Premio Racconti nella Rete 2013 “Mattino di periferia” di Cosimo Zigrino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Dannato ascensore! Di nuovo fuori uso. Farsi cinque piani di questo maledetto condominio alle due di notte e con in corpo tre pinte di birra e un non precisato numero di altre cose alcooliche mi fa saltare i nervi.
Ma sono qui!
Giro con difficoltà la chiave nella serratura che stride: cazzo! Carlo aveva detto: ci penso io a mettere un po’ d’olio! Sì, ci penso io e intanto da quando l’ha detto è passata una settimana.
Appena aperta la porta, un’aria pesante e immobile di fumo misto a qualcosa di cotto, forse una bistecca, s’insinua nelle narici. Percorro il corridoio buio sino alla cucina, dove trovo con fatica a tentoni l’interruttore unto.
La lampada gialla penzola e ora rivela impietosa il sudiciume dominante la stanza. Fa un caldo pazzesco: l’aria è fluida come olio! Questo caldo uno lo trova solo in questa città, un po’ come tutte quelle rovine, uno le trova solo in questa città. E’ difficile da definire questo caldo: devi sentirtelo addosso e basta.
Mi tolgo la t-shirt, la lancio arruffata sulla spalliera di una sedia e tiro su veloce l’avvolgibile; fuori, a terra, lo sciame di luce e di rumore delle automobili del sabato notte, lungo la grande strada a quattro corsie, lambisce i palazzoni tutt’intorno.
Mi siedo, con le gambe allargate e distese, accendo una Camel del pacchetto che trovo poggiato sopra la tovaglia di plastica lercia. E’ risaputo che le cucine dei fuori sede fanno sempre schifo, ma quella della mia casa fa uno schifo tremendo: muri ingialliti dal tabacco, una patina untuosa su tutti i mobili anni ’70, dappertutto posacenere di plastica omaggio traboccanti e sempre una pila di piatti da lavare in perenne equilibrio instabile nel lavandino.
Sono quattro anni che vivo qua, dall’inizio dell’università; non mi ci trovo male, semplicemente mi ci sono abituato.
Resto l’unico punto fermo della casa, visto che avrò cambiato almeno due coinquilini l’anno, vedendone di tutti i tipi e colori; se i coinquilini vanno e vengono, il disordine e i piatti sporchi no, quelli restano; onestamente però non mi frega granché.
Continuo a tirare dalla mia sigaretta, con la testa poggiata al muro, guardando il ventilatore attaccato al soffitto roteare con scatti ansimanti.
Il cellulare squilla. Una, due, tre volte.
Pronto. Sei rientrato? Il bambino dorme, che faccio? Salgo da te? Va bene sali, ti aspetto.
E’ Anna, o meglio, si fa chiamare Anna, la parola che in italiano suona più simile al suo nome. Un anno fa è venuta in affitto in questo merdoso condominio di periferia, un mese dopo il marito muratore l’ha piantata con un figlio da tirare su ed è sparito. Non so altro di lei. So solo che da tre mesi sale da me. Non so bene quanti anni abbia, forse una decina più di me e all’inizio questa cosa mi piaceva. Non parliamo molto.
Suona il campanello, forzando sulle gambe, con fatica, mi alzo e vado alla porta.
Cazzo! Quante volte devo dirtelo? Gianni fa storie che non finiscono più se lo svegli. Uuu Gianni che palle.
Rimango immobile davanti alla porta spalancata, lei si smarca e si dirige spedita in cucina.
Solito schifo qua. Ah ah ah. Dammi birra va. Non so se ce n’è, guarda in frigo.
Lo apre.
Maduonna che puzza! Ah ah ah. Qui niente. Vabbè prendo sigareta.
Ne sfila veloce una dal pacchetto sul tavolo e l’accende.
Fumando sulla soglia del balcone mi guarda.
Uscito stasera? Sì, sono andato in centro a bere qualcosa con Sergio e Vittorio. Sempre soli come tre froci voi eh? Ah ah ah.
Intontito dall’alcool, non faccio caso a quello che dice e non ho neppure la forza di ribattere. Abbozzo solo un timido sorriso. Lei guarda fuori lo scorrere delle auto e tira dalla sua sigaretta.
Poggio la testa al muro; dalla parete sento il calore attraversarmi la massa informe e collosa dei miei capelli. I miei occhi sono fissi sul suo sedere, lo guardo inebetito. Ha una gran bella forma, anche se non riesco a capire se stasera mi piaccia davvero.
Finito tutto il tabacco, affonda la sua cicca nel posacenere tra le altre, mi prende per la mano, mi alza dalla sedia e mi trascina. La seguo passivo, continuando a guardarle il sedere.
Sono tutto sudato, ho la bocca impastata con la saliva densa e i capelli appiccicati al cuscino. La sveglia elettronica in cima alla scrivania segna impazzita un orario indecifrabile. Dalle fenditure della persiana filtrano una leggera luce violetta e il silenzio delle prime ore del mattino della domenica. Quel silenzio insolito che sale dalle quattro corsie vuote.
Mi sforzo di staccare la pelle dalle lenzuola zuppe e resto un minuto seduto sul letto, curvo, con i capelli penzolanti tra le mani. A piedi nudi vado alla ricerca delle mie mutande; non ricordo più come siano finite sopra la scrivania tra i tomi di diritto. Rimedio una canotta e mi dirigo in cucina.
L’aria si è raffreddata finalmente, e tutto il fumo e gli odori dei cibi si sono dissolti. Rubo un’altra sigaretta dal pacchetto incustodito ed esco al balcone. Nel cielo violetto, in lontananza, un puntino arancio forte sta facendo capolino. Una brezza frizzante mi accarezza i capelli e gonfia leggermente la canotta; la brezza del mattino mi piace, non so da dove venga, non so verso dove vada, ma passa di qui. Mi piace.
A guardare il cielo cambiare lentamente, il suo violetto attenuarsi, a provare questa brezza da pelle d’oca, intuisco come la mia vita di fuori sede in questa metropoli faccia davvero schifo. Mi fa schifo il respiro di Anna che stanotte avevo addosso, mi fanno schifo la birra e l’alcool bevuto con i miei due amici, mi fa schifo questa casa di accampati che non è casa; anche della giurisprudenza in tutta onestà me ne sbatto.
La mia vita di fuori sede fa davvero schifo.
In fondo al cielo il puntino si è fatto sempre più alto e grande, sino a diventare un disco vivo che illumina le colline all’orizzonte. Resto ancora qualche istante a tirare dalla Camel. Il fumo mi entra dentro acre, amalgamandosi con l’aria nuova del mattino, mi apre i polmoni.
Non so come, non so perché, ma rientro di scatto in casa, passo di corsa il corridoio, poi frenetico le scale; il fiatone dà il tempo ai miei piedi nudi, che velocissimi hanno già sfiorato cinque piani di scalini.
Sbuco nella strada deserta, in mutande, la luce sta ormai conquistando tutto intorno. Mi dirigo al centro e mi fermo sopra lo spartitraffico. Alzo la faccia verso il cielo; ho la gola che pulsa velocemente e gli occhi gonfi, forse di lacrime che vorrebbero sgorgare e scorrere lungo le guance.
Guardo l’azzurro, allargo le braccia e faccio entrare la luce nei miei polmoni.
I miei occhi ora guardano l’azzurro, le lacrime sgorgano e scorrono giù lungo le guance; sento la carezza della brezza su di loro.
Dal mio volto esplode un urlo:
<<IO>>.
Molto, molto bella la prima parte, davvero da maestro del racconto, ma il finale mi lascia alquanto perplessa. Non riesco proprio a capirlo! Attenzione agli errori di grammatica (ascensore è sostantivo maschile!!!! ).
Comunque i miei sentiti complimenti! Gran bel racconto!!
Lauraramon, grazie davvero dei complimenti!!! Immeritati, vista la mia ignoranza grammaticale 🙁
Per il finale… non si deve capire. Vorrei che si sentisse “la situazione”. Si deve percepire.
QUESTO E’ UNO SCRITTORE. Davvero un bel racconto, quell’IO finale, poi, urlato al cielo, contiene bene tutta la desolazione e l’annientamento del protagonista, bravo anche nel descrivere un ambiente, quello casalingo, con gli occhi d chi vede rovine, oltre che fuori, anche dentro. Complimenti!
P.s. : ascensore maschile
secondo me zigrino prende 7 e dice pure grazie, eh, cosimo? non è tanto la suggestione della ascensore ma alcune frasi che non girano ma stridono. nelle corde la scrittura ce l’hai ma accordati. 🙂 CEMF
Gentile Fairendelli, penso di aver percepito la sua suggestione:-) ma secondo lei, uno studente universitario del 2013 parla scordato o accordato? Secondo lei il mondo nel 2013 è accordato o scordato? La saluto. CZ
dai che non scrivi male ma applicati. pensa ad amleto: il tempo è fuori di sesto/ che destino ingrato/essere nato per sistemarlo. the time is out of joint/ oh what a cursed spite/ that i was born to set it right. riflettici. sono nella vasca e non so se la citazione è tutta giusta:-) CEMF
Studente fuori sede e non tanto per domicilio ……..
Le tristezza di niente e squallore ben rappresentati, ma fin troppo isolati nella realtà del giovane ragazzo, dal risiedere di altri e diversi contenuti, e poichè, fortunatamente, in verità non è che raramente così, un po’ contesto il fatto che non siano stati messi meglio in mostra in queste stanze disorganizzate come il protagonista, che poi a un certo punto esce in strada con le sole mutande a cercare tutto il resto, il suo IO…… ma la ragazza?
Alla ragazza, mi è spiaciuto molto, è stato riservato meno che un posticino!!
Più che uno sfondo, un fondo, omaggio molto ingrato, dal momento che se ne è scesa a riempire più che qualche attimo delle ore fatte di vuoto del nostro studente, e senza alcun compromesso!!!
Uno spaccato che genera numerose riflessioni.
Grazie e in bocca al lupo!
Emanuela, un posticino per la ragazza? Ma qui Bukowski docet. All”IO” fa schifo tutto, al massimo fa eccezione per il sedere che gli passa davanti e i fiumi di alcool. Ben scritto però, eccome! Vedi, avessero tutti il condizionatore, certi racconti non li scriverebbe nessuno.
Amaso… condizionatore?!…ma lei ha mai visto che razza di stamberghe riescono ad affittare ai fuori sede 🙂 La saluto e la ringrazio.
Davvero molto bello, davvero da maestro del racconto, come ha scritto lauramon. complimenti
Certo, questo studente universitario non credo che arriverà mai alla laurea: o verrà travolto da un’auto in transito, oppure , così in mutande, trasportato di peso in qualche centro di igiene mentale.E intanto mamma e papà pagano!! Però bella la descrizione dell’appartamento fatiscente, e molto realistica. Anch’io sono stata studentessa fuori sede e posso assicurare che di appartamenti così ce ne sono a bizzeffe, e anche peggiori. Una cosa non mi torna: il giovanotto dice che la sua vita da fuorisede gli fa schifo. Di solito ci si diverte, nonostante lo studio e il lavello lercio e puzzolente. Non sarà il giovane un po’ troppo mammone? Spero non sia un racconto autobiografico!!
Cara Giovanna ciao e bentornata ! Gli studenti fuori sede, anche secondo me hanno in quella loro condizione, che non a tutti è consentita, un privilegio, e qui invece, qui esce poco fuori, a vantaggio di una più o meno latente e passiva insoddisfazione. Credo che l’autore abbia calcato volutamente questo tratto ed è per questo che forse non ci rimane molto chiaro quale sia il punto o il suo problema! Ma la ragazza ? Della ragazza tu che dici Giovanna?
Un caro saluto
Emanuela
Ciao, Emanuela, un caro saluto. Non esagerare però con Fairy, perché poi lui si gasa!
In questo racconto, la ragazza è solo marginale, e quindi per me va bene così, come l’ha descritta. Il suo “contributo” dovrebbe in teoria dar sollievo al giovanotto in crisi, (si sa che in certe nevrosi, il sesso aiuta). Come tutto, però, anche lei non funziona. È proprio da ricovero!
ma non interrompa il flusso – limpido, affettivo, diastaltico – di fagnanski! se mi gaso ok, ci saranno cose bene peggiori, no? e la pioggia di fiori? straordinaria. ricommento costruttivamente zigrino(ho notato che tra le pochissime qualità dei giovani di oggi ci sono l’autoironia e l’assenza di permalosità). secondo me in questo racconto, e lui non scrive affatto male, in potenza, funziona poco tutto. alcune frasi sono scritte male e vanno riviste. la scrittura è fatica, passo dopo passo non puoi prendere la ascensore (è stato corretto ma io avrei preferito la licenza poetica: se c’è una cosa femminile è quella). 🙂 CEMF
Scusa Giovanna, non mi pare un fuorisede nevrotico, ma un ragazzo alla scoperta di se stesso. Parte dal corpo e dallo spazio circostante. Un nuovo Siddharta del ventunesimo secolo all’alba della consapevolezza. Non si sa dove andrà a parare, queste sono le prime pagine. O forse, è inutile negarlo, queste piogge di tulipani mi danno alla testa!
caro Amaso, capisco la scoperta di sé, l’estraneamento, e anche lo scoramento, però andarsene in giro in mutande e gridare “IO”, mi sembra un tantino inconsueto. Oppure è successo anche a te? Mi sa che qui piovono pini, non tulipani.
E Siddharta, un indù del VI secolo, com’era vestito? Io lo immagino come il Buddha, perizoma e forse scalzo. Gridava Om om… E poi più che le pigne sono bacche di ginepro. Sotto spirito. 🙂
Un giovane che non suscita tenerezza, un tipo che si rifugia passivo nelle nebbie alcoliche, assomiglia ad un figlio dei fiori appassiti. Il racconto ci descrive ruvidamente la vita sconclusionata di questo bambinone in cerca di un’identità adulta. Un racconto inizialmente pessimista, che secondo me ha un sussulto positivo quando il protagonista rimasto in mutande si slancia in una fuga per superare quei cinque piani che lo separano dallo spartitraffico, e giunto lì fa un urlo liberatorio che in molti, purtroppo, non hanno il coraggio di fare. Però tale urlo liberatorio è in fondo soltanto un antipasto di quella lunga strada che il tipo dovrà percorrere per non essere più schiavo dei propri vizi.
Roberto, mi è piaciuto il tuo commento e adesso mi piace di più anche il racconto. Forse data la mia indole di norma mansueta, e un trascorso universitario all’insegna della felicità, non avevo colto che per taluni un urlo liberatorio può significare un punto di svolta. Simbolica e azzeccata la scelta dello spartitraffico da cui ripartire. Vedrei questo racconto anche come Corto, magari scegliendo come protagonista un bel fico, che non rovini la scena finale!
Scusate, non posso farci niente se lui e la ragazza non parlano. Questo è il loro rapporto: lei sono tre mesi che sale da lui. Non so di più.
Roberto, lei mi ha fatto notare una cosa: i cinque piani lo separano dallo spartitraffico; effettivamente è quella la meta, non ci avevo pensato. Lo spartitraffico evoca un ordine nel caos del flusso del traffico. Allora forse il ragazzo si è posto sopra lo spartitraffico (non lo so eh, il racconto è partorito da dentro, è come un figlio, uno non lo decide come gli viene fuori) alla ricerca di un ordine, una linea che indichi la direzione.
Roberto ancora, scusi, non sia così duro, abbia comprensione per questo bambinone. Lui è in cerca di un’identità adulta, ma chi lo aiuterà a trovarla? Tutto ciò che lo circonda non vuole saperne di uscire dall’adolescenza. Anche Anna alla fin fine, forse ha dieci anni più di lui, ma non vuole saperne.
come attualizzare il tema novecentesco dell’incomunicabilità, dell’alienazione.. con un tocco ottimista che – seppure non esattamente novecentesco – non fa mai male! complimenti! in bocca al lupo!
Trovo che dovremmo essere tutti d’accordo che questo “urlo” letterario sia interessante e possa essere una valida alternativa o una versione metropolitana del capolavoro pittorico l’URLO di MUNC. Ignoro, ammetto la colpa, le ragioni dell’urlo fissato nel quadro mentre quelle dell’urlo nel racconto sono da rircercarsi nei comportamenti e nella vita del protagonista il quale, gridando “IO” dovrebbe aggiungere “SONO COSI'”. Molto probabilmente il protagonista usarebbe un epiteto colorito visto il linguaggio del racconto che è quello in uso di questi tempi. Non bisogna essere uno psicologo od uno psichiatra per capire le ragioni di questa angoscia e il protagonista è bene che si affretti a cercare una soluzione, magari nel racconto “Ritorno a casa” per non essere portato di forza all’ospedale.
Bravo Cosimo, hai fissato uno dei diversi modelli della gioventù studentesca, quello non predominante ma il meno edificante.
Emanuele.