Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “La sfida” di Tommaso Meozzi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Piove. Ha iniziato quaranta minuti fa, mentre stavo preparando la borsa. La giornata è stata come sempre impegnativa per cui, in mezzo al torpore delle energie che si allentano, e ai pensieri che prendono il loro corso, come se volessero vivere da soli un’altra giornata, ho sentito appena il fruscio della pioggia sull’asfalto, sui vetri della camera.

Ho messo tutto: accappatoio, shampoo, pantaloni corti, maglietta. Poi ho tirato fuori la racchetta dall’armadio. Al centro della stanza, ho lasciato andare un dritto, un altro, poi un rovescio, mentre il gatto mi guardava spostando gli occhioni a specchio, senza perdersi nessuna mia mossa.

Oggi vincerò. Con la borsa in una mano e l’ombrello rosso stretto nell’altra sono uscito in strada.

La città è come un’apparizione, calata tutta insieme sull’asfalto si bea della pioggia senza emettere un grido.

Oggi giocherò contro Lorenzo. Non voglio sbagliare. So che lui è un tennista impulsivo, se riesco ad essere aggressivo nei primi colpi andrà nel pallone, non reggerà psicologicamente. Sono abbastanza certo che anche lui vuole vincere, anche se per carattere non lo ammette facilmente.

Ci lega un’amicizia profonda. Io l’ho visto diventare avvocato, me lo ricordo, un ragazzo timido, meticoloso fino quasi alla nevrosi, che si chiude in casa e studia sei mesi per l’esame di stato. Poi i primi clienti, scelti tra gli amici. Io, perso tra le mie velleità letterarie e tra confusi sogni di riscatto, che gli chiedo cos’è una “pratica”, o un “parere”, e che mi sfogo con lui perché una classe di politici è in grado di prolungare all’infinito i processi fino all’assoluzione. Poi le cose hanno iniziato a mettersi bene anche per me. Ora vengo pagato per continuare a studiare.

Ma ci sono cose che le parole non possono dire. Una nostra partita a tennis invece sì, può dirle.

 

Lorenzo non è negli spogliatoi. Mancano dieci minuti all’inizio della partita e lui ancora non c’è. Abita a pochi quartieri di distanza ma forse la pioggia lo ha bloccato. Anche se con un fremito immagino che si sia dimenticato della sfida, e che ora sia con la sua fidanzata, a rilassarsi, a casa. Contrariato inizio a cambiarmi, metto i vestiti “borghesi” nella borsa facendo attenzione che il cellulare resti a portata di mano. Lo chiamo, prima di dirigermi da solo al campo.

Quando già sto pensando di allenarmi alla battuta mentre lo aspetto, il cellulare suona.

– Tommy, dove sei?

– Ehi, sto venendo al campo. Tu tra quanto ci sei?

– Sono già qui. Campo cinque.

Entro nel grosso pallone di plastica che è la nostra arena di stasera. Ci raccontiamo degli ultimi eventi. Un nostro amico ha da poco avuto un figlio. Ho desiderio di essere generoso, ma non so come. Preso dall’entuasiasmo inizio a raccontare a Lorenzo quello che vorrei regalare alla bambina. E’ un elenco bislacco, fatto di tutine, sonagli, giochi, scarpine. So che lui mi ascolta con benevolenza, per cui non mi preoccupo di apparire sconclusionato.

Poi inzia la partita. Ho una scossa di adrenalina che da un punto remoto mi sale nel petto per poi incarnarsi negli occhi che vorrebbero parlare.

Ora, di là dalla rete, c’è il mio demone che si sublima come incenso nell’aria.

Il tennis, una microstoria incastonata non so come nelle mie settimane.

Inizialmente si tratta di sopravvivere alla forza atletica di Lorenzo che, oltre ad essere avvocato, è un buon calciatore. Ha l’agonismo nelle vene.

Io ho girato tre o quattro sport nella mia vita, senza mai riuscire a convincere un allenatore delle mie capacità. Finivo sempre per giocare le prime partite, scatenare una tempesta di aspettative, e poi passare il resto del campionato in panchina.

Ma adesso no. Ora è diverso. C’è qualcosa che mi dice che ne va del mio onore, non verso qualcuno, ma verso un’idea di me stesso. Arrivato a 28 anni io so che posso vincere questa partita. Lo devo fare, per rispettare l’amicizia con Lorenzo, perché se io non sono un muro di gomma ai suoi colpi, lo costringo a trovare nuove soluzioni, ad angolare i colpi, ad essere creativo.

Qui non c’è nessuno che può comprare il risultato. Una goccia d’acqua cade dal soffitto del pallone facendo una piccola fossa nella mia metà campo. Fuori sta continuando a piovere.

Tra noi si consuma una storia, un equilibrio fatto di distanze, di continue ridefinizioni, di crolli dell’uno o dell’altro, di colpi inaspettati che portano l’altro a muoversi come mai avrebbe potuto fare. Ognuno di noi cerca di vincere in un gioco che ci incatena insieme. Sia il vincitore che il perdente usciranno cambiati dalla sfida di stasera. E si aprirà così un nuovo capitolo della nostra amicizia.

A un tratto, sul 5 a 4, si apre la porta del pallone di plastica, alle mie spalle.

– No, cazzo – sussurro.

E’ Dimitri, ne intravedo la figura quadrata, la pelle liscia da eterno adolescente, con la coda dell’occhio. Dimitri è subentrato da qualche mese alla gestione degli impianti sportivi. E’ rumeno. Le cose tra noi non sono andate bene fin da subito. Arriva qualche minuto prima che scada la nostra ora, comincia a camminare su e giù sulla fascia laterale dicendoci di far presto, perché deve chiudere. Questo non lo posso sopportare. Dopo una giornata passata in biblioteca al dipartimento di sociologia, ad interrogarmi sul concetto di libertà nella società industriale, non posso accettare che qualcuno disturbi la mia ora di libertà fisica, motoria, che mi sono guadagnato e che ho pagato.

Ma lui insiste, vuole chiudere. Ho provato a fargli notare che mancano ancora cinque minuti. Ma lui continua a presentarsi puntualmente nei momenti più intensi della partita.

C’è inoltre una cosa ancora peggiore. Dimitri si è convinto che io ce l’abbia con lui perché è straniero. Non sente ragioni. Quando vado a pagare il campo non mi guarda nemmeno negli occhi, si chiude in una specie di integralismo di minoranza, fa la faccia afflitta come un profugo e ogni volta mi fa sentire una merda.

L’altro giorno, erano appena passati cinque minuti dallo scadere dell’ora, è entrato in campo e ha cominciato a rastrellare la rena mentre ancora stavamo giocando, senza dire una parola. Va bene Dimitri, sei stanco, lo capisco, ma caspita, avrai venticinque anni, potrai resistere in piedi fino alle dieci e mezzo?

Oggi Lorenzo ha trovato una strategia per permetterci di finire la partita.

– Allora Dimitri, facci da arbitro per queste ultime palle. Dai, per favore.

Lui guarda un po’ Lorenzo, un po’ la rete, poi si sistema sulla sedia da arbitro e lascia andare un «Vai» strascicato.

Sono alla battuta. Voglio chiudere il game. Frusto una prima palla a grande velocità, ma il suono non è dei migliori, qualcosa di intermedio tra il piatto corde e il materiale plastico-sintetico della racchetta. La palla si schianta sulla rete e poi rimbalza sulla mia metà campo. Ho una seconda possibilità. Batto molto lentamente, per assicurarmi di non fare doppio fallo. La palla vola dall’altra parte. Mi preparo ad accogliere il colpo di Lorenzo.

Quando sento una voce che mi fa rabbrividire.

– Out!

– Out? Ma cosa…

Dimitri scende e prende il rastrello accingendosi a pulire il campo.

– Ma… ma se era dentro di mezzo metro?

Lorenzo dall’altra parte è rimasto fermo, non sa cosa dire.

Lo guardo. Avrà anche lui visto qualcosa.

– Tommy, onestamente sembrava anche a me fuori.

Mi ci vuole un po’ per ritrovare la calma. Giro per tutto il campo  raccogliendo palline. Le conto, ne perdo una, due, le raccolgo, le conto un’altra volta.

Poi ci dirigiamo tutti e tre verso la segreteria, dove dovrò pagare. Dimitri con la sua aria spaesata o sorniona, forse un misto di entrambe le cose. Lorenzo che continua a ripetere «bella partita, intensa, combattuta, no?», cercando di farmi sorridere. Io con la racchetta che spunta dalla borsa e, nell’altra mano, l’ombrello.

Entriamo nella stanzina. Dimitri apre il suo registro.

– Ah, Morozzi. Avevi due campi.

– Due? No no, io sono Colozza.

– Caspita, è vero. Hai ragione.

Poi accade un fatto. Qualcosa di insignificante, ma che fa la storia. Trovo chissà dove un briciolo di felicità e dico: – Morozzi, Colozza, hai ragione, siamo simili.

Dimitri prende i soldi e per la prima volta mi guarda negli occhi. Ha il viso glabro, luminoso, le guance un po’ infantilmente arrossate. Sorride.

– Grazie –, dico, e mi allontano con Lorenzo che è già qualche metro avanti, e guarda la pioggia sottile cadere sulle lamiere delle case.

 

 

 

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19 commenti »

  1. L’immagine della città calata tutta sull’asfalto mi è piaciuta davvero tanto…
    Molto bello anche come racconti il rapporto che hanno i due amici che si parlano senza preoccuparsi del giudizio.
    La figura di Dimitri è ben delineata e contribuisce a definire un finale delicato 🙂

  2. Molto bello. Complimenti.

  3. Ti ringrazio Alessandra

  4. Bel racconto sul tennis e sulla vita. Posso aggiungere che invidio i campi da tennis coperti?

  5. Grazie, il campo da tennis coperto è un po’ un microcosmo!

  6. Un racconto che vede il tennis un po’ metafora della vita… un bel modo per far amare lo sport e far capire che è utile per staccare la spina dopo la giornata trascorsa al lavoro. Anch’io ho trasformato uno sport in una metafora della vita e ci ho costruito su un romanzo in cui la vita dei personaggi si svolge come una partita di pallapugno. Complimenti!

  7. Bel racconto, scritto molto bene.

  8. Grazie del commento a “Enoizanigammi”. Scrittura fresca ed accattivante, bel racconto!

  9. Questo è l’esempio di come si può fare un bel racconto su una trama di per sè “banale”. Nello scrivere non conta tanto l’originalità di quello che si dice, ma “il come” lo si dice.
    Se ti capita, prova a leggere il mio racconto “Casa”. Mi piacerebbe sapere che ne pensa chi riesce a scrivere davvero bene delle semplici cose di tutti i giorni. E sii onestamente feroce, mi raccomando!!!
    Ancora complimenti!

  10. Ciao Laura, anch’io penso che l’importante sia “come” si dice. E’ la ricerca dello stile… che rifletta la particolarità di un’esperienza, di una sensibilità. Grazie per il commento, leggo il tuo racconto molto volentieri.

  11. @ Sara Maria Serafini L’immagine della città “calata tutta insieme sull’asfalto” è centrale nel racconto, sebbene sia scritta all’improvviso, quasi a margine. Sarebbe bello capirne meglio il significato. Si accettano suggerimenti! Ora leggo il tuo racconto.

  12. Nello sport può capitare di finire riserve in panchina (a me è successo nel basket). Nella vita dovremmo cercare di sentirci tutti non tanto vincenti, ma almeno titolari, giocare la nostra onesta partita. E non importa se arriva un Dimitri qualunque a fermarci sul più bello.

  13. Colozza si dimostra forte quando riesce a non fare scenate per una chiamata che fa sorgere il dubbio che Lorenzo e Dimitri sapevano già cosa bisognasse fare, in caso di bisogno, durante gli ultimi cinque minuti. Colozza ha scelto di dare più importanza all’amicizia che non all’esito di una singola sfida. Facendo così ha già iniziato a prendersi una bella rivincita.

  14. Sport come metafora della vita e vita come metafora dello sport.
    Metafora o meno, il tuo racconto, Stefano, è potente, nella sua semplicità.
    Chissenefrega, in fondo se qualcuno arriva a fermarti sul più bello, nello sport o nella vita?… L’importante è mettere la testa a cassetta e ricominciare.
    Perché anche al panchinaro più incallito, prima o dopo, capita l’occasione della vita.
    L’importante è farsi trovare pronti.
    Molto ben scritto, stile semplice e diretto. Apprezzo.
    A presto,
    Nikki
    PS: in panchina ci siamo finiti tutti: per me era il nuoto 🙂

  15. Grazie per i commenti, e per il piccolo dibattito sul finale. Sono d’accordo con Roberto quando dice che, se non sempre si è vincenti, l’importante è continuare a essere “titolari”, non lasciarsi andare in balia delle decisioni che gli altri prendono su di noi.
    Si è sempre protagonisti della propria storia, la vita in fondo non conosce né sconfitte né vittorie permanenti.
    Però non definirei Dimitri un guastafeste e basta. E’ un’opportunità di riappacificarsi con il diverso e in fondo Colozza, come scrive Roberto, cerca amicizia, vorrebbe riappacificarsi con gli altri, come se fossero ognuno una parte della sua anima.
    La scena è inventata, ma quel “siamo simili”, detto a un ragazzo rumeno che fa un mestiere tutto sommato non troppo gratificante, allude a qualcosa che va oltre la correttezza o meno di un cognome, è uno sprazzo surreale, un momento di empatia come ogni tanto capita che si aprano nella giornata. Questa certo è la mia interpretazione, ma mi piace molto che il testo possa suscitarne altre, e vada libero da me….

  16. @ Nikki Simonetti Grazie Nikki! Sport come metafora della vita… in fondo la competizione esiste, c’è poco da fare. E’ bello, credo, quando è corretta, quando ogni competitore è libero di esprimersi. Ma vita e sport hanno anche altro in comune. Attraverso il tennis ho pensato a cose come “la distanza con le persone”, il “mantenere viva la palla”, con cui poi mi trovo a fare i conti nella quotidianità.
    A presto,
    Tommaso (non Stefano! : ) )

  17. … bello

  18. Il racconto mi è piaciuto molto, scritto bene e incisivo.
    Mi piace lo spirito di sano e leale agonismo che anima il protagonista a giocare per vincere anche la partitella tra amici.
    Efficace l’idea dell’errore di persona Colozza / Morozzi da parte di Dimitri, che serve a spiegare l’atteggiamento un po’ ostile che Dimitri aveva verso il protagonista del racconto.
    E ho apprezzato molto il fatto che il sorriso del ragazzo rumeno restituisca felicità al protagonista, nonostante il custode del campo abbia pesantemente condizionato la sua partita.
    Però lo sport insegna anche questo: oltre alla partita, c’è qualcosa di ancora più importante.
    Lo sport diventa spesso veicolo di messaggi positivi.
    Al riguardo, ci sono molti esempi illustri, in diversi ambiti sportivi.
    Per restare in quello tennistico, prendendo spunto dal tuo racconto, mi piace ricordare la finale di Coppa Davis del 1976 che l’Italia andò a vincere a Santiago del Cile, all’epoca di Pinochet.
    A quel tempo, creò molte polemiche il fatto di dover giocare davanti ai gerarchi di quel regime sanguinario.
    Però decisero, secondo me giustamente, di andarci lo stesso.
    E ora, a distanza di quasi quarant’anni, oltre che la vittoria italiana, si ricorda un gesto molto particolare legato a quella finale: gli atleti italiani giocarono il doppio con due magliette rosse.
    Decise Adriano Panatta che convinse pure Bertolucci.
    Scesero in campo con due magliette rosse e così giocarono tutta la partita, in segno di sfida e protesta contro quel regime.

  19. Ciao Gioacchino, ti ringrazio, anche per avermi raccontato questo episodio di politica e tennis che non conoscevo. Sì, lo sport può avere un grande valore simbolico, penso anche a squadre di nazioni ricche e industrializzate che si scontrano con paesi poveri, a volte competitivi.
    Mi viene in mente un episodio che riguarda la squadra di calcio Austriaca. Quando Hitler annetté l’Austria volle anche fare un’unica nazionale di calcio. Il centravanti Matthias Sindelar, uomo di punta della squadra austriaca, si rifiutò di giocare.
    Non so se già lo sai, ma curiosando su internet ho visto che nel 2009 è stato fatto un documentario sulla finale di coppa Devis del 1976: “La maglietta rossa”.
    Riguardo allo spirito del racconto hai colto due punti importanti. Credo che impegnandosi a fondo, anche nella cosa più piccola, si ottenga sempre qualcosa di buono. L’agonismo è uno stimolo alla conoscenza reciproca, se ci si ricorda che l’altro è una persona, con pari diritti e pari dignità.
    Resta il fatto che tutto questo, in un racconto, necessità di uno “stile”, e questo anche per me è un mistero. So solo che ci ho lavorato molto…
    Un caro saluto,
    Tommaso

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