Premio Racconti nella Rete 2013 “Il concerto” di Gianfranco Andorno
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Tommaso provò a telefonare ma non ricevette alcun segnale. Muto e basta. Subito non si preoccupò e si mise a perlustrare l’appartamento. L’accordo con Full, l’impresario, era stato chiaro. “Ho combinato per due serate: sabato e domenica. A cachet fisso, indipendentemente dai paganti.” Bene, pensò Tommaso. Eh quante volte si finiva a suonare per i soli camerieri. “Gli altri sono del posto. Devi solo portare il tuo sax.”
Tommaso: “e l’albergo? L’albergo chi lo paga?” Un po’ diffidente. “Tranquillo. C’è la casa vuota di uno,” lo aveva rassicurato Full, così battezzato dalla confraternita dei jazzisti per il vizio del poker. Perché adesso non rispondeva?
Sabato. Il colpo sordo del cannone al Gianicolo lo avvisò del mezzogiorno e Tommaso decise di scendere. Si era ritrovato a girare tra i banchi di Campo de’ Fiori in ebollizione per la gente che adocchiava, toccava.
Tommaso si era soffermato da un fruttarolo, irretito da una ragazza che serviva. Gli rammentava un quadro moresco con una carovana di zingari. La pelle olivastra, gli orecchini a cerchio, vistosi. Ma soprattutto il profilo tagliente. E mai un sorriso, l’espressione rancorosa. Il contenitore di una rabbia trattenuta a stento.
L’aveva spiata a lungo, mentre furtiva afferrava una fragola e la portava rapida alla bocca, come se la rubasse. Rapace. Ora un’oliva. Gli sguardi si puntarono e continuare a fissarsi diventò un gioco, una sfida a chi cedeva per primo. Lui rise, lei no. “A che ora smetti?” “Alle due. Mi vieni a prendere?” Tom aveva annuito, tanto preconizzava che, almeno in parte, il programma andava a farsi fottere. I concerti. Ma quali? Full… sempre latitante. Irreperibile. E la cosa si faceva seria. Non aveva indirizzi, solo quella casa dove rintanarsi. Sì, meglio in due.
E più tardi, all’ora fissata, lui alto davanti a indicare la strada, lei dietro e acciuga com’era, sembrava un’ombra tagliuzzata dalla figura di lui e sparsa intorno.
Lei: “bella la casa.” “Non è mia,” aveva messo subito avanti le mani. “Un prestito”, prima che si credesse chissà cosa. Non vorrei che la fanciulla si illudesse e mi chiedesse dei soldi, ipotizzò Tommaso tra sé e sé.
“Linda,” si era presentata precedendolo. “Ah, balla Linda,” fece lui giocoso, provocando una sua smorfia.“Io Tommaso, Tom,” l’abbreviazione. E per continuare: “Tom, Tom,” bussando sul tavolo.
Linda aveva portato due sacchetti. In uno dei carciofi grassocci, quelli senza spine, e delle arance. Ancora: delle puntarelle di cicoria, aggrovigliate come le ciocche dei suoi capelli. Nell’altro involto una maglietta, una gonna stropicciata, un paio di scarpe dal tacco un po’ più alto. Dove si cambiava? forse in un bar.
Si era infilata subito nel gabinetto e l’aveva sentita armeggiare. “L’acqua è chiusa. Dov’è il comando?” “Lo cerco. Ecco, è qui sul terrazzo. Attenta che lo apro.” E gli giunse lo scroscio a conferma.
Una casa sconosciuta per entrambi. E si erano trovati affaccendati a cercare i fiammiferi per il gas, il caffè, la carta igienica. Una specie di caccia al tesoro.
Tommaso continuava a trafficare con il cellulare, senza risultato. Spazientito. E qualcosa doveva ben spiegare a quella. “Porcaccia la Eva!” esclamò. E raccontò la situazione incresciosa nella quale Full lo aveva messo.
“Non ha parenti? Amici?” gli aveva suggerito lei. “Già fatto,” le rispose a bocca stretta e già pentito di averla coinvolta nel suo impiccio.
Il tempo trascorreva e nessuna traccia di lui anche se Tom continuava a scusarlo. Sicuramente un imprevisto grave. E prima che Linda potesse insinuare qualcosa, lo aveva difeso. “Full procura i concerti per passione, non ci specula. Sovente ci rimette di suo.”
“Sei un musicista,” arguì lei. “Sì, facciamo del mainstream,” temendo di non essere capito. Penserà che è il titolo di un motivo. “Free… hard bop… addolcito dallo swing,” aggiunse, inciampando nelle parole. Poi, condiscendente, aggiunse: “arrotondo con le lezioni. Me la cavo con la scuola, insegno musica.” “Mi piace la musica,” asserì Linda. Tommaso non osò chiederle quale.
Avevano persino trovato delle cotolette di soia, schifose ma salutari. Dopo il pranzo, Linda aveva rassettato la cucina. E decisa: “io vado un poco a riposare. Tutti i maledetti giorni, salvo la domenica, mi alzo alle cinque per venire qui. Abito a casa del diavolo. Se vuoi, quando mi sveglio, ti chiamo e mi raggiungi.” E senza attendere un suo commento, impoverendo così quel possibile incontro, sospeso, aveva scalato una ripida rampa di legno cigolante. “I turisti ci fotografano come bestie allo zoo…” aveva sboccato lei, amara. “Più che campo de’ fiori campo dei broccoli,” ora polemica. Questo lo strascico vocale alla sua scomparsa, nella camera da letto ricavata in un soppalco.
Tommaso era rimasto lì basito. Non poteva uscire: se si fosse svegliata? E se fosse stata una ladra? La conosceva forse? La casa era piena di cose di pregio. E sarebbero risaliti a lui, con la sfiga che aveva. Riprese a torturare il cellulare: invano. Quanto dormirà quella? Ma che m’importa! Lo interessava? ma quanto? Boh! Poveretta però, quella vitaccia. Sei felice? avrebbe voluto chiederle. Meno male che si era trattenuto. Chissà perché gli veniva di porre quelle domande stupide, a sproposito. Dalle risposte improbabili o false.
A metà pomeriggio come la sentì muovere si inerpicò scrutando i mobili, l’impianto stereo. La evitava per non rivelare la sua impazienza, la sua curiosità. E fu Linda stessa a sbloccarlo stendendo le braccia.
Tommaso era impacciato: cosa doveva dirle? Fare un’altra delle sue stupide domande? Inquisire sui rapporti avuti? Discutere di un loro futuro? E che avrebbero detto agli altri, ai prossimi? Che ci saranno, ne era sicuro. Saremo di altri, cosa diremo agli altri?
Ma lei lo aveva tirato e si era avvinghiata, annullando quelle incertezze. Ed era giusto così. Uno scambio breve, una fermata insieme di metrò, di bus, e poi via ognuno per la sua strada. Senza farsi male: a letto e nel commiato. Un breve percorso insieme, usandosi. Grazie a te, grazie a me.
La ragazza mora era scesa dal quadro, la poteva toccare. Il volto tuttora sfuggente ma il suo corpo in offerta.
Linda pretendeva. Possedeva un suo fascino, un invito a corteggiarla, ma non palesava quell’avidità così vasta, avvolgente. Ed era come se la conservasse in un armadio. Un abito da sfoggiare solo nella stagione giusta.
Tommaso le aveva preso una mano e si era accorto che le dita erano biancastre, come se immerse nella scolorina. Come se il bruno, tinteggiato nel resto delle membra, lì non fosse arrivato. “E’ finita la nutella!” mormorò, scioccamente, Tom.
Erano usciti sul terrazzo. C’erano i gabbiani reali, posati sui comignoli, che all’improvviso si animavano. Rivendicavano il terrazzo con incursioni a volo radente. I becchi protesi. E, provetti frombolieri, cercavano di colpire con i loro escrementi imbrattando piastrelle e muri. Fagotti piumosi di una libertà insolente recitata sguaiatamente su quel proscenio, su quella parata sanguigna di tegole.
Petulanti, ora simulavano il miagolio del gatto, ora il pianto lagnoso di un bimbo. Quando starnazzavano e allungavano il collo, negli acuti, Tom si rivedeva attaccato al sax. E si trovò a ridere rumorosamente.
Tommaso le aveva indicato il telefono: “devi avvertire… qualcuno?” Debolmente, non voleva intromettersi nelle sue cose. “No, no,” convinta e facendo spallucce.
C’era stato anche un breve acquazzone. La pioggia ingialliva i muri, come se piovesse un miele biondo e nei punti più luminosi persino oro zecchino. Un momento: un temporale svogliato. Subito l’acqua si distraeva, si dimenticava di cadere, andava altrove. Un capriccio.
All’indomani Tommaso si era svegliato all’alba. Che luce! Accidenti! Anche parte del tetto della camera era di vetro. Una fetta di cielo era tua: un planetario. E da lì cadeva altra luce! Il letto un tavolo operatorio illuminato da fari incandescenti. Inoltre, alle cinque e rotte i gabbiani si mettevano a far casino con i loro beceri versi.
Che voglia di fumare… ma: “non fumare!” la scritta imperiosa sul frigo ed era sceso. Al bar un marocchino bollente, due cornetti da portar su. Era rientrato convinto di imbucarsi nuovamente nel letto ma Linda lo aveva fermato. “No, usciamo,” gli aveva intimato. Inflessibile.
“In piazza Farnese, nei tempi antichi, facevano correre i tori.” Linda, ansimando per il passo veloce. Tommaso, fanciullone: “i tori adesso sono bistecche. Le metamorfosi imposte dal tempo,” e rise. “Comunque, gravato come sei dai secoli è difficile, in questa città, imporre il tuo vissuto nuovo,” osservò. “Ti imbatti in un mozzicone di colonna che sbuca dal cemento e sei kappaò.” “Sì,” confermò Linda. “E’ come se in ogni momento finissi in quel film… Come si chiama? Viaggio nel tempo?” Per la prima volta discorsiva. “Pressappoco,” per incoraggiarla.
Attraverso il corso di… corsa: qui il rosso non è rosso. Non è coercitivo. Adesso era lei a far strada e si voltava, ogni tanto, ad assicurarsi che lui la seguisse.
Piazza Navona tagliata di sbieco scansando la cupola del Borromini tremolante in una pozzanghera. Qualche mimo paralizzato e un saltimbanco che godeva di una folla e successo superiori alla sua bravura. Infine, ecco la chiesetta recintata da inferriate ovali.
Il custode stava rampognando, in malo modo, un gruppo: “no foto!” Arcigno, più posteggiatore che religioso, incurante di infrangere la sacralità immota del posto.
Le sibille. “Sono di Raff…” incominciò a sillabare lei. “Sì, di Raffa,” confermò lui, senza completare. Sibille prosperose. Sibille messe a governare il destino degli uomini? Non sono mai uscite da qui che ne sanno delle nostre angosce? Qui dentro all’ingrasso… I visi paffuti ma delicati mentre le braccia grosse, da popolane, per una prospettiva esagerata.
Così le irrideva Tommaso. Senza accorgersene aveva alzato la voce e il guardiano si era voltato. Linda gli aveva fatto le boccacce ed erano scappati evitando i suoi rimbrotti.
Al ritorno: “Linda, devo comprare un magnete con il Colosseo. Da portare a scuola.” E poi, aveva dovuto insistere per trascinarla in una trattoria. Alle pareti i ritratti di artisti romani: Fabrizi, Sordi, la Magnani… Cacio e pepe, un abbacchio un po’ secco per la verità. “Ummmh, paleocristiano,” aveva bofonchiato Tom.
Linda sembrava vergognosa e come il cameriere le parlava arrossiva. Lei così altera, fiera, a farsi servire s’imbarazzava. Aveva spiluccato, uno spreco. E poi si erano precipitati in casa. Correndo, e scagliando i vestiti a terra. Come in gara con la voglia,
con la fretta di prendersi.
Full era scomparso, anche nei loro discorsi. Tommaso lo avrebbe cercato al suo rientro. Forse un incidente d’auto, guidava da cane… Invece, prolisso, si era lamentato con Linda di quella luce accecante.
Le persiane erano bloccate e Tommaso non aveva osato chiuderle. Così al primo sfavillio dell’alba quando il fondo, oltre la sfilata diseguale dei tetti, si incendiava, la luce si riversava nelle stanze, annegando le cose che si sformavano, smarrivano i contorni. A difendersi, Tommaso, aveva improvvisato un paravento con una scala aperta e un lenzuolo sbandierato.
“Dove abito il giorno è un’altra notte,” aveva spiegato. “Qui la luce ti gonfia gli occhi. Ci affoghi, nella luce.”
Verso sera Linda, districandosi dai suoi abbracci: “devi vedere come cambia il Campo.” E lo avevano raggiunto.
I banchi erano scomparsi e, ai lati, tanti bar. I tavolini, protesi a mordere il passo, affollati. I bersò avevano ancora le fiamme intubate nel vetro a riscaldare: il Giordano Bruno statuato le scrutava preoccupato.
E a metà piazza, i musici! Uno, due, tre… quattro. L’unico seduto il fisarmonicista, quello del contrabbasso tiene la testa china e pare un appendiabiti. Poi il chitarrista; quello del sax è a capo scoperto. Brazil, un Brazil sontuoso. E Tommaso, che gli ha preso? Una smania. Corre su a prendere il suo sax. Mentre ritorna è assalito dal dubbio, e gli viene di nasconderlo. Ma è solo un attimo.
Si congiunge a loro che stanno marciando in allegria con i “saints”. Dapprima lo hanno squadrato: un concorrente? Poi, rassegnati, un abbozzo di assenso.
E Tommaso aveva attaccato: all the things you are. Ecco, parte con i suoi ghirigori. Litiga con l’armonia, la rovescia, la dissacra. Goffo, si piega quasi in riverenza. Un gesticolio da clown.
Il fraseggio è fluido ma le note dure, piccoli barriti. Picconate che scavano e cosa troveranno? La monnezza, gli avanzi dei banchi o che so, un’anfora…
Ma poi il motivo riemerge con gli avventori compiaciuti di riconoscere il motivo: il refrain ruffiano. Tommaso lo riguadagnava, lo trovava come per caso, il riff. E riprendeva terra e fiato. Il brusio, il vociare adesso li risentiva. Gli applausi…
Ah! Ah! i compagni di ventura insistono per dividere le monete, e lui deve ritrarsi senza offenderli. Senza boria. Finisce con l’accettare il cappello di paglia, da campesino, del bassista.
A Linda: “quando suoniamo… i nostri suoni diventano noises off,” per farla compartecipe. “Rumori fuori scena…” Senza convinzione: per presunzione?
Sabato, domenica. Lunedì mattina la partenza. “Linda?” Linda non c’è, è già sgusciata via. Una falena evanescente. Tommaso fa su le sue cose. Lo zaino, abbranca il fardello con il sax, chiude la porta. Cazzo le chiavi! Sono rimaste dentro. Le dovevo consegnare sotto, al ristorante. Pazienza, chi se ne frega. E tirò via girando verso il Tevere, rinunciando così a salutare la ragazza. Tanto, quando fosse ritornato l’avrebbe trovata sempre là al banco, o nel quadro. Forse.
E a scuola che dire del concerto? Che aveva suonato con dei musici da strada? dei guitti… Sai come avrebbero riso. Beh, mi inventerò qualcosa pensò, mentre alzava il sax a fermare un tassì.
Un omaggio a Roma e ai suoi incontri. Alla Woody Allen. Molto pittoresco.
Bello! Molto, molto bello! Forse, proprio per trovarci un difetto, un po’ lunga la parte della descrizione della città: ben fatta, ma tende a far perdere l’attenzione. Splendido il tratteggio del personaggio della ragazza e i riferimenti alla musica. Davvero i miei sentiti complimenti!
N.B. A Roma mi sa che il caffè “marrocchino” manco sanno cos’è!!! 😉
NB Ormai con la globalizzazione il caffé marocchino lo conosciamo pure noi.
Finchè ci ho vissuto io era “cappuccio e cornetto” che forse nel racconto avrebbe reso meglio l’atmosfera! Comunque è un particolare insignificante. Ancora bravo a Gianfranco!
Tipico di Roma è il “maritozzo con la panna”! Una delizia!!!! E non mi riferisco ad un marito incremato.
E’ vero!!! BUONISSIMO!!!! 🙂 🙂
Per quanto riguarda il ” marito incremato” non so… è da provare!!!
Bel racconto e soprattutto belle immagini. Non sarebbe male utilizzarlo per la realizzazione di un cortometraggio. Un incontro casuale, romantico, due anime in cerca di amore, sullo sfondo una Roma da turisti e una fantastica colonna sonora: un po’ Allen, un pò film francese. Mi è piaciuto molto. L’unica cosa che non mi piace molto sono le frasi brevi, in alcuni casi brevissime, ma in effetti non disturbano la lettura, anzi, a volte sembrano rapidi scatti fotografici e quindi ci stanno.
Un racconto incalzante, ma dai ritmi e toni non stressanti, morbido, ma al contempo autentico, come un assolo di Sidney Bechet in una jam session. Complimenti Gianfranco, hai fatto centro anche con questo nuovo racconto, dopo quattro romanzi e la finale di Racconti nella rete del 2008. Azzeccato l’accostamento ad Allen nei commenti, soprattutto perchè sembra di sentire come soundtrack le sue orchestre preferite. Dimostrazione che si può essere attuali con stile ed eleganza
my pleasure!