e toglie il cappello.
Padre Giacomo porta le mani alle labbra per soffocare un gemito.
L’angolo delle labbra in luogo dello zigomo, il sopracciglio che cala sul naso, si direbbe che un pittore distratto abbia affrescato i tratti botticelliani della giovane buttandoli sul volto qua e là, come gli capitava.
Padre Giacomo si lascia andare a terra, in ginocchio, tra l’Ilaria di ieri e quella di oggi. “Vorrei…”, incomincia.
Ma poi esita, si ferma.
Lo sa bene quello che vorrebbe, tante cose belle, molte altre brutte cui non dovrebbe neanche pensare, perché nessuna di queste può. E’ un prete.
Ilaria di oggi gli pone due dita sulle labbra.
E’ un tocco lieve, che pure lo fa fremere. Padre Giacomo vorrebbe – questo può, che non è certo peccato – dire il fatto suo a quest’orribile marito di quest’Ilaria, e non è detto che prima o dopo non lo farà.
Almeno questo, tonaca o meno.
“Sono fuggita, Padre. L’ho lasciato. Questa volta mi avrebbe ammazzata”.
Ilaria tira su col naso. “Sono incinta”.
Il cuore di Padre Giacomo compie uno strano balzo. “Mio marito non lo vuole, questo bimbo. Dice che non è suo. E’ pazzo, pensa che porti in grembo il figlio di un altro. Ci avrebbe uccisi entrambi”.
Padre Giacomo prende la mano della giovane nelle sue.
Il suo cuore salta una seconda volta. Poi di nuovo.
Il prete che alberga ancora, nonostante tutte le insicurezze, da qualche parte dentro di lui esorterebbe quest’Ilaria battuta, Ilaria disperata, Ilaria che porta dentro di sé il miracolo della vita alla via della sopportazione a tutti i costi.
Fino al martirio.
“Vede quanto è strano, Padre. Portiamo lo stesso nome, io e Ilaria Nostra”. Posa il palmo, questa Ilaria-di-oggi, sul volto dell’altra, Ilaria-di-ieri, sfiorando la perfezione del marmo candido. “Condividiamo il medesimo destino, una gravidanza, un marito geloso. Forse pazzo”(iii)
Padre Giacomo scruta in fondo agli occhi verdi di quest’Ilaria vera, Ilaria intatta, Ilaria-quercia-che-sfida-le-tempeste e vi legge la promessa della vita che verrà.
E’ l’uomo che risponde, non il prete.
“Vieni”, dichiara. La sua voce non trema. “Stanotte dormirai nella cella per gli ospiti, in sacrestia. Domani ti cercheremo un posto dove andare”.
La giovane segue, docile, l’andatura
Scena 2
31 Ottobre, Basilica di San Martino, Lucca – Interno notte.
(rumore di passi che si allontanano, di porte che si chiudono).
Il sarcofago riposa nella pace del transetto di San Martino.
Si è fatto buio.
Improvvisamente, un fascio di luce abbacinante filtra dall’abside inondando l’altare, prima, e il transetto poi, rischiarando a giorno il volto della defunta Signora di Lucca – il diadema che trattene le morbide onde dei capelli, scivolando sul naso delicato, sul mento a punta; scende lungo la veste arricciata sotto il seno per fermarsi sui piedi. Piccoli, immobili, adagiati sullo sguardo adorante del piccolo mastino, fedele compagno di vita e del riposo eterno (iv).
Scena 3
1 Novembre, Lucca – Esterno notte.
E’ una notte stellata, immobile e quieta.
Non si sente un suono, fatta eccezione per il fruscio prodotto da un lungo mantello di seta cremisi che si aggira per le strade di Lucca.
La sagoma svolta all’angolo dietro la Basilica di San Martino.
Non se ne vedono i tratti del volto, e del corpo. Solo i piedi.
Bianchi. Minuscoli, da bambino.
Nudi, ma non abbandonati. Scortati da uno strano scalpiccio.
Nel silenzio perfetto, il suono di una risata leggera – argentina, poco più che infantile – sale verso l’alto, arrotolandosi in strane volute su se stessa. Si gonfia. Riecheggia nelle viuzze. Irreale.
Scena 4:
1 Novembre, Lucca – Interno giorno.
Padre Giacomo si sveglia risoluto e pieno di energie.
Spalanca le finestre della sua stanza, lascia entrare il profumo del mattino e infila la veste. Il rintocco delle campane lo fa sorridere.
“Ilaria è al sicuro”, mormora. Finalmente.
Lo squillo del campanello lo distoglie temporaneamente dai pensieri, e dai suoi doveri.
Il sorriso gli muore sulle labbra alla vista del Maresciallo Morelli del distretto di Porta a Lucca.
Morelli ha lo sguardo oscuro e il baffo accigliato delle brutte notizie, quelle che riempiono la Chiesa di corone di fiori e di una bara di lucido mogano. “Maresciallo. Buongiorno”, domandandosi se lo sarebbe stato per davvero.
Il baffo storto non si perde in convenevoli. “Ilaria Ravera, Padre. L’ha vista? Sappiamo che viene spesso in Chiesa”.
Padre Giacomo esita.
Il conflitto interiore gli si legge in volto, un attimo che precede la capitolazione. Mentire alle forze dell’ordine è troppo persino per l’uomo che affiora, impertinente e imperterrito, dentro il prete.
“Ilaria Ravera ha cercato conforto – rifugio – in Chiesa. Ieri pomeriggio”.
“Per caso, Padre, sa dove sta, in questo momento? Mi risparmierebbe un sacco di lavoro”.
“Per quale motivo la cerca, se è lecito?”
Il Maresciallo solleva un sopracciglio e liscia il baffo destro. Pensa.
“E’ per suo marito: è morto. Precipitato dal balcone dell’appartamento, stanotte, intorno alle due”.
Padre Giacomo sussulta, incassa il colpo. Giunge le mani. “Che Dio perdoni i suoi peccati”.
“Sì, quella roba lì”, borbotta il Maresciallo. “Comunque, i vicini hanno sentito un gran casi… – pardon, un gran fracasso. Sembra che marito e moglie abbiano avuto una brutta discussione, ieri. Lui la picchiava, pare”.
Padre Giacomo annuisce, il Maresciallo fa spallucce. “Solita routine: devo domandare alla signora Ravera dove si trovava, questa notte, intorno alle due”.
Il volto di Padre Giacomo si rischiara, allargandosi in un sorriso disarmante.
“A questa domanda posso rispondere io stesso. Mi segua”.
Padre Giacomo si dirige verso il fondo della sacrestia, fruga sotto la veste da cui trae un mazzo di chiavi.
Apre una porta, girando nella toppa – delicatamente, senza fare rumore.
“Ecco”, dice, indicando un fagotto di stracci buttato sul letto.
La celletta è in penombra; un leggero venticello gonfia la tenda di mussola inamidata incuneandosi attraverso la finestra socchiusa sull’inferriata medievale. “Ilaria Ravera”. La voce del prete è un bisbiglio. “Non la svegli. L’ho sentita piangere fino all’alba”, dice, prima di accostare dolcemente la porta alle sue spalle.
“Chiude sempre i suoi ospiti a chiave, Padre?”
“Quando sono loro a chiederlo, sì. Ho chiuso questa porta ieri sera alle dieci, la riapro adesso, assieme a lei. Ilaria aveva paura: non ha detto per quale motivo. Credo temesse di cedere alla tentazione di tornare a casa, da una parte. Dall’altra, che suo marito la trovasse. L’avrebbe uccisa, forse anche dentro queste sacre mura”.
“E invece hanno ucciso lui”, il Maresciallo liscia l’altro baffo. “E’ assolutamente certo, Padre, che non sia possibile uscire da quella stanza?”
Padre Giacomo scuote la testa con convinzione. “Macché; ha visto anche lei: le inferriate sono a prova d’intrusione”.
Morelli fruga nervosamente con le mani nella tasca dei pantaloni mentre spazzola il pavimento con la suola delle scarpe. “Accid… – scusi. Per la miseria. Non mi convince”.
Padre Giacomo si avvia verso l’uscita, passando per la navata. “Quell’uomo era un violento, maresciallo”, dice. “Un alcolizzato. Probabile che sia caduto di sotto in preda ai fumi dell’alcol”.
Morelli lo segue da vicino. “Escluso. Lei non ha visto il cadavere. Ne ho visti io, sa?… Ma di facce così non me ne ricordo – i capelli dritti, i bulbi fuori dalle orbite, la bocca stirata in una smorfia, un ghigno di terrore che non riesco a descrivere”.
Morelli appoggia la mano sulla spalla del prete, lo fa girare su se stesso. “Ci vorrà un po’ per i risultati dell’autopsia, ma secondo me quell’uomo è morto di spavento. Gli sono saltate le coronarie, ci scommetterei lo stipendio di un anno”.
Padre Giacomo punta uno sguardo interrogativo sul maresciallo.
“E poi aveva i jeans strappati, i segni dei morsi di un cane sul polpaccio. Non quadra: i vicini dicono che non hanno mai avuto un cane, quei due”.
Lo sguardo di Padre Giacomo si fa una pozza scura, immensa. Gli occhi corrono irrequieti lungo la navata, cercano il transetto, dove è sistemata l’opera di Jacopo della Quercia. “Non saprei”. La voce del prete è un balbettio indistinto.
“Era la notte più bizzarra dell’anno, questa appena passata. Ce n’erano, di tipi strani, in giro per la città”.
Il prete volta le spalle al Maresciallo, inizia ad accendere i ceri che adornano l’altare. “Chiedo scusa, devo preparare per la Santa Messa. Non tema, provvederò io stesso a informare la vedova”.
E’ un congedo, che il Maresciallo accetta di buon grado.
“D’accordo, Padre”. Morelli volta le spalle al parroco. Liscia i baffi, si gratta la testa. “L’ennesimo caso irrisolto. Chi ci fa caso: uno più, uno meno…”, borbotta, tuffandosi nella luce accecante del giorno.
Rimasto solo, Padre Giacomo vola lungo la navata fino a scivolare dentro al transetto. Posa la mano sul sarcofago.
“Ilaria Nostra”, sussurra, parlando a lei, questa volta, proprio all’Ilaria dei-giorni-che-non-sono più mentre scuote la testa.
“Non può essere. No-no-no-no”, ripete. “Non può proprio essere”.
E intanto ciabatta – non ha ancora infilato le scarpe – percorrendo in tondo il perimetro del monumento.
All’inizio gli sfugge. Poi lo vede.
Il cuore si ferma.
Allunga una mano, tenta di estrarre l’oggetto dalle fauci del mastino di marmo. Non ci riesce. Tira, tira.
Punta i piedi a terra e tira con tutta la forza di cui è capace, fino a che l’oggetto cede.
Nella sua mano, un riquadro di stoffa blu dalla forma irregolare.
Padre Giacomo indietreggia, incapace di distogliere lo sguardo dal brandello di jeans che stringe nella mano destra.
“Non è possibile. Nonèpossibile,nonèpossibile,nonèpossibile”, ripete, dirigendosi come un automa verso la porta della celletta.
Padre Giacomo entra.
In quell’istante, Ilaria – questa, dei giorni nostri – apre gli occhi, spalanca quegli laghi di montagna – occhi puri, occhi battuti dentro i quali è tanto facile perdersi.
Allora, una voce glielo dice nella mente: ci voleva l’Ilaria-Vostra-dei-tempi-che-non-sono-più per proteggere questa Ilaria-Vostra-di-oggi.
Non ci crede neanche lui a quello che ha appena pensato, in una voce che non era neanche la sua, poi, ma la voce di una donna – di una bambina, avrebbe detto.
Però è vero.
Padre Giacomo siede sul bordo del letto. Gli tremano le gambe.
Sospira, sfila il colletto bianco.
“Buongiorno”. La voce di Ilaria-di-oggi è acqua di fiume. Tersa. Leggera.
Non ci ha mai pensato, prima: è’ poco più che una bambina anche questa Ilaria qui, l’Ilaria-Nostra-di-oggi.
“Buongiorno”, risponde Padre Giacomo.
Prima che possa fermarle, le sue labbra si mettono in moto, animate di vita propria, declamando i versi dedicati all’Ilaria del tempo che non è più dal poeta Giovanni La Selva: “Il viso non la morte ti compose in quell’imperscrutabile dolcezza, ma un sonno lungo come quel che avvezza le fanciulle leggiadre a molli pose. La morte quel che tocca ahimè lo spezza, ma tu intatta sei e il tuo petto palpita sotto quelle bianche trine; dormi siccome dormon le bambine, soavemente sovra il bianco letto. La morte, sì, è un sonno senza fine, ma tu chissà che non ti desti come un’eco nella Chiesa solitaria al suono delle voci che nell’aria da secoli bisbigliano il tuo nome assai più lieve d’un sospiro: Ilaria.”
Ilaria-di-oggi sorride.
Padre Giacomo lascia che il suo cuore si riscaldi.
Una risata di bimba gli echeggia nella testa. Padre Giacomo guarda a destra, poi a sinistra. “Hai sentito anche tu?”, domanda.
Ilaria-di-oggi spalanca gli occhi, lo stupore le disegna una fossetta in mezzo alla fronte.”Chi? Che cosa?”, domanda, improvvisamente all’erta.
Padre Giacomo scuote la testa. “Non importa”, dice. “Niente. Nessuno”.
Sorride, guarda verso la sacrestia.
Nasconde il pezzo di jeans dentrola tasca.
FINE
NOTE DELL’AUTORE:
Legenda:
(i)’Ilaria Nostra’: sono le parole che la notissima scrittrice Liala attribuisce ai Lucchesi (Liala, ‘Soliloquio a Mezza Voce’), quando parlano con straordinario affetto della nobile quanto sfortunata concittadina e Signora, Ilaria del Carretto, la cui breve storia, tramandata dalla bellezza purissima del suo volto scolpito nel marmo, divenne leggenda.
(ii) il sarcofago è quello di Ilaria del Carretto, andata sposa al signore di Lucca.
A seguito della morte della prima moglie adolescente, Paolo Guinigi smaniava di contrarre un nuovo matrimonio per avere un erede. I potenti Visconti di Milano gli procurarono una sposa adeguata al suo rango, una giovane di circa venti anni, che si diceva molto bella e onorata, Ilaria del Carretto, nata a Zuccarello, un paesino ligure, nel 1379. Figlia del Marchese di Savona e Signore di Finale, Carlo del Carretto, appartenente ad un antico (x secolo), ricco e rispettato casato, Ilaria giunge a Lucca ventiquattrenne il 2 febbraio 1403 e incontra Paolo Guinigi, che ne ha 30, appena fuori delle mura della città di Lucca, a Ponte San Pietro.
Il giorno successivo, festa di San Biagio, il matrimonio tra i due si celebra nella chiesa di San Romano, alla presenza della migliore nobiltà, tra sfarzi di cui non si ricordava eguale. ?
Dal matrimonio, nove mesi dopo il ritorno dal viaggio di nozze, nasce Ladislao. Paolo ha finalmente un erede, ma vuole altri figli; Ilaria dà alla luce la piccola Ilaria Minor: sarà un parto fatale. Per cause incerte, Ilaria morirà qualche giorno più tardi, tra dolori strazianti, l’8 dicembre 1405, all’età di 26 anni.
La morte getta nella costernazione l’intera città, che aveva voluto bene alla giovane venuta da lontano.
Paolo Guinigi commissiona a Jacopo della Quercia, un giovane e promettente artista nato in un paesino nei pressi di Siena, un monumento funebre che perpetui la bellezza della giovane moglie.
L’opera, terminata intorno al 1408, stupisce immediatamente per la sua incomparabile bellezza. L’artista è riuscito a realizzare il sogno di Paolo, dunque; ma non sarà soltanto lui a poter contemplare, come se fosse ancora viva e semplicemente addormentata, la sua sposa.
Il sarcofago viene posto nella Cattedrale della città, dove tutti possano ammirarlo.
La purezza di quell’immagine è tanto grande che la fama dell’opera e della donna che in essa è immortalata corre per il mondo. Viaggiatori accorrono da ogni luogo per visitare il monumento funebre; grandi poeti si innamorano della donna in esso ritratta e dedicano alla giovane, sfortunata sposa le loro poesie.
Anche i comuni cittadini si sentono ispirati dalla bellezza di Ilaria e la celebrano nei loro versi.
Ilaria incanta tutti. Sino a qui, la storia.
Leggenda vuole che anni dopo, due giovani sposi, nel loro viaggio di nozze, decidano di sostare a Lucca e di recarsi in visita al Duomo della città.
Dal transetto meridionale, da qualche tempo Ilaria è stata trasferita nel transetto opposto, a sinistra dell’altare. Lo scorgono, accelerano il passo; trascurano le altre bellezze che arricchiscono la Cattedrale dell’antica e nobile città; passano davanti al Volto Santo, l’immagine sacra ai Lucchesi, senza accorgersene. Si trovano davanti a Ilaria.
Com’è bella! Davvero pare che dorma.
Nessuna traccia della sofferenza è rimasta sul volto. L’artista l’ha scolpita nel fulgore della sua serenità. L’abito pare guarnire una divinità sorpresa nel suo sonno.
Gli sposi si guardano negli occhi, conoscono la storia di quella giovane madre, essi desiderano un figlio al più presto, come lo desiderò Paolo Guinigi, temono che qualcosa possa accadere di funesto. Il giovane prende la mano della sposa e la pone sul volto di Ilaria. Non dicono niente, ma la loro preghiera è esplicita, anche nel silenzio.
Le chiedono di preservarli da quel dolore che ha privato Ilaria della vita; che quando arriverà il momento del parto, Ilaria vegli sulla donna e la protegga.
Non si sa come sia potuto accadere, ma quel gesto si è tramandato nel tempo.
Spontaneamente, tante giovani coppie, innumerevoli innamorati vengono a Lucca per toccare il volto di Ilaria, per accarezzarlo e per chiedere la sua protezione.
Un’altra credenza popolare racconta che se una ragazza visita il celebre sarcofago, Ilaria l’aiuti a trovare l’uomo giusto, quindi l’amore.
Si narra perfino che un giorno un visitatore, innamoratosi di Ilaria, si accingesse a tagliarle la testa per portarsela al suo paese. Sennonché, il cane che giace ai piedi di Ilaria si mise ad abbaiare così forte che, sopraggiunto il sagrestano, l’uomo si trovò costretto a fuggire, rinunciando al suo proposito sacrilego.
(iii) Si dice che Paolo Guinigi abbia pianto per anni la morte dell’adorata moglie.
Qualcuno sospetta, tuttavia, che, reso folle da un’insensata gelosia nei confronti dell’adorata moglie, sia stato proprio lui a causarne la morte, avvelenando la giovane e il suo fedele cagnolino.
Sono sospetti ignominiosi che Paolo farà fatica a dissipare.
(iv) Si dice che il mastino francese fosse il fedele compagno della vita di Ilaria del Carretto, e che per questo motivo sia stato immortalato dall’artista, i piedi di lei sulla schiena, il muso appena rivolto verso l’alto, nel gesto di rivolgere alla padrona l’ultimo sguardo di adorazione terrena, il primo della vita eterna.
Indubbiamente un ottimo racconto. Complimenti!
Andrea
molto bello . condotto benissimo. cali di tensione zero. grande. CEMF
Complimenti alla sua Opera e a Lei Signora Nikki!
E i complimenti non saranno esaustivi!
Grazie.Saluti. Emanuela
adoro questa scrittura……bello bello bello!!!
Andrea,
fa piacere sentirsi apprezzati da chi scrive – bene, molto – come te. Ringrazio, la stima è reciproca.
Nikki
Fairy (o Cav, come preferisci),
fa piacere risultare gradita anche quando non si dispensa perle di spirito (anche se, a ven vedere, il tema della violenza sulle donne tanto leggero non è).
Scherzi a parte, Cav, approfitto di questo per unirmi al coro di chi (non ricordo, forse Emanuela) ha giustamente evidenziato come, per uno che sia capace di guardare oltre – oltre i frizzi, i lazzi e gli orpelli dei tuoi commenti (per certi versi, anche delle tue storie: filtri, a mio parere 🙂 – tu sia uno che scrive cose che lasciano davvero il segno.
Non solo a livello letterario – anche se trovo alcuni tratti dei tuoi brani addirittura fantastici: letteratura, più che scrittura.
Parlo di epidermide, io. Di anima.
Tu entri dentro. Mettendo a nudo i tuoi personaggi riesci nell’intento di spogliare anche noi, che ti leggiamo.
Certo, è anche vero che o ti si ama o ti si odia.
Altrettanto certo che non sia possibile rimanere indifferenti davanti ai mondi di cui ci fai partecipi.
Come la penso io, su di te, credo sia chiaro.
Per chi non avesse capito, non faccio parte di quelli che ti odiano; al contrario, accresco la schiera dei tuoi ammiratori.
Grazie, Cav, per seguirmi con attenzione.
Nikki
Emanuela,
Oicchemmidaidellei?…
Acci, che onore – non è che il tuo sia un modo di prendere le distanze? 🙂
Scherzo, Emanuela. Grazie davvero (ma non mi dare del lei, davvero, che mi fai sentire ‘na cariatide, va’).
A presto ritrovarci,
Nikki
Caterina,
… che bello, che bello, che bello sentirti così entusiasta!…
Sai, questo di ‘Ilaria Nostra’ non è un racconto dalle grandi pretese.
Il tema della violenza sulle donne invece sì, è di quelli impegnativi, non sarebbe sufficiente un saggio a definirlo, figurarsi un ‘corto’.
Dovremo accontentarci.
C’erano questa storia di Ilaria del Carretto che colpisce tutti (ragazzina, anch’io ho subito il fascino della leggenda di Ilaria), le vicende della giovane e sfortunata signora di Lucca nel contesto della splendida Lucca e della sua Basilica, e un corto che avesse Lucca come ambientazione.
L’altra notte ho sognato Ilaria-del-tempo-che-fu, e allora è successo: è come se Lei stessa mi avesse suggerito questa vicenda che inizia nella storia e si tuffa nella leggenda finendo col pescare nel paranormale – una discussione su ciò che è ‘normale’ e ciò che non lo è sarebbe a tal proposito auspicabile (vero, Cav?…), ma richiederebbe forse più di un saggio, magari anche due.
So che sei estimatrice del genere, quindi i tuoi complimenti fanno doppiamente piacere.
Grazie per l’apprezzamento, e a presto,
Nikki
PS: Te l’ho già detto, che bel nome, che hai?… Sì, te l’ho già detto; repetita iuvant.
….Nikki cara onore mio….. e sulle distanze che ragione mai potrebbe esserci se non che tu sia così eccelsa?
Quindi con grande stima e simpatia un caro saluto e grazie!!!
Emanuela
e aggiungo….per tante donne che tolgono la maiuscola al nostro nome tante altre ne sanno disegnare una di altezza immensa..infinita!
GRAZIE NIKKI
Ohiohiohi, Emanuela…
non le voglio, le distanze!…
Cancellale, per favore, Abbasso Le Distanze 🙂
Grazie a te, piuttosto, per l’apprezzamento (specie nei confronti delle donne: condivido! 🙂
Nikki
Bello, davvero. Bella l’idea, le immagini, il tuo scrivere. Sei molto brava Nikki, leggo sempre molto volentieri quanto scrivi.
Silvia,
che bello ritrovare te, ancora a leggermi. Ti ringrazio per la pazienza (non ti ho ancora stufato?… 🙂 e soprattutto per la stima (mi ripeto, che barba, perché è vero), assolutamente reciproca. Ti aspetto ancora su queste pagine (o altrove fai tu, fammi sapere).
Ti abbraccio,
Nikki/che-oramai-si-sa-che-è-anche-Monica 🙂
Molto bello. Complimenti!
Grazie, Alessandra. Tanti soggetti davvero belli, quest’anno, non vorrei essere un giurato. 🙂
Auguri a tutti!!!
Nikki
Complimenti Nikki, il racconto è bello e ben congeniato, e, penso, sia pronto come sceneggiatura per il ‘Corto’.
Brava e Auguri. Ciao.
Emanuele.
Emanuele,
ringrazio per l’apprezzamento e per gli auguri, che reciproco.
Ci sono davvero tanti soggetti accattivanti, quest’anno; compito arduo per la giuria tecnica e per il regista. 🙂
A noi non resta che attendere, fiduciosi.
A presto,
Nikki
Beh, qui mi sembra di intravedere anche una certa esperienza. Mi spiego: ha i tempi giusti, le battute pungenti come si devono ad un corto. La trama è piacevole e avvincente e gioca sul detto tipico dei lucchesi. Molto brava, uno dei corti migliori.
Eccezionale Nikki, complimenti per la meraviglia che hai scritto.
Matteo, grazie.
Esperienza ‘per se’ non ce n’è, a dire il vero.
Studio, quello sì – qualche seminario di scrittura, un paio per sceneggiature: conta? 🙂
E poi, di certo, un bel po’ di annetti in più di quelli che avete voi, ‘giovini allo sbaraglio’ qui su ‘Racconti’.
Bravissimi, iperbolici – ho esaurito gli aggettivi.
A noi matusalemme, resta la soddisfazione dei vostri apprezzamenti.
Un caro saluto,
Nikki
Linda,
grazie davvero.
Il compito più arduo e assieme la massima aspirazione di uno scrittore è annullarsi, perdersi – dimenticare se stesso al fine di rendere fede e onore alla storia.
Quando – se – ci si riesce, fosse anche per una sola volta, allora – e solo allora, credo – si può dire che uno scrittore abbia raggiunto il proprio scopo.
Ecco perché i complimenti fanno oltremodo piacere.
Se hai gradito il corto, forse ti piacerà anche il lungo, ‘La Bimba Spezzata’ – qui, sezione racconti.
Ti aspetto,
un abbraccio,
Nikki
Sottile richiamo a ciò che della vita e della morte non riusciamo e non riusciremo mai a comprendere. Fatti narrati da un sogno reale, che non trova dove posarsi nel mondo della logica, eppure è vita, anche se sa di infinito oltre la stessa. Emozioni che solo il mistero riesce a donare.
Una sceneggiatura da realizzare in bianco e nero, i colori di una notte stellata, quando il perchè dell’esistenza non ti convince e aspetti la luce per rasserenarti.
Impressioni a commento di un percorso di pensiero di Nikki appena letto ed apprezzato. Brunello
Davvero bello!! L’atmosfera della notte è resa con grande abilità, l’ambientazione fa il resto. Sarebbe un corto davvero evocativo. La descrizione che più mi ha colpito è questa: “L’angolo delle labbra in luogo dello zigomo, il sopracciglio che cala sul naso, si direbbe che un pittore distratto abbia affrescato i tratti botticelliani della giovane buttandoli sul volto qua e là, come gli capitava”, non so, a parte la terribile immagine di un volto, di un volto di donna tanto bello, pestato con inaudita violenza, ci ho visto un quadro, magari un Botticelli cubista, o un Picasso botticelliano. Complimenti!!
Brunello,
che meraviglia il tuo commento.
Grazie – GRAZIEGRAZIEGRAZIE – dal profondo del cuore.
Una recensione come questa da uno scrittore della tua caratura fa ancor più piacere.
Hai colto tutti gli elementi che intendevo – ci sono riuscita, pare 🙂 – far arrivare: la compenetrazione tra sogno e realtà, logica e mistero, l’arcano della morte.
Ma anche della vita.
Una notte magica, una città misteriosa, una coltre di stelle.
Lo scalpiccio di piccoli piedi; una risata argentina mi rimbomba, amplificandosi, entro la testa, echeggia nella piazza dell’Anfiteatro di Lucca, sale sino al cielo lasciandosi dietro una scia scintillante.
Bianco e nero, certo.
Una marea di toni di grigio, argento e magenta.
Magari.
Sogno di-pomeriggio-di-un’-estate-che-non-è-mai-arrivata?…
Chissà.
Un caro saluto,
Nikki
Matteo,
una città immersa nel sonno profondo con li suoi vicoli medievali, i suoi angoli, le sue pietre.
Una notte magica e un cielo trafitto di stelle per testimoni all’incontro tra due solitudini.
Due donne lontane nei secoli, accomunate dal medesimo nome, e da un triste destino.
Uno scenario che evocasse il mistero della vita, e della morte.
Fa piacere che tu trovi suggestiva l’ambientazione del mio corto.
Ringrazio tanto per l’apprezzamento.
Nikki
PS: fantastiche le tue definizioni del volto di donna da ‘Botticelli Cubista’ o da ‘Picasso Botticelliano’: con la tua approvazione, penso te le ruberò 🙂