Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Oswiencim” di Marcello Pezzi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Un giorno, questo viale delle betulle, sarà pieno di gente.
Gente che passeggia, a testa bassa, nel diverso clima delle stagioni che ruotano, anche nell’autunno che tinge la terra di marrone e le foglie di rosso.
Rosso come i mattoni delle palazzine di due piani dove tanta gente ha vissuto, ha dormito, è morta.
Sì, un giorno ci sarà gente ben vestita, che trascina i passi curiosi sull’umido della ghiaia autunnale, guardandosi attorno, stretta tra i pali ricurvi di cemento armato, dentro ai rocchetti ceramici bianchi che richiudono i loro angoli morti sul filo di ferro.
E non ci sarà più corrente in quei fili, e il cielo si aprirà un poco, anche se sarà autunno, con nuvole pesanti, attorno.
Un giorno, questo viale con le betulle, sarà il simbolo di cose che sarebbe bello dimenticare, ma che invece conviene ricordare, conviene tenerle a mente, certe cose, in modo che non possano tornate mai più.
Un giorno, qui, sarà giusto ricordare.
Le persone verranno per questo, dentro ai loro cappotti nuovi, dopo aver pagato l’ingresso, per camminare qui, per assorbire tutto questo in un paio d’ore, prima di tornare in città, a sorbire una zuppa custodita in uno scrigno di pane, seduti a un tavolo, pensando a quello che, qui, non c’era.
Il cibo. Il desiderio del cibo, il desiderio di azzannare tutto, anche l’erba del prato, anche le foglie delle betulle, come animali, per placare la fame, una volta per tutte, anche lasciandoci la pelle.
E la stanchezza, che avvolge tutto, che rende pazzi, perché il lavoro piega, il lavoro piaga, il lavoro uccide, mica rende liberi.
E il freddo, che fa battere i denti, che toglie la pelle. Il freddo che faceva battere i denti, quando li avevo ancora, quando avevo ancora le energie per farlo.
Perché ora non tremo più, non mi muovo più, aspetto solo che passi.
Che tutto passi.
Perché qui dentro tutto conduce dritti alla fine.
Non ho più forze. Venti chili in tutto, almeno cinquanta in meno di sei mesi fa, niente più capelli, né denti, tutto caduto, tutto perduto.
Solo le righe di questo pigiama sporco, pieno di buchi, di puzza, duro come fustagno, ormai.
Vado fuori, voglio camminare tra le betulle, che sono belle, nel cielo grigio.
C’è movimento. Dicono che stanno andando via, che sono arrivati a liberarci.
Io non riesco a crederci.
Non cambierà niente, solo nuovi padroni a cui obbedire, e minestre di patate così lunghe da sembrare acqua di fonte.
Solo pochi passi, tra il colore bello delle foglie, ad annusare il profumo del vento, nascosto solo, in piccola parte, dal fumo nero del camino e da quello dei roghi, accesi qua e là.
Elettricità, nell’aria, e loro che non sono più giocosi, con noi. Ci evitano, a volte sparano, a volte no, che ci sono corpi per terra, che hanno paura anche loro, forse.
Solo pochi passi e vado giù, non ho più forza, il cielo che mi copre come una coperta scura, gli occhi che si fanno bui, attorno a me.
E quell’odore di carne, nell’aria, orribile, che, anche se fa schifo, mi fa solo venire più fame.
Vado giù, mucchio di ossa in un pigiama a righe, a terra, sulla ghiaia grossa, tra le betulle.
Non mi ferisco nemmeno, non ho più sangue da buttare dalle ferite, non sanguino più.
Resto lì, nel mio buio. Non vedo, ma sento parlare, sento l’accento duro nelle mie orecchie. Sento la brezza tra le betulle e lei sì, mi piace.
Resto lì, per non so quanto tempo.
Io non lo capisco più, il tempo.
So solo che ne avevo, prima, tanto, tutta una vita, a ventidue anni.
Ma in pochi mesi me lo hanno portato via tutto.
Però forse ne passa ancora, e forse sono ancora qui.
Delle mani mi sollevano, come un povero cencio.
Mi lanciano via. Non apro gli occhi, ma atterro su qualcosa di morbido, su qualcosa di duro.
Le braccia e le gambe penzolano fuori.
Non apro gli occhi, non posso farlo più.
Ma lo so dove sono. Lo so già.
Sono su un carretto, sopra corpi come il mio, morti.
Avevo un nome una volta. Un nome come il vostro, come quello della gente che verrà qui un giorno, a vedere e a capire.
Avevo un nome e anche questo posto aveva un nome, un nome diverso da quello che ricorderete.
Ora io ho solo un numero.
Dopo non fa più così freddo.
Loro parlano veloci e io sono steso a terra, immobile.
Ora mi bruciano, penso, ora mi bruciano, e l’idea del calore, della fine, mi scende dritta dentro.
Poi sento uno di loro parlare all’altro, sento che poggia qualcosa di metallo sul tavolo di legno.
Un rumore secco, che mi entra dentro.
E poi quella parola, nel fiume delle altre che non capisco, quella parola “kamera”, che è uguale anche nella mia lingua.
Se ne vanno.
Resto solo.
E capisco cosa voglio. Voglio che si sappia, che non rimanga tutto sepolto qui, bruciato via, come cenere nel vento.
Che se davvero stanno arrivando a salvarci possano capire da cosa.
Apro gli occhi appiccicati, è una fatica mortale.
Eccola, la macchina fotografica, sul tavolo.
Sono in piedi. Non chiedetemi come. Afferro l’oggetto. È freddo, sulle mie dita, e pesante.
Nella stanza ci sono molti corpi, a terra, attorno al posto dov’ero io.
Nascondo la camera nel mucchio di valige che c’è di fronte.
Poi lo vedo, lucente, bellissimo, lì, in un angolo, vicino ad un paio di stivali.
Come mi avrebbero fatto comodo, due stivali così.
Prendo in mano il coltello e me lo nascondo nei pantaloni prima di tornare al mio posto.
Sento il freddo del metallo affilato sulla pelle, la linea tagliente della lama. È come se mi scintillasse dentro.
Poi sento delle voci, entrano.
Sono in due, parlano, non trovano la “kamera”, e si agitano.
“Come può essere, questi sono morti”, dice uno all’altro, questo lo capisco, ce lo ripetevano ogni giorno, che eravamo morti.
Sento che si agitano, la “kamera” era importante.
Uno esce, urlando, andando via. L’altro resta lì, sento che guarda ovunque, che comincia a spostare il tavolo, poi le valige.
No, questo no. Vivo per questo, ora, per consegnare quest’oggetto a chi sta arrivando, perché magari saranno persone e non mostri e sapranno cosa farne. Magari.
Apro gli occhi, sottili come tagliole.
Lo vedo curvo sulle valige, che impreca.
Mi alzo in un soffio, sono un fantasma e i fantasmi non fanno rumore.
Gli sono alle spalle, ma peso venti chili e sono quasi morto.
Allora gli punto la lama sul collo, stringendo l’impugnatura con tutte e due le mani, da sopra, e lo chiamo, sperando che sia lui stesso a mettere la forza necessaria.
La lama ruba un filo di luce da fuori, la vedo brillare, come ghiaccio in una notte troppo fredda.
“Soldato”, gli dico.
Lui scatta su, spinge sulle ginocchia e si pianta la lama nella schiena, entra come il burro, perché è pesante, anche se io non riesco a mettere nessuna forza.
Volo via, cado a terra, volo come foglie di betulla in una folata di vento, cado su scheletri come me, che stanno lì, sul pavimento.
L’uomo non urla. Lo vedo che si muove come un granchio, allunga le braccia per cercare di prendere via il coltello.
Ma non ce la fa e dopo un minuto cade a terra schiumando sangue.
“Soldato”, gli dico, “sei contento?”, penso, che ho finito le parole.
Poi non ricordo altro. So che arriva quello che era lì prima. Trova il camerata morto. Guarda il mucchio dei cadaveri inermi.
Guarda anche me, non riesco più a chiudere le palpebre, lo vedo che mi fissa.
Guarda quella distesa di corpi morti, guarda il suo collega e suda.
E ha paura.
E scappa.
Io non ho più sangue, né forza, né altro.
Però, da chissà dove, una lacrima trova la strada per uno dei miei occhi, una lacrima piccola, piena di sale, che brucia come un taglio profondo.
Sarà perché sto morendo, ma i muscoli della faccia si distendono, e sento fiorirmi addosso un mezzo sorriso.
Questi soldati sono diversi, hanno vestiti diversi, una stella rossa, e parlano una lingua che capisco meglio.
Li sento bisbigliare, piano, quasi con rispetto.
Cerco di muovermi. Cerco da farlo.
Però non riesco a muovere niente.
Penso all’acqua, al fatto che più di tutto ho bisogno di acqua.
E acqua, si dice quasi uguale, nelle nostre lingue.
Mi esce non so come, dalla bocca, in un soffio, nel silenzio.
Non parlano più. Stanno zitti, alti e fermi, nei loro cappotti pesanti.
Mi hanno sentito.
Mi si avvicinano. Uno di loro urla agli altri. Mi portano acqua.
Mi sollevano e mi poggiano sul tavolo. Mi tengono su la schiena.
Com’è dolce il sapore dell’acqua che mi scorre in bocca e sul viso e sul corpo.
Com’è bello sentirla andare giù, dentro di me.
Faccio segno di fermarsi.
Indico il mucchio delle valige, con un dito.
“Kamera”, dico.
Loro capiscono, anche nella loro lingua si dice così.

Mi hanno dato del tè, dolce, buono, vero tè, e mi sembra di rinascere.
Poi sono arrivati a parlarmi.
Non capivo tutto, ma dicevano che era importante quell’oggetto, molto importante.
Sì, io lo sapevo. Ma guardavo le betulle, dalla finestra, e vedevo le loro foglie d’oro, muoversi al vento.
Mi hanno dato da mangiare, pane, lardo, e io ho perso la testa, più me ne davano e più ne mangiavo.
Poi mi sono sentito male, che il mio corpo non vedeva cibo vero da mesi, ormai.
Mi sono cacato nel letto, fra dolori di morte e spasmi che il mio corpo non pensavo potesse avere.
Mi hanno nutrito di nuovo.
Ero un lupo, avevo fame, morivo, morivo di fame, mangiavo tutto, di corsa, che avevo fretta, fretta di vivere, perché morivo.
Morivo di fame.
Invece morivo, e basta.
Questa è la verità.
Nell’odore vergognoso dei miei escrementi, nel sudore puzzolente che mi copriva le ossa.
Dopo aver vissuto di niente, per mesi, il mio corpo non riconosceva più il cibo.
Non potevo vivere senza cibo, ma non potevo mangiare più.
E loro non capivano, dicevano, “vedrai, ora ti passa, vedrai”.
Ma non passava.
Mi hanno portato in un’altra stanza, da un dottore.
Dalla finestra vedevo i pioppi, lunghi, dell’altro viale, quello interno al campo.
Le foglie si muovevano piano, ondeggiando sui tronchi lunghi.
Un raggio di sole entrava dalla finestra.
Il mio cuore smetteva di battere.

 

Un giorno, lungo il viale delle betulle, ci saranno molte persone, a camminare libere, nei loro cappotti eleganti, nella luce grigia dei pomeriggi di autunno che annusano la neve che sta per arrivare.
E saranno persone che hanno scelto di venire qui, per sapere, per ricordare, per vedere.
E avranno un nome e un cognome.
Niente più numeri, niente più privazioni. E loro sapranno, vedranno le baracche, i forni, il filo spinato attaccato ai piloni ricurvi di cemento, i rocchetti ceramici per isolarli dall’alta tensione, le torrette.
Pesteranno la ghiaia bianca con le loro scarpe buone, in mezzo alle due file di betulle che li accompagnano lungo le baracche, al limitare del campo, sul retro.
Io, il mio nome, l’ho perso tanti anni fa. Dopo avevo solo un numero, tatuato sul braccio.
Un numero maledetto, vigliacco.
Un numero dal suono acido, insopportabile.
Anche la mia città, O?wi?cim, ha perso il suo nome.
Anche a lei è stato portato via, sostituito da un altro con un suono altrettanto acido, altrettanto insopportabile, perché è il nome con cui la chiamavano loro.
Ma è così che voi la ricorderete: Auschwitz.

 

 

 

*Nota sul falso storico.
Le armate sovietiche entrarono ad Auschwitz il 27 gennaio del 1945, trovando ancora circa 7000 prigionieri vivi. Nessuno di loro, probabilmente, era di Oswiencim, in quanto i polacchi della zona furono i primi ad essere eliminati, all’apertura del campo, anni prima.
Ho scelto di ambientare queste pagine in autunno perché è in autunno che l’ho visto con i miei occhi.
E anche perché sarebbe bello poter cambiare tutto, nella vera storia di questo luogo.
Io ho immaginato almeno di cambiarne i colori.

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1 commento »

  1. Complimenti ben scritto. Ho un paio di dubbi, uno su “Kamera”, che forse avresti dovuto scrivere in corsivo per far capire che usavi il termine polacco. L’altro dubbio è anatomico: “…. i muscoli della faccia si distendono, e sento fiorirmi addosso un mezzo sorriso.” se i muscoli si rilassano non si può sorridere, il sorriso è una certa contrazione dei muscoli della faccia. Aggiungo un consiglio: quando si scrve in polacco e non si hanno a disposizione i caratteri speciali di quella lingua, si usano quelli normali senza riprodurre il suono come dovrebbe essere. Il nome dovrebbe essere ” Oswiecim,” senza la “n “. Volendo riprodurre il suono originale (cosa che i polacchi non fanno mai) avresti dovuto scrivere Osfiencin Comunque molto bello. Powodzenia!

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