Premio Racconti nella Rete 2013 “Storia di un Sacchetto” di Alessandro Vita
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013C’era un bel cumulo di rifiuti, una montagnola ben scolpita di lattine accartocciate, sacchi di plastica gonfi da far schifo, di carte, cartoni, televisioni, sedie, frigoriferi; insomma, una sorta di “best of” dello sperpero umano. Ai lati di quel sudiciume, lamiere di metallo contorte e cocci di vetro brillavano colpiti dalla luce giallognola del primo mattino.
Sotto la collinetta, invece, inebriato dal fetore della discarica, si era assiepato un crocchio variegato di carabinieri, vigili del fuoco, curiosi e fancazzisti d’ogni età e religione. Tra loro spiccava la sagoma della signora Filomena, una donna un po’ pienotta, di mezz’età, il cui temperamento combattivo l’aveva resa famosa tra i colleghi dell’assistenza sociale con l’appellativo di miss caldaia rovente.
I presenti, comunque, erano tutti con il naso all’insù. Tutti tranne un vecchietto con la schiena ricurva, che data la gobba non riusciva a sollevare il collo di un millimetro.
“Che succede?” squittì il poveretto. Ma gli altri lo zittirono subito.
In alto, dove tutti gli sguardi si condensavano, dove il mucchio di rifiuti si appianava, stava comodamente seduto un piccolo bambino cicciotto.
La signora Filomena si riempì gli enormi polmoni con una bella boccata d’aria. Poi si fece avanti e con la sua voce squarciò a metà uno stormo di cornacchie.
“Ehi, bambino, che cosa ci fai lassù! Non lo sai che è pericoloso?”
Il bimbo non sembrò preoccuparsene e continuò ad armeggiare con le mani scavandosi un buco tra le gambette che teneva aperte a forma di v.
“Dico a te, bambino,” tuonò Filomena, “come ti chiami?”
Il piccolo si voltò verso la donna e mostrò un bel viso pieno e insudiciato a dovere. Era un bambino strano; indosso portava una maglia a righe orizzontali bianche e nere tutta ricoperta di croste di fango essiccato, più sotto i salsicciotti che aveva al posto delle gambe erano rinchiusi in un paio di jeans legati stretti al panciotto con un po’ di spago da imballaggio, e infine, in testa, spiccava un berretto di lana azzurro con un piccolo pompon arancione.
“Allora?” fece spazientita Filomena. “Qual è il tuo nome?”
“Sacchetto,” disse il bambino.
“Cosa?”
“Sacchetto,” replicò il bimbo, innervosito.
Filomena titubò un attimo, guardò negli occhi uno degli ufficiali dei carabinieri. “Senta,” chiese all’uomo, “da quanto tempo è lassù il poveretto?”
“Non lo sappiamo con certezza, ma almeno un paio d’ore,” fu la risposta.
“E si può sapere perché non l’avete ancora tirato giù?”
“I vigili del fuoco ci hanno provato ma il bambino minaccia di lasciarsi rotolare giù dal cumulo se solo proviamo ad avvicinarci. Non possiamo rischiare, ha visto quanti pezzi di vetro ci sono lì intorno? E le lamiere? Se rotola giù è finita.”
“Ma come ha fatto ad arrivare in cima?” fece Filomena, dubbiosa.
“Crediamo si sia arrampicato,” rispose pulito l’ufficiale.
“E di grazia, sa dirmi il perché di questo gesto?”
“No.”
Filomena tornò a fissare il bimbo.
“Allora ti chiami Sacchetto, giusto? È un bel nome, sicuramente originale. Senti, Sacchetto, ti va di dirmi che cosa ci fai lassù?”
“Scavo.”
“Bravissimo, ma perché?”
“Perché cerco la mamma.”
Tra folla di curiosi strisciò un mormorio invadente, fastidioso. L’ufficiale fece segno di calmarsi.
“La cerchi nei rifiuti, tesoro?” fece Filomena, addolcendo il tono di voce.
“Sì,” rispose il piccolo, “è qui, perché… perché lei si nasconde sotto il cartone quando fa freddo. Io anche, perché fa freddo, e allora oggi non l’ho vista, però sapevo che stava qua perché cercava un regalo per il mio compleanno.”
“Il tuo compleanno?”
“Sì. Ho otto adesso.”
“Otto anni volevi dire?” chiese Filomena.
“Sì, così,” disse il piccolo, che poi fece segno con le mani, ma invece di alzare otto dita ne alzò solo sei.
“Quelle sono sei.”
“No, otto.”
“Va bene, non importa,” mormorò Filomena, scuotendo la chioma bionda. “Come si chiama la mamma?”
“Agata.”
“Cognome?”
“Cos’è un cognome?”
“Eh, sai, c’è il nome e poi quello che viene dopo. Agata e poi…”
“Ah, ho capito!” esclamò il bambino, “Agata la stracciona, credo. Sì sì, la chiamano così gli altri barboni.”
Filomena ebbe un sussulto: che Sacchetto fosse figlio di una senzatetto? ma com’è possibile?
“Se ti fai raggiungere ti aiutiamo noi a cercarla,” soggiunse la donna.
“No,” fece perentorio il bimbo, “perché la mamma ha paura di quelli che hanno la divisa e allora non viene fuori se vi vede.”
“E se vengo su io? Non ho la divisa io. Posso anche…”
“Fermi tutti!” gridò il bambino all’improvviso. Poi tese di scatto un braccino verso la folla: il palmo della mano era aperto, cicciotto e immobile. Tutti erano in silenzio ora, attoniti. I carabinieri allungarono il collo per scrutare cosa stesse facendo il piccolo, un vigile del fuoco si levò il casco e si grattò la crapa pelata, il vecchietto che non poteva alzare la testa tirò per la manica la signorina che aveva accanto e la implorò di descrivergli la scena. Erano tutti soggiogati da un bambino di otto anni, forse sei. Tutti tranne Filomena che urlò preoccupata: “Qual è il problema, Sacchetto?”
“Silenzio, signora grassa, silenzio,” impose il piccolo.
Filomena ribollì di rabbia. Qualcuno alle sue spalle non riuscì a trattenere le risa.
“Devo allacciarmi la scarpa,” spiegò Sacchetto, “è slacciata. La mamma dice sempre che non va bene andare in giro con la scarpa slacciata, perché poi la perdo e allora il piedino prende freddo e mi ammalo, e non si trovano le scarpe della mia misura nella spazzatura, e allora devo allacciare, sempre allacciare le scarpe.”
Dopo un po’ il bimbo disse: “Fatto.” E ricominciò a ravanare nell’immondizia.
Filomena in quel momento ce l’aveva a morte con il piccolo Sacchetto: come s’era permesso di chiamarla signora grassa? Quale ardire! A un certo punto sbuffò e disse a uno degli ufficiali: “Tenetelo d’occhio, e cercate di convincerlo a scendere. Io andrò in giro a chiedere ai senzatetto della zona di sua madre; non si sa mai che la trovo e sistemiamo la faccenda.”
E così Filomena si fiondò per le strade a interrogare ad uno ad uno i senzatetto che incrociava. Domandava di Agata, di Sacchetto, ma nessuno pareva saperne niente. Chiedi e richiedi, alla fine pescò qualcuno che riconobbe il nome di Sacchetto.
“Ti posso aiutare,” disse l’uomo cencioso e accartocciato al ciglio della strada.
“Davvero? Sai dirmi dov’è la madre di Sacchetto?” chiese Filomena, incredula.
“Come no, ti aiuterò. Basta che mi dai un po’ di grana.”
“Tieni,” disse Filomena, allungandogli cinque euro.
L’uomo la guardò schifato e ruggì: “Devi andare dal vecchio Giò.”
“Cosa?”
“Vai dal vecchio Giò, alla fine di ‘sta strada, dopo la curva.”
“Tutto qui?”
“Mi hai dato cinque euro sono io quello che dovrebbe dire tutto qui! Fila!”
Filomena si strinse nelle spalle e sgattaiolò via senza farselo ripetere due volte. Arrivata in fondo al viale girò l’angolo e si trovò faccia a faccia con un anziano senzatetto pelle e ossa. Aveva il viso che pareva schiacciato, come se fosse più largo che alto; la mandibola era tutta ricoperta da una fitta barba grigia che si arrampicava fino a metà guancia, dopodiché la pelle era rossastra, quasi livida. Gli occhi erano piccoli e simpatici, ma di un bianco spento e lucido. Lì vicino a lui si dipanava un odore terribile di urina e alcolici.
“Il vecchio Giò?” chiese timida Filomena.
“Vecchio?” sbottò il vecchio.
“No, aspetti, non volevo offenderla,” si scusò la donna, “pensavo che vecchio fosse una specie di soprannome, una cosa così insomma.”
“Nessuna offesa bel bocconcino di manzo, è solo che sono sordo come una campana; sa, forse non si vede, ma sono vecchio.”
“Bocconcino di cosa?” balbettò Filomena.
“Eh?”
“Lei ha detto…”
“Io non ho detto un bel niente. Lei piuttosto, che vuole da me? Vuole sganciarmi qualche soldo per favore?”
“No, senta, volevo sapere: lei conosce Sacchetto?”
“Certo! E che diamine. Chi non conosce sacchetto,” disse il vecchio Giò, voltandosi e indicando dietro di sé. “Allora in magazzino abbiamo: sacchetto di plastica, cartone, carta leggera, carta riciclata, tela, stoffa; sacchetti pieni di piscio, sacchetti pieni di…”
“No un momento, io mi riferisco a un bambino che si chiama Sacchetto!”
“Un bambino che si chiama Sacchetto? Ma è da folli! Solo quella beota di Agata potrebbe chiamare un bambino in quel modo!”
“Allora lo conosce!”
“Certo! E che diamine. Chi non conosce Sacchetto.”
“Mi prende in giro?”
“Affatto,” fece il vecchio Giò, ruminando come una capra.
“Senta, ho bisogno di trovare sua madre, è urgente,” spiegò Filomena.
“Agata non c’è. Se le deve dei soldi può darli a me; farò in modo che li riceva.”
“Non si tratta di soldi.”
“Allora mi ascolti bene signora delle linee avvenenti, io sto lavorando, se lei mi sta davanti e mi blocca la visuale la gente non vede quanto stia male e così non molla i quattrini. Ora, le soluzioni sono due, o se ne va, oppure mi paga l’intera giornata lavorativa.”
“Al diavolo, quanto vuoi?”
“Cinquanta euro.”
“Quanto?” strillò Filomena, con voce acutissima.
“È la tariffa standard,” spiegò sereno il vecchio.
“E va bene, tenga,” disse la donna, posandogli la banconota in mano. “Adesso mi dica dov’è Agata però.”
“Chi?”
“Agata, la madre di Sacchetto!”
“Ah, sì sì, giusto,” fece il vecchio, “Agata è stata arrestata.”
“Arrestata?”
L’uomo sospirò, e di colpo si fece serio. Masticò qualcosa in bocca, e poi abbassò lo sguardo.
“È una storia triste,” disse, sorseggiando un liquido vermiglio da una bottiglia.
“Una storia davvero triste,” ripeté. “Deve sapere, signora, che ogni tanto Agata portava Sacchetto al parco; in uno di quei giorni il bambino aveva visto un ragazzino andare in bicicletta, così s’era messo in testa di volerne una anche lui. Il compleanno di Sacchetto si avvicinava, e Agata andò alla ricerca di una bici da regalargli. Aveva girato tutte le discariche della città, più volte, ma al moccioso non portò che un paio di rotelle di diversa grandezza e un campanello ammaccato. Qualche giorno fa camminavo qua dietro, vicino alla discarica, e per caso vidi una bicicletta delle dimensioni giuste per Sacchetto; era un po’ arrugginita, aveva il manubrio storto, le ruote a terra, ma tutto sommato non si poteva trovare di meglio, così corsi da Agata e l’avvisai. Lei si precipitò in discarica e prese la bici, ma non tornò più indietro. Uno degli addetti alla discarica la beccò e chiamò la polizia che la portò via per furto. Era già stata pizzicata altre volte ma bene o male l’aveva sempre scampata; quel giorno, però, non la perdonarono.”
“E dove hanno portato Agata?” chiese Filomena. “Suo figlio…”
“Non è suo figlio,” fece il vecchio.
“Come sarebbe?”
“Sa, signora, noi barboni si vive un po’ alla come viene. Ciò che per la gente è inutile, sgradito, superfluo, per noi può diventare oro, alle volte anche molto di più. Un giorno frughi nel cestino e ci trovi dentro un mezzo panino al prosciutto, e un giorno apri un cassone dell’immondizia e ci trovi dentro un neonato piagnucoloso avvolto in un sacchetto di plastica. Ad Agata successe proprio questo. Mendicava in un vicolo quando fu attirata da versi simili a miagolii, andò a vedere, e trovò il bimbo. Quella sera io e altri barboni la vedemmo tornare in lacrime che biascicava versi senza senso perché spaventata delle condizioni del piccolo. Cercammo di calmarla e di convincerla a portare il neonato in ospedale, ma lei voleva tenerlo per sé. Le facemmo notare che a malapena riusciva a sfamare se stessa, figuriamoci un bambino. Lei però non voleva sentire ragioni. Era disperata per il piccino e voleva aiutarlo. Da allora lo accudì come un figlio. Una brava donna Agata, una brava mamma, non come la mia. Pensi che a volte quando non trovava abbastanza cibo per entrambi lei digiunava per dare al marmocchio quel poco che aveva racimolato. Io le dicevo che era pazza, che con tutto quello che dava al bambino ci si poteva mangiare in tre di noi, ma Agata rispondeva che doveva crescere sano e forte e che tutto quel ben di Dio era necessario. Come ho detto, una brava donna Agata, una brava mamma.”
“Quindi la storia del compleanno…”
“Il compleanno è l’anniversario del giorno in cui Agata trovò Sacchetto nel sacchetto,” spiegò il vecchio Giò.
“Dio mio,” fece Filomena. “E ora che si fa?”
“Non so lei ma io vado al bar a farmi cambiare il bigliettone da cinquanta in bottiglie di vino.”
“Come faccio a trovare Agata adesso?”
“Chieda alla polizia, io non posso più aiutarla.”
E così fece. Filomena andò alla polizia. Lì scoprì che Agata era stata mandata in una casa di cura in un paese a cento chilometri di distanza. Filomena pensò alla burocrazia, a come avrebbe fatto a riportare un figlio che non era figlio alla madre che non era madre. A una madre che per giunta era una senzatetto e che non avrebbe in alcun modo potuto badare al piccolo. A un tratto maledisse tutto questo. Le vennero in mente le voci dei colleghi di lavoro che la canzonavano, che la tacciavano di essere inflessibile, rispettosa delle regole. Era sempre stata così, amante dell’ordine, devota al bene, al giusto. Ma qui era diverso. Cos’era giusto? Era giusto che un bambino, abbandonato una volta, dovesse essere abbandonato di nuovo? No, non ci vedeva giustizia in questo. Così decise di travalicare la burocrazia, mandare al diavolo la rigidità delle regole.
Impettita, prese l’auto e tornò in discarica. Scese dalla macchina e avanzò dritta come un treno fendendo l’amalgama di persone che la dividevano dal cumulo di rifiuti. Sacchetto era ancora lì, in cima, intento a scavare.
“Ehi!” urlò Filomena al piccolo, “ho trovato la tua mamma. Ho parlato con il vecchio Giò e mi ha detto dove sta.”
“Lo zio Giò?” fece il bimbo, alzando la testa.
“Sì, proprio lui, mi ha detto che non è lì la tua mamma, è andata da un’altra parte perché ha trovato una bicicletta bellissima da darti.”
“Davvero? E dov’è?”
“Se scendi ti accompagno da lei. Dobbiamo andare in macchina però; sei mai salito su una macchina?”
“Su una brum-brum?”
“Sì. È divertente sai?”
Il bimbo ci pensò un attimo, gingillò con un pezzo di plastica e poi chiese preoccupato: “Zio Giò viene?”
“Se vuoi sì,” rispose Filomena.
“No, meglio di no, ha un odore strano zio Giò.”
“Sì hai ragione. Ti mando su dei signori simpatici che ti aiuteranno a scendere da lì, va bene? Così poi andiamo dalla tua mamma.”
“Va bene,” fece il piccolo, alzandosi, e pulendosi le mani sui jeans.
I vigili del fuoco salirono sulla scala e lo tirarono giù dal cumulo di rifiuti; un applauso scrosciante scoppiò dal gruppo di curiosi e il vecchietto con la gobba esultò perché finalmente era riuscito a vedere il bambino.
Sacchetto salì in auto e Filomena mise in moto partendo in direzione dell’autostrada. Il bambino imbrattò i sedili e sporcò il finestrino perché ci continuava ad appiccicare la faccia contro; guardava a bocca aperta la vastità del mondo, il verde della campagna scivolargli attorno: non aveva mai visto così tanto verde, nemmeno al parco.
“La mamma è andata tanto lontano per la mia bici,” notò il piccolo, a un tratto.
“Già,” disse Filomena, con uno strano sorriso sulle labbra, “è perché ti vuole tanto bene, tesoro, davvero tanto bene.”
Bel racconto!
si legge tutto d’un fiato, avvincente, ironico e scritto bene. Solo il finale non mi sembra risolto benissimo.
Complimenti!
Bella la trama e bello lo stile. Strappa un sorriso e, allo stesso tempo, fa riflettere. Forse l’approccio tra l’assistente sociale e i barboni doveva essere più diretto, senza il “Lei”, però questa è una inezia nell’economia del racconto. Un applauso a te e a Sacchetto.
E’ bello il modo in cui fai cambiare prospettiva, si comprende il mondo di chi ha altre priorità, altri desideri. Ma che comunque desidera! Può desiderare di allevare un bambino piuttosto che mangiare, o riacquistare lucidità in cambio di cinquanta euro. Forse a volte il linguaggio è un po’ retorico o un po’ generico.
Grazie Lauramon.
Sono contento che il racconto ti sia risultato di facile e piacevole lettura. Per il finale ti dico che ci ho pensato molto, e poi ho deciso di farlo così come lo vedi per la semplice ragione che mi pareva che tutti i protagonisti (anche il vecchietto con la gobba) avessero trovato una certa soddisfazione. La fine, con quell’ultimo dialogo, lascia libero il lettore di sperare in bene. Grazie ancora per il commento.
Ri-grazie Giovanna.
Grazie per il: “bella la trama.” Come aspirante scrittore (mi fa sempre ridere quando lo dico! Ahah!) tendo a concentrarmi di più sulla costruzione di una trama che nello stile di scrittura in sé, quindi il tuo apprezzamento mi è particolarmente caro. Il fatto che anche lo stile sia bello, non fa che rafforzare la mia contentezza. Per quanto riguarda il “Lei”, l’ho usato principalmente per due ragioni. In primo luogo perché il vecchio Giò è vecchio. Quindi l’assistente sociale si rapporta a lui con un “Lei” di riverenza. Se noti, infatti, con il primo barbone (quello che io definisco genericamente un uomo) la donna usa il “Tu.”
In secondo luogo ho usato il “Lei” perché mi pareva da sbellicarsi dal ridere. Ho immaginato un senzatetto che emanava tanfo di liquore, che era irriverente e anche un po’ sfacciato, e ho pensato che se l’avessi accostato a una figura “politically correct”, l’effetto comico avrebbe reso di più. Questa figura, però, doveva comportarsi in una certa maniera. E quindi mi è venuto naturale pensare che l’assistente sociale dovesse dare il “Lei” come suggerisce il bon ton. Quello che mi fa sorridere è il fatto che il vecchio Giò stia al gioco. Si comporta da buffone, fa apprezzamenti ambigui alla donna, e si indigna come un qualsiasi lavoratore, il tutto dando anche lui il “Lei”, come a prendere in giro queste facciate, queste convenzioni sociali. Faccio notare che a un tratto, adirata, l’assistente sociale si rivolge al vecchio con il “Tu”. Non è un errore, volevo mostrare un inizio di spaccamento nella rigida indole della donna.
Grazie mille per l’applauso, in segno di gratitudine mi levo umilmente il cappello (che non ho, però. Dannazione).
Complimenti, è una bella storia, bella idea! In effetti il finale è un po’ sospeso, ma da come ho letto nel commento vuole lasciare la speranza che tutto vada per il verso giusto. Tifiamo per Sacchetto! P.s:un plauso anche al vecchietto con la gobba e la sua curiosità saziata nel finale!
Sì, ok Ale, il tuo ragionamento non fa una grinza, però, di barboni che danno del lei non ne ho mai incontrati, vecchi o giovani che siano, e neppure di assistenti sociali. L’approccio è spiccio e diretto, vista la situazione di degrado. A meno che non si tratti di qualche “nobile” decaduto, professore in disgrazia, ecc…. anche se, con la crisi in corso, tutto purtroppo è possibile.
Grazie per le lungheeeeeeee risposte e auguri per il futuro.
Grazie Tommaso.
Hai colto nel segno. Sia per quanto riguarda i desideri sia per il linguaggio. Io scrivo, butto giù quello che devo buttare giù, poi lo rileggo e mi dico: non sarà troppo generico? Si capisce quello che voglio dire? Traspare ciò che voglio far trasparire? Ed ecco che cado nella retorica. Come adesso. Questo commento è l’esemplificazione perfetta dei miei difetti da scrittore. Lavorerò per affinare il mio stile. Grazie per la critica.
Grazie Alessandro. (bel nome, comunque.)
Il finale, maledizione! Va be’, è giusto così, se è troppo sospeso è doveroso farmelo notare.
Sono estremamente lieto che il racconto e l’idea di fondo ti siano piaciute. Tra l’altro c’è un aneddoto particolare riguardante il vecchietto. Nella prima stesura non c’era. Ma non so come, se ne sentiva la mancanza. Quando ho chiuso gli occhi per immaginarmi la scena che avevo scritto, l’ho visto. E ho dovuto aggiungerlo per forza. Grazie per i complimenti.
Diamine! Hai ragione anche tu Giovanna. Hai distrutto il mio lunghooooooo commento in tre righe ben assestate. Non è possibile.
Cercherò di essere più conciso, se riesco. Ricambio con piacere gli auguri per il futuro.
Ahah un gran bel nome sì!! Comunque il finale sospeso ci può stare, scherzi, anzi a volte risulta essere migliore…soprattutto rispetto a quei finali scontati e buttati lì solo per assicurarsi una fine. Infatti nel mio soggetto per la sezione corti il finale c’è ma non c’è, sicuramente nel mio caso il discorso è diverso trattandosi appunto di un soggetto per corto, che a volte necessita di lasciare punti di domanda e dubbi, ma questo non significa che un racconto non possa fare altrimenti!
Quindi rinnovo i complimenti e aggiungo un in bocca al lupo!
Complimenti Alessandro, penso che il tuo racconto abbia una deliziosa connotazione surreale. E’ chiaro che a volerlo leggere in un’ottica realistica alcune cose sarebbero improbabili; tuttavia, penso che tu abbia appositamente mantenuto un tono un po’ sopra le righe, che contribuisce a dare leggerezza a una serie di circostanze che, altrimenti, sarebbero risultate ben serie. Grazie per aver letto il mio racconto (sui vecchi cenciosi vedo che c’intendiamo….). In bocca al lupo!
Grazie Laura. Sì è proprio così: volevo alleggerire il tema e cercare di riprodurre quello stile divertente ma che allo stesso tempo fa riflettere. Non so se ci sono riuscito pienamente, spero di sì. È anche vero che se avessi scelto un approccio più realistico il racconto sarebbe stato completamente differente, sia per quanto riguarda il ritmo, sia per lo sviluppo della trama: alcune cose, devo ammetterlo, sono improbabili nella realtà, ma per fortuna (meno male!) posso renderle plausibili con la fantasia.
A quanto pare sì, sui vecchi cenciosi c’è intesa… ahah! Crepi il lupo, e ne approfitto per farti gli auguri per il concorso!
…bellissimo racconto…COMPLIMENTI PER LA VINCITA ALESSANDRO!
Grazie mille Eleonora! Ancora non ci credo di avercela fatta!
Bellissimo racconto, toccante ma allo stesso tempo ironico, complimenti Alessandro! Linda
Grazie per i complimenti Linda! Mi fanno molto piacere!
Complimenti Alessandro, una di quelle letture scorrevolissime, il finale poi mi ha lasciato un dubbio, con quello strano sorriso della Filomena….mah, mi ha inquietato non poco ma è bellissimo, ci sta che si lasci aperta la conclusione. BRAVOOOOO!!!!
Grazie mille Cateriana, troppo buona! Ti ringrazio in modo particolare per quel “letture scorrevolissime”. Ho una certa fissassione per la scorrevolezza del testo, non ho ancora ben capito come mai, ma è così! Per il finale non era mia intenzione inquietare, però è davvero piacevole notare le varie reazioni al finale sospeso! Grazie ancora per i complimenti!
Caterina perdonami ma mi è sfuggita una “a” di troppo nel tuo nome. Scusa scusa scusa! Sono ancora scosso della vittoria per quello!
ahahahahahahahaha….Cateriana non è male….
Tra l’altro mi sono appena accorto che non è l’unico errore di quel commento, anzi, diciamo pure che è una bella costellazione di errori. Andiamo bene. Il perfetto biglietto da visita per uno scrittore in erba…
Alessandro, sei ancora sotto l’effetto POSTVITTORIA….e ci stààààà!!! Ma poi di quali errori parli, manco me ne sono accorta! Andiamo beneeee, gran bel biglietto anche per la sottoscritta allora!!!
Caro Alessandro il tuo racconto è bello infatti ha vinto però io non l’ho mai commentato ma dirò solo poi il perche!
Complimenti!
Non me lo chiedere perchè perchè poi lo diro’!
Bravo!
Qualche appunto sulla Filomena? Ecco si! Ma poi.
Ottimo racconto
Va bene Emanuela non farò domande allora, starò buono e muto a farmi logorare dall’attesa! Anche se forse so già quello che vorresti dirmi… Comunque grazie mille per i complimenti!
Originale, ironico, ben scritto. Complimenti, mi è piaciuto molto. A presto!
Grazie sono contento che ti sia piaciuto. A presto!