Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Calcio di rigore” di Alessandro Nardi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Si stava giocando la semifinale del campionato e incontravamo in casa l’Enotria, altra società gloriosa di Milano, come noi del Vigentino, entrambe punto di riferimento del settore giovanile del calcio milanese.

Il regolamento di quell’anno prevedeva una partita di sola andata ad eliminazione diretta, senza ritorno in casa avversaria. L’incontro era stato nervoso, pieno di falli tattici, con poche azioni meritevoli di essere raccontate. Erano finiti i tempi regolamentari ed anche i supplementari. Alla fine, il risultato di 0-0 era sembrato il più giusto.

Sentivo le gambe svuotate dallo sforzo e dal timore di subire il gol beffa negli ultimi minuti, che ci avrebbe eliminato a pochi istanti dal traguardo della finale. Si arrivava così alla lotteria dei rigori.

Nei giorni precedenti era piovuto ma adesso il terreno di gioco era asciutto, duro, con una superficie irregolare inframmezzata qua e là da qualche pozza d’acqua, che aveva infangato scarpe e tenuta di gioco dei giocatori. Non che di solito giocassimo su un prato da golf. L’erba dal campo scompariva dopo il primo mese di preparazione atletica e a fine settembre il colore del terreno aveva ripreso il suo abituale grigio, intervallato qua e là da sassi e sassolini. Il clima freddo e piovoso dei lunghi mesi invernali rendeva il terreno di gioco più simile alla superficie lunare, pieno di crateri piccoli e grandi che rendevano impossibile prevedere quale direzione avrebbe preso il pallone una volta toccato terra.

Il Mister aveva scelto i cinque rigoristi che avrebbero avuto la responsabilità di farci accedere alla finale con l’Aldini. La tensione era alta, le facce cupe e irrigidite dallo stress del momento. La mia mente era annebbiata e sentivo solo l’odore del sudore che colava dal viso, mischiato con quello della terra del campo da gioco. Cercavo disperatamente di riprendere fiato ed energie, dopo il concitato finale di partita.

“Allora ragazzi, ecco chi batte i primi cinque rigori: Roby, Massimo, Maurizio, Sandro, Stefano” disse il Mister.  A sentire pronunciare il mio nome, il quarto della lista, mi si era formato istantaneamente un groppo in gola simile a una palla da tennis pelosa, che mi asciugava la poca saliva residua dallo sforzo agonistico. “Mi raccomando, non pensate a niente, non abbiate paura, decidete dove tirare e fatelo con sicurezza” aggiunse il Mister.

Sapevo che sarei stato uno dei prescelti ma una cosa è l’allenamento e una cosa è sapere di “doverlo tirare” quando conta per il risultato finale.

L’arbitro raccolse la lista dei cinque rigoristi dai dirigenti accompagnatori delle due squadre e chiamò i due capitani per determinare chi avrebbe dovuto calciare per primo la serie di rigori alternati, uno ciascuno per squadra. Il lancio della monetina ci fu favorevole: avremmo iniziato noi.

Psicologicamente, tirare i rigori per primo è meglio. La pressione non è così alta come per la squadra che tira per seconda, che invece si sente “obbligata” a realizzare almeno lo stesso risultato del rigorista che lo ha preceduto nella serie. Ovviamente, la squadra che tira per prima, ad ogni turno di rigori, non deve commettere errori, altrimenti le carte s’ingarbugliano.

Roby si apprestò a calciare, era un emotivo ma era molto preciso, tant’è che era il nostro rigorista ufficiale. “Dai Roby” gli urlavamo noi rigoristi dal cerchio del centrocampo, e anche dalla panchina si alzavano grida di incitamento “Dai! Dai che vinciamo!”

Roby tirò debolmente e anche piuttosto centrale ed il portiere parò quasi senza piegarsi.

Gli sguardi dei miei compagni di squadra si velarono di delusione. Non era un buon inizio ma alcuni di noi, un po’ per scacciare la paura e un po’ per ravvivare la speranza, avevano già cominciato ad urlare al nostro portiere “Dai Andrea! Dai che glielo pari anche tu!”

Anche io mi aggiunsi agli incitamenti, anzi urlavo più forte degli altri, nel tentativo di scrollarmi di dosso la tensione. Le grida di gioia della squadra avversaria, le nostre urla d’incitamento e le esclamazioni provenienti dal pubblico in tribuna, avevano trasformato il campo in una vera e propria bolgia.

Dopo i primi tre rigori per parte, gli avversari avevano mantenuto il vantaggio di un gol e quindi adesso il risultato era di 3 a 2 per l’Enotria.

Toccava a me. La tensione era massima; non riuscivo a deglutire e stavo attraversando una vera e propria crisi di panico. Ma non potevo tirarmi indietro, oramai era troppo tardi.

Il portiere avversario aveva recuperato il pallone e me lo aveva lanciato. Tutti adesso volevano che segnassi per pareggiare le sorti e rimanere aggrappati alla partita. Se avessi sbagliato, agli avversari sarebbe bastato segnare uno dei due loro rigori rimanenti per volare in finale.

Una parte di me si opponeva ad accettare l’ipotesi di una sconfitta, voleva lottare a tutti i costi, e quindi cercavo disperatamente di ritrovare l’orgoglio e le energie nervose necessarie per calciare con freddezza il pallone. “Dai Ale! In allenamento non sbagli quasi mai” continuavo a ripetere tra me e me.

La bolgia era aumentata ancora. Le gambe avevano cominciato a tremare mentre mi stavo avvicinando a piccoli passi al punto in cui avrei dovuto posizionare la palla. La mascella si era contratta come paralizzata e mi rendeva impossibile portare ossigeno ai polmoni. Le gocce di sudore mi annebbiavano la vista.

Deposi la palla sul dischetto ma in quello stato di agitazione non riuscivo a tenerla ferma ed il terreno sconnesso non mi aiutava. Il portiere avversario urlò: “Arbitro, la palla non è sul dischetto! Non può tirare così!”. Mi stavo innervosendo ancor di più. “Numero 3 sposta la palla sul dischetto!” mi disse l’arbitro. Allargai le braccia spazientito. Dovetti riposizionare in modo corretto la palla e tornai indietro voltando le spalle alla porta per cercare di scacciare la paura e non farmi ipnotizzare dal portiere.

Ora fissavo la porta. Ero all’interno dell’area di rigore, più o meno a un metro dal limite dell’area. Guardai il portiere e urlai “Arbitro, non può muoversi così deve stare fermo sulla linea di porta! Lo guardi, lo guardi!! Come faccio a tirare?!”. “Dai, dai, numero 3 non perdiamo tempo! E tu portiere fermo lì altrimenti devo far ripetere il tiro!”. In quell’attimo di ritardo riuscii a respirare un po’ più a fondo e trovai la calma necessaria per decidere dove tirare. “Lo tiro alla sua destra, facendo finta di tirargli a sinistra” pensai in quella frazione di tempo guardando la porta.

L’arbitro fischiò, io aspettai ancora qualche secondo, guardando nel vuoto, oltre il portiere. Non volevo mi distraesse proprio nel momento cruciale. Calò il silenzio.

Avviai la mia rincorsa, tre, quattro passi, caricai il destro e calciai angolato alla destra del portiere, fintando il tiro dalla parte opposta, come mi ero prefissato di fare. Il piattone impresse un effetto rotatorio al pallone. Volevo mettere la palla nell’angolino basso della porta, dove il portiere non sarebbe arrivato mai a meno di buttarsi in anticipo. Prima di calciare avevo abbassato gli occhi, fissando il pallone, e non mi ero accorto che il portiere aveva compiuto due o tre piccoli passettini in avanti.

Quando calciai ed alzai lo sguardo su di lui, era già al limite dell’area piccola, l’area detta “del portiere”. La mia visuale della porta si era ristretta di parecchio ma era troppo tardi per cambiare direzione al tiro. Se mi fossi fermato, l’arbitro avrebbe visto che il portiere si era mosso prima ed era venuto in avanti, cosa proibita per regolamento. L’abbrivio della rincorsa e anche la voglia di togliermi di dosso quell’incombenza, quella responsabilità, mi decise sul da farsi. Calciai lo stesso ma persi quella frazione di secondo indeciso se continuare la corsa o fermarmi e quindi calciai debolmente, imprimendo alla palla meno velocità di quella necessaria ad anticipare l’uscita del portiere e trapassarlo.

Rialzata la testa, vidi appena che il portiere si distendeva e impattava la palla con entrambi gli avambracci piegati ed i pugni chiusi.

Il mondo mi crollò addosso. Gli avversari urlarono di gioia, sapevano che era quasi fatta. Erano alle porte della finale. I miei compagni ed i tifosi urlarono anche loro, sapendo che oramai non saremmo più riusciti a rimediare il risultato. Mi coprii il vispo con le mani, non avevo il coraggio di guardare la realtà. La realtà personificata dal portiere che urlava giubilante per l’impresa compiuta.

Ma…

Continuando a fissare la porta, vidi la palla, pochi istanti prima ribattuta dagli avambracci del portiere, che stava ancora girando su se stessa e non aveva terminato la sua corsa.

Il calcio aveva impresso al pallone una traiettoria a giro e, vuoi per effetto della rotazione, vuoi per il terreno sconnesso, una volta toccata terra, aveva ripreso ad andare verso la porta avversaria e si stava lentamente infilando nell’angolino basso opposto, alla sinistra del portiere.

Non potevo credere ai miei occhi: “E’ gol!” urlai all’arbitro “E’gol!” e con me lo urlarono anche i miei compagni e i nostri spettatori, sebbene in quel momento non fossi più in grado di distinguere alcun suono, in preda ad una tranche agonistica dettata più dall’incredibilità dell’evento che mi vedeva protagonista che dall’orgoglio per la riuscita del tiro. L’arbitro portò il fischietto alla bocca e fischiò, indicando il cerchio del centrocampo. “E’ goooool” urlai a squarciagola “E’ goooool!”. L’arbitro aveva convalidato la rete. Cominciai a correre come un pazzo verso i miei compagni, che non sapevano se abbracciarmi o insultarmi per l’incredibile epilogo del rigore. La bolgia ora era davvero totale. Fui sommerso dai compagni e presi un calcio in faccia che mi fece sanguinare il naso. Ero fuori di me dalla felicità e non riuscivo più a smettere di urlare “L’ho fatto, l’ho fattoooo!”. Lo dissi talmente tante volte che i dirigenti in panchina mi dovettero redarguire e zittire. Alla fine tacqui, sentendomi anche un po’ stupido per aver reagito così esageratamente e platealmente ad uno scampato pericolo, non certo ad una prodezza.

La partita non era finita. Uno dei loro rigoristi sbagliò, facendo terminare la serie di cinque rigori per parte in parità, 4-4.

La serie ad oltranza non durò che un solo tiro ciascuno perché il nostro portiere parò il rigore avversario mentre, prima di esso, il nostro compagno non fallì il suo. Passammo in finale, l’Aldini ci aspettava.

Quel pomeriggio festeggiai a lungo con i miei compagni ma non ne avevo tanta voglia, mi sentivo quasi colpevole, come se avessi rubato qualcosa a qualcuno. Mi assalì una sensazione di vergogna e avvertivo dentro di me un retrogusto dolce-amaro che non mi avrebbe più abbandonato anche in futuro, pensando a quell’incredibile rigore.

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5 commenti »

  1. Penso tanto, troppo, e così ho deciso di scrivere per condividere i miei pensieri e raccontare storie, alleggerendo la mente

  2. Mi chiedo se un calciatore professionista saprebbe descrivere in questo modo tutto quello che succede e che gli passa per la testa a momento di un rigore importante. A lui chiaramente non è richiesto…Tu comunque ci sei riuscito bene.

  3. La responsabilità di un errore che non riguarda solo te ma coinvolge anche altre persone penso sia schiacciante. Doppia ed esaltante è dunque la gioia per avercela fatta, ma altrettanto terribile dev’essere il rimorso del fallimento. In questo breve racconto trovo che le espressioni usate e l’esposizione rendano molto bene entrambe le emozioni, creando addririttura pathos

  4. L’ho letto tutto d’un fiato, e’ scritto in modo leggero, con un ritmo incalzante…Gli occhi corrono avanti per vedere come finisce! Bravo!

  5. Premetto che non sono una appassionata di calcio, però mi diverte guardare i Mondiali soprattutto per la possibilità di … andare ai rigori.
    Dei rigori mi piace la tensione che si crea, la suspense che ti toglie il fiato fino alla fine…insomma tutto quello che tu hai reso così bene nel tuo racconto.
    Poi l’ imbarazzo finale, quando descrivi la tua sensazione di colpevolezza per essere stato un eroe “per caso” … Sono sicura che sia un’emozione con cui tutti, prima o poi, debbano fare i conti.
    La gloria immeritata ( a tuo dire ) di quel giorno, l’hai riscattata pienamente ora con questo racconto. Mica sempre si riesce così bene a farlo. Complimenti!

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