Premio Racconti nella Rete 2013 “Olimpia – Sparta” di Marco Maffei
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Domenica prossima, 27 maggio 1984, allo stadio del Cascinone, Olimpia e Sparta si giocheranno lo spareggio-salvezza del campionato di prima categoria e ci sarà tutta Sant’Agabio, i vecchi saliranno sulla montagnola della Smea, l’impresa di costruzioni che sta in fianco al campo e dall’alto valuteranno e criticheranno, che lì è meglio che stare in tribuna, se ci fosse, ma qui tribune non ce n’è e neanche spalti, qui si paga millecinquecento lire esclusi gli amici, i soldati, i pensionati, i ragazzi delle giovanili e le donne, insomma pagano solo i foresti, e si sta appiccicati alla rete, ai bambini delle volte gli resta perfino il segno dei rombi sulla faccia e si grida forza Olimpia anche se si perde, che poi è la maggior parte dei casi, ma ciò non toglie che la partita della domenica è un punto fermo, così sentita che nel quartiere gli uomini di ogni età, dai sei in su, vorrebbero essere tutti in campo e qualche volta, quando l’arbitro è proprio bastardo, il Colombo si dimentica di chiudere il cancelletto e allora vanno davvero tutti in campo, ma poi si fa un gran gridare e al massimo corrergli dietro, ma non gli si è mai dato a nessuno, magari si sta un po’ fuori dal suo spogliatoio a aspettarlo, finita la partita, più per mettergli paura che altro e poi il Colombo quando il gruppo si sfoltisce e gli animi si quietano lo prende a braccetto e lo accompagna lui fino alla macchina e più che è stato disonesto più che lo porta fuori presto, per farlo strizzare, stavolta speriamo che ne venga uno buono o magari anche la terna, che però ci mette un po’ soggezione quando arriva, perché con la Sparta c’è troppa rivalità, proprio, non ci possiamo vedere, perché loro sono i ricchi e noi i poveri della città, alla fine tutto si riassume in questa cosa qui, e loro a essere sinceri sono più forti, più tecnici, il loro campo è un biliardo, noi invece per dire la nostra bisogna metterla sempre sulla lotta, infatti tante volte la domenica mattina presto, già verso le sei, si attaccano le pompe e il Martino ci dà dentro a bagnare fin quando il campo è marcio, così il pomeriggio la palla non corre e noi che lo sappiamo portiamo le scarpe coi sei e gli altri invece arrivano solo coi tredici, vai te a immaginare dopo magari tre o quattro giorni di sole che servivano i sei e insomma la settimana che arriva, da qui a domenica, sarà solo tempo in mezzo, il quartiere è pieno di manifesti e non mancherà nessuno, questo è sicuro, un mese fa eravamo spacciati, a meno quattro dalla terz’ultima e poterci giocare uno spareggio sembrava impossibile, per di più in casa, che il sorteggio in federazione ci ha detto bene, così bisognerà arrivare presto per trovare ognuno il suo posto, perché c’è a chi gli piace mettersi dietro al Trombin, il nostro portiere, che è una sagoma e a chi dietro la porta degli altri e giù parole, ognuno ha le sue preferenze e c’è chi verrà fin dalla mattina, coi panini e la frittata e le sedie da pic nic, che lì è piena campagna e da tutto questo impasto di passioni io rimango ammirato, coi miei sedici anni compiuti due mesi fa, cioè quindi vado per i diciassette, e certe cose mi sembrano ancora troppo grandi, delle volte mi metto tutto nudo in bagno davanti allo specchio e mi guardo, e guardo questa faccia pallida, questa frangetta dritta, che i capelli me li taglia mia mamma per risparmiare, però mai di lunedì, se no si capisce e queste gambe secche e lunghe, che faccio uno e settanta per sessantacinque chili e parlo da solo, come adesso, i pensieri legati uno dietro l’altro senza prendere fiato, finchè riesco, e mi sembra impossibile, con tutti quelli che lo desiderano, che sarò proprio io, domenica, a andare in campo, da titolare, ormai sono due mesi che sono titolare, il numero non lo so, perché il mister Ferrari mischia i numeri per confondere gli avversari, ma comunque sono centrocampista, te fai quello che vuoi, mi dice sempre il presidente, che con la palla nei piedi è come vedere gli angeli, ma va’ che c’ha un sacco di difetti da togliersi, gli ribatte il Colombo per tirarmi giù, perchè è quello che mi vuole più bene e insomma io sarò lì, dove tutti vorrebbero essere e questa settimana voglio gustarmela piano, come quando hai un cioccolatino solo e deve durarti per tutto il cinema, e prendermi le pacche d’incoraggiamento sulle spalle e sentirmi addosso questa responsabilità grave e dolcissima e io lo so, lo so già adesso e lo saprò per sempre, fin quando avrò ottant’anni, che questi giorni di attesa e poi la partita di domenica, tutto insieme, questa cosa qui è una cosa che uno potrebbe anche non conoscerla mai nella vita e si chiama felicità.
La settimana è interminabile. Il mister decide per tre allenamenti invece dei soliti due. A scuola faccio l’ultimo compito dell’anno di scienze e è buono il pane se prendo sei. I giornali scrivono ancora del terremoto di qualche settimana fa in centro Italia e dell’incontro tra Pertini e il Papa e del gol di Boniek in Coppa delle Coppe.
Poi arriva domenica, finalmente. Vado a piedi al campo, che si trova qualche centinaio di metri oltre le ultime case della città. Da una finestra esce della musica, la canzone nuova di Fiordaliso, “Non voglio mica la luna”. Ma io invece sì. Ha appena finito di piovere. Intorno l’erba è alta e il verde scoppia nella pianura, come piselli crudi dentro un piatto.
Nello spogliatoio neanche si può entrare, per la calca di persone che sono venute a salutare e incitare e dire la loro. Ultimo è stato il presidente. Fa un bel discorso, come un padre. E’ un brav’uomo. Qui siamo tutti volontari. Appassionati. Lui però c’ha una piccola azienda e qualche possibilità. Nessuno ha bisogno di soldi, oggi, per dare il massimo. Ma lui li mette lo stesso. Centomila lire a testa di premio, se giocate col cuore. Così. Non se vincete. Se giocate col cuore. Usciamo in tuta, per il riscaldamento. Gli spogliatoi sono in un cortile. Per arrivare al campo c’è un corridoio fra due reti metalliche, una ventina di metri di lunghezza per tre di larghezza. Siamo accolti da un boato. I ragazzini sono i più svelti di tutti e si accalcano contro la rete. Qualche mese fa ero uno di loro. Ovunque la gente urla, ansima, sventola le bandiere, suona le trombette. Noi siamo ancora tranquilli. Solito stretching, corsetta leggera, qualche scatto, un torello. Poi rientriamo. L’ultima cosa che indossi è la maglia. La gloriosa maglia verde, con lo stemma rotondo della rana. L’arbitro fa l’appello, saluta e se ne va. Adesso siamo solo noi. Non vola una mosca. Il mister ci guarda negli occhi, uno ad uno. Conto su di te. Tutti in piedi. Si esce. Arriviamo a centrocampo, salutiamo il pubblico e ci stringiamo la mano con gli avversari. Cenno di assenso ai portieri. Poi il fischio d’inizio, che scivola nell’aria come una sciabola sguainata. E non c’è più niente. Rumore, tensione, vento, caldo, freddo. Niente. Solo la partita.
Non ve la starò a raccontare tutta, che ancora oggi potete venire a Sant’Agabio e a chiunque abbia più di quarant’anni e sia del posto, potete chiederglielo, di quel giorno là. E vi dirà che se lo ricorda. E dov’era. E con chi era. E cos’ha fatto poi. Vi parlerò invece, questo sì, dell’ottantaquattresimo minuto. Il trentanovesimo del secondo tempo.Che il prima e il dopo, l’emozione e la fatica, spariscono, di fronte alla grazia. La partita è dura, spigolosa. Ogni palla è contesa, ogni entrata decisa. Sei minuti alla fine. Ancora zero a zero. La nostra ala sinistra riceve un passaggio alla trequarti, parte dritto e improvvisamente stringe al centro. Un dribbling, poi un secondo ed è messa giù. Punizione dal limite. Il difensore sa che ci sta tutta, ma fulmina l’arbitro con lo sguardo. Fiato per reclamare non ce n’è quasi più. Palla da collocare appena fuori dell’area, leggermente scentrata a destra. Io sono sulla linea di metà campo. Ci sono altri due specialisti in squadra, più anziani di me. Ma il mister urla il mio nome. Vado verso il pallone piano, a passi ampi e regolari, per riprendere fiato. E di lontano comincio a guardarlo. Perché tu lo devi prima accarezzare con gli occhi, quel triangolo inesistente, all’incrocio dei pali. Lo devi desiderare. I preparativi intorno si svolgono come di consueto, con la barriera che avanza e arretra e avanza e l’arbitro che raccomanda e minaccia e la palla sistemata con cura su una zolla di terra buona. Ma ogni cosa è contorno e sparisce e tu devi concentrarti con gli occhi e le gambe solo verso quel punto. Perché quel tiro è nella memoria degli occhi e delle gambe. Quel tiro è diverso e uguale a mille e mille che conosci e che hai provato ai giardinetti, nel cortile di casa, nel campetto del quartiere. Quel tiro l’hai già fatto, appena più in qua o più in là, qualche centimetro, tutto o niente. Adesso basta ripeterlo. Prendo la rincorsa, quella sì sempre uguale. Un saltello e tre passi. E colpisco col mezzo interno del piede, tagliando diagonalmente il pallone dal basso in alto per imprimere una rotazione antioraria, per disegnare una parabola perfetta. Anche il portiere, naturalmente, sa. Sa che di tutta la maledetta enorme area della porta, io mirerò là. Per questo ha disposto una barriera di cinque giocatori e i giocatori salteranno insieme al momento del calcio, un salto sufficiente ad intercettare qualunque tiro. Perciò chi conosca i rudimenti della geometria vi dirà che non c’è retta al mondo che possa partire dal punto in cui è sistemata la palla, superare anche di un solo centimetro l’altezza della barriera e finire sotto la traversa. Nossignori. Impossibile. Così il portiere, con tutto quello che sa, non coprirà quell’angolo in alto. Perchè confida nella barriera e nella geometria. E perché lui ha in consegna una porta intera. E ovunque subisse gol gli si darebbe colpa, mentre se la palla finisce là, bè, tutti s’inchinano alla classe dell’attaccante e alle divine traiettorie.
Per me, so che sarà gol l’istante esatto in cui colpisco. Non un attimo dopo. E quel tempo brevissimo, quella frazione di secondo fra la certezza del gol e l’ingresso della palla in rete, quel tempo brevissimo mi appartiene. E’ il tempo della mia infanzia, è la memoria dei piccoli trionfi e delle prime sconfitte, è il profumo dell’erba tagliata, a fine agosto, quando ricomincia la preparazione, è il fango appiccicato alla maglia in certe domeniche d’inverno, le gambe dure del lunedì mattina. E, naturalmente, non vedo la palla finire in rete. Non riesco a guardarla quasi mai, fin dentro la rete. E tu se ci pensi ti dici che stupido, non l’ho quasi neanche vista entrare, la prossima volta… E invece questa gioia è acuta come il dolore, irresistibile, capisci che la palla andrà dentro e qualcosa ti porta via, ti fa distogliere lo sguardo e correre, correre verso gli altri. Perché un gol è troppo, per un uomo solo.