Premio Racconti nella Rete 2013 “Ricordo” di Federica Politi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Non riesco a dormire. Non riesco a chiudere occhio. La camerata è avvolta nella penombra. Sento indistintamente ogni molla del materasso. Mi giro e mi rigiro facendo cigolare la rete. Un suono stridulo, che penetra nella mente. Sento freddo. Le coperte non bastano. Le lenzuola hanno un odore forte, di disinfettante. Nell’aria un rumore, come un lamento, come una nenia antica. Odore di corpi stanchi, sudati, abbandonati. Nel letto vicino sento russare. Le coperte si alzano e s’abbassano nel tempo di un respiro.
Mi siedo. Mi guardo intorno. Tutto sembra tranquillo. Decido d’alzarmi. È una cosa proibita. La faccio ugualmente, attenta a non far rumore. Cammino lentamente tra i letti. Guardo a destra. A sinistra. È tutto così tranquillo. La notte mette tutto a tacere e stende un velo di normalità sulla follia. M’avvicino alla finestra. Ci sono le sbarre: grandi inferriate bianche. Con la punta delle dita sfioro il vetro. È freddo. È liscio. Guardo in alto. Sopra i tetti. Il cielo è nero. La luna è uno spicchio splendente. Lontana. Incompleta. Irraggiungibile, come la realtà, ora che devo vivere in questo non-mondo fatto di urla e di deliri. Continuo a guardare fuori. Il freddo penetra sempre più in profondità. Attraversa ogni strato di pelle, s’insinua nelle vene e si lascia trasportare dal sangue verso ogni organo: lo stomaco, il fegato, l’intestino, i polmoni, il cervello, il cuore. È tutto congelato dentro di me e il vuoto si spande assorbendo ogni cellula. Mi stringo nel lungo camicione che indosso. Non importa. È da tempo che ho smesso di sentirmi viva. Sopravvivo, senza sapere come. Un unico desiderio: morire.
Torno a guardare il cielo nero, lo spicchio di luna splendente e poi chiudo gli occhi. Hanno provato a cancellare la mia memoria. Non ci sono riusciti.
Ricordo. La festa del santo patrono. La chiesa piena di gente. Colletti inamidati, gonne a pieghe, scarpe consumate ma ben lucidate. Il fumo delle candele e dell’incenso. Il segno della pace. Il segno della croce.
Ricordo. Le chiacchiere fuori dalla chiesa tra conoscenti, gli abbracci tra parenti, lo sguardo complice tra amiche. Qualche dolce fatto in casa. Un bicchiere di vino. Sopra a tutto, in agguato, la paura della guerra.
Ricordo. Occhi neri. Uno sguardo impertinente fisso su di me. Una faccia sconosciuta. Riccioli scuri. Labbra carnose. Denti bianchi. I pettegolezzi della gente. Un sorriso che s’avvicina. La sua mano che sfiora la mia. Lui che scompare sulla collina, tra le piante cariche di olive. Niente è più stato come prima.
Ricordo. Il capanno umido. La coperta bucata stesa sul fieno. Le sue labbra sulle mie. Le sue mani a sfiorare la mia pelle. Il suo respiro affannato tra le pieghe del mio collo. Il suo corpo sopra il mio. L’ansia, la paura, il desiderio, il piacere.
Ricordo. Ogni singola notte. Ogni singola ora passata tra le sue braccia. Ogni singolo minuto trascorso nella paura d’essere scoperti. L’odore della sua pelle. Il profilo del suo volto illuminato dalla luce tremolante di una candela. Il battito del suo cuore esplodermi in pieno petto.
Ricordo. L’esatto momento in cui ho avuto la certezza di aspettare un figlio. Un figlio suo. Un figlio nostro. Il panico. L’angoscia. La necessità di vederlo, di parlargli, di perdermi tra le sue braccia e sentirmi dire che tutto andrà bene, che la guerra finirà presto e che noi vivremo felici e contenti. Come nelle fiabe. Le fiabe sono solo menzogne, però.
Ricordo. La corsa tra l’erba alta. Il sentiero che sale e sembra non finire mai. Il sole che tramonta alle mie spalle. Io che m’arrampico incurante dell’oscurità che avanza. Il cuore pieno di speranza. Un profondo silenzio interrotto solo dal verso di un animale. Forse un cinghiale. Ma io non ho paura. Corro veloce incontro all’amore. Al futuro.
Ricordo. Un rumore di spari. Tre. Forse quattro. Provengono da lontano. Non riesco a capire, l’eco di ogni esplosione s’amplifica svariate volte lungo il pendio fino a spegnersi sul fondo della valle. Corro più veloce. Mi si spezza il fiato. Voglio essere tra le sue braccia. Subito. Voglio sentirmi al sicuro.
Ricordo. Le fiamme alte avvolgere il capanno. Il crepitio del fuoco si fa sempre più assordante. Ho paura. Grido. Ho paura. Non so che fare. Ho paura. Mi muovo. Ho paura. Aggiro l’incendio. Ho sempre più paura. Quello che vedo finisce per spazzare via ogni speranza, finisce per annientare ogni sogno, la sostanza stessa di cui sono fatta.
Ricordo. Il suo corpo penzolare ondeggiando nel vuoto insieme agli altri. La testa appesa ad una corda. La faccia gonfia. Gli occhi fuori dalle orbite. Niente più sorrisi. Niente baci. Niente carezze. Niente abbracci. Solo un ghigno di morte a deformare il suo volto.
Ricordo. Un urlo disumano che lacera ogni fibra del mio corpo, che azzera ogni battito del cuore, che annulla ogni pensiero. La disperazione e le lacrime. Niente sarà più come prima. Di nuovo.
Ricordo. E’ stato un attimo. Non ho dovuto maturare una decisione. Un’unica certezza ha preso il posto dei sogni. Non avevo più paura. Volevo che tutto finisse. Volevo che il mio cuore smettesse di sanguinare. Ho camminato e camminato fino a che non ho trovato l’abisso ai miei piedi. Le mani strette al grembo. Un passo nel vuoto. Poi non ricordo più nulla.
Apro gli occhi. Torno a guardare in alto, verso il cielo nero. Con le mani cerco il mio ventre. È vuoto. Le nuvole sono passate. Aspetto di tornare ad ammirare la luna ma quello che vedo mi spaventa: la sua faccia pallida, gonfia, la bocca spalancata in una smorfia di dolore, i suoi occhi esanimi fissi su di me. Comincio a gridare sempre più forte. Mi strappo i capelli. Picchio i palmi contro i vetri della finestra che vanno in frantumi.
Non le sento arrivare. Sono in due. Mi prendono con la forza e mi portano via. Mi dicono di stare calma. Io continuo ad urlare. Sono molto più forti di me. Hanno robuste braccia da contadine. Mi dibatto ferocemente mentre mi trascinano. Sbatto i piedi. Tiro calci. Urlo ancora più forte. Attraversiamo un lungo corridoio sul quale s’affacciano numerose finestre. La sua faccia si staglia sempre più nitida nell’oscurità della notte. Grido ancora più forte. Impreco contro la sorte. Mi maledico. Maledico il mondo. Maledico la sorte.
Le infermiere si fermano. Con un gesto brusco mi spogliano. Continuo a dibattermi. Mi spingono dentro una stanza e una porta si chiude alle mie spalle. Picchio i pugni contro ogni parete. Mi guardo attorno. Non c’è niente. Solo una piccola finestra in alto. In un angolo vedo un mucchio di paglia. Mi ci butto. La strappo. La lancio in ogni direzione. Continuo ad urlare. Urlo sempre più forte. Picchio la testa contro i muri, contro il pavimento. Ripetutamente.
Sono esausta. Mi siedo. Mi sdraio. Mi avvolgo in quello che potrebbe sembrare fieno, ma ha un odore diverso. I minuti passano lenti. Riesco a calmarmi. Affondo il viso in quella paglia. Per un breve istante mi sembra di essere nel capanno, tra le sue braccia. Una lacrima scivola veloce lungo il viso. Chiudo gli occhi.
Racconto ad immagini, lo vedrei bene anche come corto.Interessante il modo in cui scrivi,sintetico, descrittivo e nello stesso tempo emozionante.Mi piace!
Grazie !!!!
…povera ragazza…ho toccato con mano il suo dolore, ho sentito l’odore del fumo, ho percepito l’orrore attraverso i suoi occhi. Tristissimi ricordi in un racconto emozionante. Brava!!
Grazie grazie!!!!
Un’Idea originale e lo stile fa si’ che si arrivi alla fine tutto d’un fiato.
Bello
Grazie !!!
Una storia intensa che, a mio modesto parere, renderebbe moltissimo se fosse meno “descrittiva” e meno sintetica, per un pochino va bene questo stile freddo ma a lingo andare mi ha stancato ed è un peccato perché l’autrice ha la stoffa per fare di più. In bocca al lupo per il concorso!