Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Il primo bacio” di Michele Marianucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Viaggiavo insieme ai miei sedici anni sul motorino a tutto gas.

Guidavo il mitico “Ciao” della Piaggio, un ciclomotore esile rispetto quelli che ci sono adesso, inoltre la massima velocità era di circa  40 km/h, ma era un mezzo che non si fermava mai. Funzionava anche senza carburante perché era provvisto di pedali.

Era lo scooter tipico di ogni adolescente. Infatti, proprio come ogni adolescente non si notava più di tanto confondendosi in mezzo alle moto blasonate, ma allo stesso tempo arrivava sempre alla meta in un modo o nell’altro. Aveva la forza tipica dell’adolescente che con la sua poca esperienza ha però la volontà di cambiare il mondo.

Alcuni miei amici con il Ciao sono andati da Livorno a Berlino senza problemi. Io invece mi muovevo sempre intorno al mio paese ed al massimo andavo alle Spiagge Bianche, conosciute dappertutto perché la soda prodotta dallo stabilimento del paese ha schiarito la spiaggia ed il mare antistante, rendendo la sabbia di un colore completamente bianco che ricorda  molto il mare dei tropici. Perciò durante le belle giornate di agosto in quello scorcio di spiaggia, si sta tutti attaccati come fossimo a Rimini.

Ed in mezzo a tutta quella gente viene da pensare che proprio quel fazzoletto di mare possa in qualche modo cambiare un pomeriggio così che il racconto della vita possa davvero, cominciare le sue prime parole incrociandole con quelle degli altri, anche se le mie, spesso, erano fuori dal coro di un piccolo paese dove tutti fanno quello che gli altri hanno già fatto. Così, a metà strada tra cambiare il mondo e le cose che tutti facevano avevo individuato il mio naturale sfogo e la mia voglia di comunicare nella musica. Più precisamente nel pianoforte che, intorno ai quindici anni, avevo deciso che sarebbe stato il mezzo con il quale avrei voluto esprimermi e parlare alle persone.

Proprio di fronte alla Scuola di Musica del mio paese, immediatamente dall’altro lato della strada, c’era il Liceo scientifico. Bastava infatti attraversare le carreggiate ed oltrepassare due grandi platani che, durante l’inverno senza foglie sembravano due vecchi un po’ storpi appoggiati alla panchina lì vicino, sempre stinta ma allo stesso tempo sempre piena di colore per le espressioni colorite che pronunciavano i ragazzi che spesso vi si sedevano. Subito dopo, imponente, nel suo stile vagamente neoclassico si mostrava la facciata del Liceo, verniciata a chiazze di giallo scuro e perennemente addobbata di graffiti e scritte. Un piccolo giardino inghiaiato preludeva ai cinque gradini della larga scalinata che conduceva al portone d’ingresso. Seduti, sui gradini il tardo pomeriggio c’erano spesso mille volti, alcuni sorrisi, qualche risata sguaiata, tanti occhi che cercavano altri occhi o che invece si abbassavano quando lo sguardo di chi cercavano si posava su di loro.

Da un po’ di tempo perciò con alcuni mie compagni di corso alla fine delle lezioni di pianoforte attraversavamo volentieri la strada e ci intrufolavamo nel giardino del liceo, provando a mescolarci ai vari gruppi di ragazzi che formavano la vera vegetazione di quel terreno inghiaiato, diversamente dai due platani spelacchiati probabilmente abbandonati a loro stessi da anni.

 

Sera dopo sera facemmo amicizia con un gruppo che parlava sì di musica, ma di musica underground suonata con la chitarra a manetta e la batteria in evidenza a dare il ritmo “alla vita vera, fatta di immediatezza e vissuta senza ipocrisie”, dicevano loro.

In quel gruppo, in mezzo a discorsi urlati e qualche bestemmia dissonante c’era Monica. Per lei avrei suonato tutto il “Clavicembalo ben temperato” di Bach, che proprio non riuscivo a digerire.

Monica era sempre vestita in modo curato, attenta ad ogni particolare e mi sembrava che stonasse in quel contesto di persone caciarone e confusionarie. Probabilmente ero io ad apparirle stonato ma mi chiedevo comunque come potesse avere degli amici così lontani da lei. O forse, era lei troppo lontana da me. Viveva un altro mondo, ascoltava un’altra musica. Ricordo che spesso, si sedeva con le gambe completamente distese su di un gradino e con una penna cominciava a scrivere sui suoi jeans le frasi delle canzoni che più le piacevano. Sì … era troppo differente da me e poi era troppo carina. Sembrava incartata dai vestiti in quel suo corpo piuttosto formoso, in quell’età che incomincia a svilupparsi e si evidenziano maggiormente le rotondità piacevoli.  Lei inoltre amava esibirle ma senza strafare.  Sempre in modo gradevole, carino  e mai buttato lì a caso.

Monica mi piaceva per il suo aspetto fisico, ma anche per il suo modo di fare che la rendeva irraggiungibile, consapevole di essere carina, da persona più grande della sua età e più disinibita delle altre. 

O perlomeno così appariva ai miei occhi, magari solo perché la maglia aderente le scolpiva il seno e gli ampi capezzoli delicatamente sporgenti e lei non se ne curava affatto. Oppure perché aveva le labbra sempre perfette, neanche minimamente rigate da una screpolatura quando tirava il vento di tramontana ed il cielo era così limpido che dialogava con gli occhi di Monica delineati da un sottile filo di trucco che scompariva di fronte al verde deciso e intelligente delle sue pupille. Avevo saputo che era la prima della classe e non avevo fatto fatica a crederlo. Infatti avevo capito che la sua testa era bella almeno quanto il suo fisico. Perciò nonostante tutte le mie titubanze ed il suo mondo così lontano dal mio, una sera di febbraio, quando faceva meno freddo del solito e cominciavano ad allungare le giornate, Monica, mostrando per la prima volta interesse verso di me, mi chiese dei miei studi musicali ed io, in risposta tirai fuori dalla sacca dello scooter una musicassetta.

Era una cassetta con dei brani di musica classica che avevo registrato suonandoli al mio pianoforte, immaginando proprio di farli ascoltare a Monica.  Lei accettò con entusiasmo il mio regalo e curiosa di leggere quello che avevo scritto sulla copertina, ovvero i titoli dei brani, si avvicinò sedendosi sulla parte posteriore del mio motorino al contrario di come ero seduto io, ed appoggiò la sua schiena alla mia. Sentivo il peso del suo corpo che, anche se mi muovevo leggermente, seguiva con la schiena il mio rimanendovi completamente appoggiato. Come se, per stare in equilibrio in quel frangente, dovesse per forza appoggiarsi a me. Come a dirmi che lei c’era perché c’ero anch’io. E respirava forte, lentamente ma con impeto, quasi a farmi sentire i suoi respiri perché potessi respirare assieme a lei.

 

Leggeva i titoli e mi chiedeva chi fosse l’autore: lo faceva apposta per farmi parlare.

Io che non la vedevo, riuscivo a percepire le sue parole ancora meglio che se avessi letto dalle sue labbra, perché la sua voce mi entrava dentro dalla schiena e, come un brusio, una specie di solletico piacevole mi attraversava e rimaneva dentro di me.

Ricordo ancora il peso della sua schiena sulla mia, che provava a sua volta a rilassarsi per godere appieno di quella sensazione nuova, di “esistere” per qualcuno, che se allungavo il braccio potevo trovare il suo, perché lei era lì.  

Quel suo gesto, l’appoggiarsi fisicamente a me, e rimanendolo anche se io mi muovevo leggermente, fu per me una cosa nuova ed importante.  Qualcosa che mi prendeva dentro e mi rendeva euforico ma anche tranquillo e sicuro di fronte alle poche nubi all’orizzonte che scurivano il giorno che diventava sera. 

Mi sentii, per la prima volta, importante per una ragazza. Una ragazza che oltretutto mi piaceva, e molto.

In quei minuti che il suo giacchetto di lana spessa con inserti di molti colori si spalmava sulla mia giacca a vento un po’ anonima, mi sembrava che i nostri due mondi diversi come il nostro abbigliamento, entrassero finalmente in comunicazione anche se Monica ed io non dicevamo niente l’uno all’altra.

Sentivo il suo collo sulla mia schiena che si allungava gettando la testa all’indietro. Immaginavo che guardasse su, che vedesse il cielo e mi disegnasse nella sua mente. Lentamente sentii il suo volto girarsi di lato così che anch’io mi voltai all’indietro verso di lei, scostando la mia schiena dalla sua e regalando il tepore accumulato a quell’aria tagliente che ci circondava. Vidi, allora, i suoi occhi grandi spalancati come a voler dire mille cose tutte insieme. Abbracciai il mondo con lo sguardo e mentre con una mano tenevo l’Australia e con l’altra sfioravo il Sud America e Capo Horn, vidi le sue labbra con un velo di rossetto pronunciato, che prima non avevo notato. Vidi una ragazza che cercava un ragazzo. Si avvicinò ancora: le sue labbra si appiccicarono alle mie comprimendo leggermente la mia mascella dopodiché si dischiusero un poco insieme ai suoi occhi. Era bello che le nostre labbra si muovessero all’unisono, compresse non troppo per poi poterle ricomprimere.

Non era un sogno ma era qualcosa che ti porta via come un sogno ma che, al tempo stesso ti tiene sveglio, perché la realtà è ancora più bella.

Arrivai a casa trafelato ed euforico. Pensavo che era finito il tempo di immaginare ma intanto continuavo a pensare a quel bacio.

A casa c’era mia cugina che da un po’ non veniva a trovarci. Mi chiese dei mie studi al Conservatorio, dei miei prossimi esami: Storia della musica, Armonia … Ma quali esami! Io pensavo a quegli occhi infiniti, a quelle labbra delicate e forti. La Storia della Musica, in quel caso, poteva aspettare. Ovviamente mia madre mi sgridò per la poca attenzione prestata a mia cugina. Ma io dovevo pensare a quello che era successo. Rivedere e rivivere dentro di me  quel bacio dieci, cento, mille volte. Volevo riviverlo e rivederlo insieme alle case e alle strade a quell’ora quasi deserte del mio paese che, stranamente, mi appariva differente dal solito, più vivibile, sopportabile se non addirittura da essere contento di abitare lì.

Così presi di nuovo il motorino e me ne uscii a gironzolare, a far compagnia, con la mia euforia che rimbalzava nel tubo di scappamento dello scooter quando davo un’accelerata girando veloce la manopola del gas, ai negozianti che tiravano giù le serrande perché, ormai, la giornata era finita. Non per me.

Mi diressi verso le mitiche “Spiagge Bianche” mentre ormai si era fatta notte. Notai la luna che, specchiandosi sulle poche onde calme del mare illuminava l’acqua di bianco e, per la prima volta, mi  accorsi che non solo le spiagge ma anche l’acqua lì era bianca e limpida. Mi accorsi che la mia voglia di cambiare il mondo diventava piccola se non l’avessi condivisa con qualcuno che di quel mondo me ne avesse fatta scoprire l’altra parte.

Forse Monica con quel suo bacio mi aveva aperto gli occhi proprio mentre li chiudevo per volare sulle sue labbra. Forse quello che non ci piace fuori è semplicemente quello che abbiamo dentro. Forse quei due platani spelacchiati un tempo si erano baciati, perciò erano rimasti lì ed intorno a loro era stato costruito il paese, perché loro erano il paese. Perché Monica ed io eravamo le Spiagge Bianche quando si sta stretti stretti come fossimo a Rimini con tutta la gente intorno, ma anche di notte quando la luna schiarisce l’acqua più della sabbia.  E quella giornata che stava andandosene la cui alba cominciava a schiarire il cielo nero della notte mi lasciava pensare che ad ogni tramonto e ad ogni alba successive avrei avuto dentro di me la sensazione, pur scappando spesso da una città per rincorrerne un’altra, che non è fuggendo da un posto che si cambia la propria vita ma forse è rimanendo con la persona giusta che la vita può cambiare.

 

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