Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Marcire Dentro Maestose Afflizioni” di Gabriele Tolari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

 

I cieli di vetro si spezzarono e mi ferirono, gli obelischi di fango si scoprirono e mi rinchiusero: poi più niente. Ma c’eran pure sempre gli arcobaleni: doppi, tripli, quadrupli. Arcobaleni quintupli che ridevano e colori che diluivano in uno stagno sospeso nell’aria, che di tangibile aveva soltanto la mera irraggiungibilità. Il caos durò finché i cinquanta cieli del mondo non s’aggiustarono riunendosi in uno soltanto, che mandò di nuovo avanti un fulmine e poi un tuono e poi ricominciò a piovere per l’ennesima volta, e gli arcobaleni smisero d’accoppiarsi e si sciolsero, lasciando una voglia di fuggire via, nel vento di tutte le razze che si alzò, come montagne variopinte ma di sfumature vuote e perciò tristi.

Con l’ultimo schiocco di vitalità e un senso di compassione per l’uomo che non sarei mai diventato, pensai a Matilde: nonostante il male da lei subìto, decisi che l’immagine sua doveva essere quella finale, destinata a congedare l’irrimediabilità del gesto che stavo per compiere. Il ricordo dell’amore illusorio avrebbe comunque sovrastato ogn’altra riflessione, tumefacendola come difatti fece e portandomi a gridare, mentre la pistola tremava e tremava perché anche la mano non era da meno. Mi venne da regalare un ennesimo sguardo al cielo e trovai che i suoi lineamenti si fossero fatti feroci e non più solamente cattivi; gli occhi colavano disprezzo che giudicai fosse in gran parte rivolto a me; le nuvole gli disegnavano un ghigno ai lati della bocca e compagne loro s’improvvisarono pianoforti: sentii espandersi nell’assenza del tramonto meste marce. Accompagnarono le lacrime che già mi scendevano per il viso, incontro a un mondo di finte libertà. E ancora il cielo, dunque, che abbandonò le vesti eleganti e, straccione, si tinse di piombo e fu come se stesse prendendosela comoda, a rimirare nei silenzi miei deliranti l’ultimo giorno di vita che attraversavo sopra la misera terra, dove si nasce e dove si muore e quasi mai si riesce a vivere. Pensai che accanto a Matilde il cielo fosse sempre stato mio amico, ma la ragione non albergava più in me: avevo fin allora dormito dentro sogni di pastello e more selvatiche, e ancora non lo sapevo figurare, ma volevo che il domani potesse esser sempre come quella notte giù al mare, sopra una spiaggia d’inverno. Che c’erano le stelle tutte sopra e pure un po’ davanti a noi, dietro e anche vicino al cuore, mi pare, in attesa d’infiltrarsi nel sangue e circolarci fino all’anima.

E successe davvero, infine: quando poi facemmo l’amore per la prima e ultima volta, coi piedi più nudi di noi che si baciavano nascosti nel fruscio intermittente delle onde d’argento; frangenti d’acqua schiumosa e brillante che cercava di portarceli via ma senza inganno, più un gioco che altro e shhh: che è il momento di dormire e scoprire finalmente se Io Mare finisco proprio all’improvviso, oppure dove vado a nascondermi quando arriva la linea precisa che tutto spezza e via le paure spazza.

Parole simili, giuro, parvero udire le mie orecchie, insieme con il suono della notte che credevo non sarebbe morta mai, quando ancora non la ritenevo possibile e nemmeno meritevole d’attenzione, la possibilità di perdere quelle doti naturali che dovrebbe possedere ogn’individuo, da custodire con cura e gelosia: come correre, ridere, leggere e mille altre di simili, essenziali per capire che, se scavi bene fin laggiù in fondo, ne trovi a migliaia di ragioni per smettere di pensare al dolore della nascita e al fastidio della morte. Per tentare di vivere il miglior mondo possibile e andare avanti e non rinunciare subito alle speranze di farcela: che l’amore può tradirti una volta, e poi due tre sei milioni. Ma tu puoi correre ridere leggere!, senza per forza aprire la cassaforte dove tuo padre tiene la pistola e cominciare a ballare con un secco e tristo mietitore. Ancor più triste di te, sappilo.

La notte che feci l’amore con Matilde fu l’ultima passata nella realtà. Il pomeriggio seguente mi disse che di me non voleva saperne, che m’amava come si può amare un topo di fogna e che la sera prima, sulla spiaggia, immaginava dentro di sé il mio migliore amico. Io non la presi mica tanto bene. Non pensai alle decine di commedie dove si ricordava al gentile spettatore che quella era la storia più vecchia del mondo: lui ama lei che però ama l’altro, e l’altro è quasi sempre il migliore amico di lui. Però pensai che Matilde era stata per due anni la mia boa di salvataggio in mezzo al mare: l’unica voce veramente in grado di capirmi, a lei che avevo detto ti amo senza nemmeno averla mai baciata; lei che mi aveva detto ti amo anch’io e in realtà stava soltanto tenendomi il cuore tra incudine e martello, per avvicinare una persona che non avrei mai potuto essere.

Mi disse ciò e presi la pistola di mio padre, e la sperai carica e me la puntai alla tempia e il cielo si divise ancora in cinquanta cieli e io chiusi gli occhi, finalmente.

Ma la semiautomatica era scarica e ritrovai me stesso a strapparsi i capelli dalla disperazione e con una voglia scemata di colpo. Quella voglia di ridere in faccia agli emissari di dio, non importava se quello dell’Alto o quello del Basso: bastava fossero veloci. Me stesso smise quella folle voglia e svenne, per la lunghezza di trenta secoli che furono piuttosto trenta secondi e viceversa.

Poi fui di nuovo io. Mi rialzai e fui di nuovo io. Ma comunque non mi sarei riconosciuto nella porta a vetri dell’entrata. Perciò uscii dalla finestra, come un ladro che fugge dal luogo del misfatto, come il destino che non può fuggire da sé stesso ma ci prova in ogni caso. Mi ritrovai ancora diciottenne, come la sera precedente, come la sera che avevo fatto l’amore per la prima volta in vita mia, con Matilde, con lei che amavo e lei che non amava me.

“Ridi”, mi dissi. “Ridi, che nelle commedie dicono sempre che bisogna.”

Ma invece non risi e corsi: fu l’ultima occasione per farlo. Non potevo saperlo ma forse qualcuno dentro di me sì, e mi fece pestare l’asfalto cercando di mordere tutto il tempo che mi restava.

Corsi.

Corsi verso il nulla di una notte che scendeva piano e vigliacca, che non portava in dono stelle scenografiche né arcobaleni liquefatti né tantomeno frastuoni ondosi a coprire i gemiti di due corpi in uno. Che non portava in dono l’aria di vita che si respirava la notte prima e ch’era buona buona, anzi lo sembrava, e che forse il mare lo sapeva pure, ch’era soltanto falsa e puzzava di merda. Il mare lo sapeva già e non mi aveva detto nulla, la sera tra i chicchi di sabbia.

Passai la notte a casa di un mio amico che non era il migliore, ma se anche lo fosse stato, non avrei di certo potuto incolparlo di qualcosa. Questo mio amico mi disse: “Tieni”, e mi allungò una specie di pasticca rosa con sopra la Farfalla. “Cos’è?”, chiesi io nella mia stupidità. “È una farfalla.” “La vedo.” “Ti farà volare via lontano e ti toglierà i pensieri brutti.” “Sì? Ci credo poco.” “Tu fidati”, insisté lui, passandomi anche una bottiglietta d’acqua. “Scioglila qua dentro.” “Ma… è droga?”, m’informai un po’ restio. Al massimo avevo fumato un po’ d’hashish. “È MDMA.”

Ed era un giovane 1987.

“E che significa MDMA?” Attesi una risposta ma arrivò soltanto un’alzata di spalle.

Allora sciolsi la pastiglia nell’acqua e bevvi. A sua volta, mi si sciolse il cuore che avevo in gola.

Poi più niente.

Sono passati ventidue anni e sto ancora dentro questo letto d’ospedale. Non sono più tornato indietro dal viaggio di quella notte bastarda. Non parlo, fisso il vuoto e ogni tanto continuo a vedere gli arcobaleni che s’accoppiano. Non staccherò mai più il biglietto del rimpatrio, ormai l’ho capito e stanno cominciando a capirlo anche i miei genitori. Matilde non è mai passata a trovarmi: se dovesse accadere, credo che forse qualcosa cambierebbe, e quel qualcosa mi permetterebbe finalmente di morire, di lasciare questo stadio di sospensione tra irrealtà e ricordi limpidi di cieli stellati sopra mari d’argento.

In un mondo tutto mio pieno di flash, dove le poche persone che trovano cinque minuti per venire a farmi visita mi guardano dall’alto e mi carezzano i capelli che non riesco più a toccare, e credono che io sia completamente scemo e irrecuperabile e allora smettono di guardarmi. Perché non ce la fanno più a vedermi con gli occhi sbarrati anche quando dormo, con la mandibola storta in maniera cattiva, e non resta loro che piangere piangere piangere: ecco, io vivo qua, in questo mondo eterno e fasullo.

E non lo scoprirò più, ormai, dove va a finire il mare quando arriva a toccare l’orizzonte. Ma in compenso ho trovato la risposta che cercavo dalla sera della Farfalla: ho scoperto cosa significa MDMA ed è stato un peccato non arrivarci subito. Un peccato davvero, non ricordarsi all’istante che le farfalle sono leggere e muoiono veloci. Così labili che non avrebbero mai potuto farmi volare via lontano, anche volendo.

MDMA significa Marcire Dentro Maestose Afflizioni.

E adesso voglio soltanto morire. Che ho tanto sonno e non so più come fare.

 

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