Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Aurora” di Clara Santin

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Quando arrivò al bar per mostrare la foto agli amici, il loro sarcasmo lo deluse: una ragazza aveva risposto al suo annuncio, ma non una qualsiasi, guardate un po’ lì! “ Ma va là, sarà so nevoda”, sarà la nipote, fu il commento più benevolo. Rino non era quel che si dice un bell’uomo e tanto meno fotogenico, per cui era davvero strano che una bella ragazza, benché matura, fosse pronta a sposarlo, senza neanche conoscerlo. Era basso di statura e tarchiato, moro, le orecchie un po’ a sventola e i radi capelli ricci: insomma più che veneto, pareva un comacchiese. Si era lasciato convincere a scrivere quell’annuncio dopo tante esitazioni e in molti al bar, “da Chiereghin”, gli avevano preannunciato: “ti vedrà che scorfano te tocarà per mujere: quele bele se li tien i calabrisi e ai pataca come ti i ghe dà quele brute e coi bafi”.

Usava in quegli anni, trovarsi moglie per procura: molti scapoloni, induriti dal lavoro e dall’ignoranza, immersi tutto il giorno fino alla vita nella nebbia e nell’acqua salmastra della laguna, non avevano mai avuto una “morosa” tanto da averne quasi paura. Ma al cospetto di quelle donne dai visi arcigni, diventavano all’improvviso cagnolini scodinzolanti con il collare al collo, felici nel talamo nuziale. Fin da quella prima foto ingiallita e spiegazzata, si vedeva subito che la ragazza di Rino era diversa. Aveva un viso radioso e il sorriso contagioso. E poi la bocca, così carnosa e rossa, resa ancor più evidente dal rossetto vermiglio. “La g’avrà un palasso e un mulìn”, lo prendeva in giro mio padre, giocando sul doppio senso e facendo intendere che le uniche ricchezze della famiglia sarebbero state un palo marcio ed un piccolo mulo. Seguendo l’onda delle chiacchiere, da Chiereghin arrivò pure il maestro Bertarelli, detto “el busiaro”, il bugiardo, per via delle tante, troppe, incredibili avventure che ogni tanto buttava lì sul tavolino del bar, come i carichi a briscola. Padovano di nascita, si era fermato nel Polesine, dove un maestro elementare era stimato più del Sindaco.

“Tasìghe, gnoranti che no savè gnente del mondo! Fà védar a mi, Rino, che conosso le done vardandole nei oci: ti gà da pensar che una volta g’ero in Eritrea a casa de un pascià…”. “Eh maestro, ‘sta busìa qua no la gh’aveva mai contà e po’, coss’elo un passià?”. “Voialtri sì cussì gnoranti che se sente la puzza fin sula piassa”.

“Ma in Eritrea, come fasévalo , maestro, a soportar tuto chel caldo…” lo provocava sornione mio padre. “Ti de disi cussì perché no te a gà fato, come mi, la campagna de Russia; a marciar con sinquanta gradi soto zero, fioi, me sognavo el caldo africano…”.

“Eh questa la pago ma no la bevo, sior maestro… anca la campagna de Russia el g’ha fato!”

Rino, rimpossessatosi della sua foto, se ne tornò a casa con lo sguardo basso ed il cuore pieno di speranza.

Aurora arrivò in paese accompagnata dal neo sposo in una bella mattina d’estate con il sole argenteo e l’afa che prendeva alla gola. Capelli neri corvino raccolti in una folta coda, grossi cerchi dorati alle orecchie e una generosa scollatura del vestito che a stento tratteneva l’abbondanza del seno; quando passò davanti al bar tutti rimasero sbalorditi: “vòlheo conosèr gli amighi di Vitorio” disse in un italiano oriundo infilandosi spavalda da Chiereghin, prima donna a mettervi piede. Non era molto alta, ma le sue forme rispecchiavano la generosità dell’animo e l’allegria nel gustare la vita attraverso tutti i sensi. D’origine lucana, era emigrata con la famiglia in Brasile, a S. Paolo all’età di 10 anni, poco dopo la fine della guerra. Non aveva mai fatto ritorno al suo paese se non l’estate prima, quando un po’ per scherzo ed un po’ per malinconia aveva accettato la proposta di Vittorio, come lo chiamava lei, per non sminuirlo e come anche mio padre cominciò a chiamarlo, per sfotterlo. Aveva avuto le sue storie e le sue disavventure con gli uomini, ma l’animo buono e un po’ infantile la disponevano sempre all’ottimismo ed a cercare il positivo in ogni situazione, compresa la forzata convivenza con la vecchia suocera che fu sempre sospettosa di quella “terona”. Vittorio fino ad allora aveva conosciuto solo l’amore a pagamento, ma era stato contento così;lavorava come banditore al mercato del pesce. “Diese scudi, venti scudi, trenta scudi, trenta e uno e do e tre: a Boscolo per trenta scudi” e quel lavoro gli aveva insegnato a capire gli uomini non dalle parole, spesso fuorvianti, ma leggendone i volti. La “pescheria” gli lasciava addosso un che di salmastro, non certo gradito alle donne che a quei tempi preferivano sentire sui maschi l’odore della benzina o il profumo dolciastro delle sigarette americane. Mio padre fu il primo a dare il benvenuto ad Aurora: ne fu sempre affascinato e rimase convinto che fosse sprecata per quell’uomo, buono sì, ma un po’ troppo semplice. La loro fu una lunga, sorprendente storia d’amore. Non ebbero figli, né li cercarono, si bastavano così. Aurora era una maga delle conserve casalinghe: dalle melanzane, alle pesche, dai peperoncini piccanti (qualche maligno dice che la vecchia suocera sia morta per questo!) alle anguille!

Rino provava a convincere gli amici al bar su quanto le anguille marinate fossero buone. Nel Delta del Po si mangiano alla brace o, se sono piccole, si preparano in brodetto o in saòr. Tutto il paese si abituò a quella creatura bizzarra, venuta dal Brasile e che parlava con quelle “elhe” un po’ impastate come i ferraresi. “Una terona l’è sempre terona, anche se la vièn dal Brasil”, commentavano le donne mentre facevano la spesa. Aurora con la sua allegria, la generosità dell’animo e del corpo, ubriacava gli uomini più di una bottiglia di Tocai friulano. Conservò sempre un certo pudore mediterraneo: amava il suo Vittorio e raramente faceva qualcosa senza di lui o senza dirglielo, come quando decise di cercarsi un lavoro. Gli disse semplicemente: “Domani vado a lavorare al laboratorio tessile.” Le piaceva ballare, ed il sabato sera trascinava il marito in pista dal primo valzer all’ultimo ballo di gruppo e lui, per tenere il passo, sudava davvero più di una camicia di cui lei teneva adeguata scorta in borsa.

Per Vittorio furono gli anni più belli: la sua vita monotona, con l’unico obiettivo di metter da parte il gruzzolo per seppellire la madre e se stesso, si era trasformata; con Aurora viveva la vita che voleva. Anche lei era contenta. Le mancava però qualcosa: non tanto la sua famiglia o la sua Maratea dove si recava ogni estate con la Prinz verde del marito; ciò che le mancava era il caldo, l’atmosfera e la gente del Brasile. Non riusciva proprio ad adattarsi a quel clima umido e malinconico del Polesine, a quel dialetto aspro e tronco, troppo veloce per essere compreso al volo. Anche la gente del paese, abituata ad avere come unico svago le gioie del sesso, nel buio degli argini e nel silenzio della notte, non riuscì mai a capirla. Piano piano si fece sempre più forte la nostalgia di San Paolo: ”non voglio morir polesana” confessò al marito. Il richiamo d’oltreoceano stava mettendo radici…

In paese si chiacchierava : “I parte per el so paese, ”. Mi lo go sempre dito: no la s’è né come noialtre, né come le altre terone, mule sì, ma sensa tuti sti grili par la testa”. E poi abbassando il tono di voce, qualcosa più di un presagio: “ no i tornan più indrìo , ve lo digo mi!”.

In realtà Rino era perplesso: i cognati lo trattavano un po’ da povero gnoco; era a disagio con loro, non capiva la lingua, e quel sole che ti coceva come un’anguilla sulla gratella… Doveva avere il tempo di ambientarsi, in modo da capire se effettivamente si sarebbe trovato bene senza il bar Chiereghin dove qualcuno mormorava: “Sì, voria vedar con chi el farà la scoa in Brasil ”; senza il suo paese insomma, così rassicurante anche se probabilmente il luogo dove il Creatore spedisce la gente quando si arrabbia. Arrivò dicembre e partirono con l’intenzione di passare a San Paolo le feste di Natale, poi …si sarebbe visto. Per San Silvestro, Aurora aveva preparato una sorpresa al marito: aveva prenotato un tavolo assieme al fratello ed alla moglie alla Casa do Samba: un enorme sala dove servivano la cena con champagne cileno, dotata di una pista da ballo dorata e di una cascata di luci intermittenti. Ballarono tutta la notte e Vittorio pensò “stà vita no la s’è male e con la nostra pensiòn faremo i siori qua”. Tornarono a casa all’alba, felici, un po’ ubriachi e un po’ intorpiditi dalla frescura della notte. Si misero subito a letto e ridendo si augurarono la buonanotte. Verso mezzogiorno lui si svegliò con quel leggero mal di testa che colpisce gran parte della gente il primo dell’anno. La moglie stranamente dormiva ancora e per non svegliarla, scivolò giù dal letto silenziosamente. Alle due, ora di pranzo si accorse che Aurora se n’era andata, nel sonno, ridendo.

Duro, incredulo, disperato, pensava solo a portasela a casa, dall’altra parte del mondo.

Si opposero i famigliari ma soprattutto il medico legale: quel parlottare in lucano-portoghese gli dava sui nervi “che casso disei?!” ed alla fine fu deciso che Aurora sarebbe stata sepolta lì nel vicino cimitero dove già riposavano tutti gli amici e parenti venuti da Maratea. Vittorio, mulo, fece capire che non se ne sarebbe andato senza la salma della moglie; arrivarono ad un compromesso: dopo cinque anni il tempo necessario per la decomposizione dei corpi a quella latitudine, le ossa sarebbero state cremate ed il marito avrebbe potuto portarne in Italia le ceneri. Con in tasca questo accordo, firmato e siglato da un notaio, fu accompagnato all’aeroporto e rispedito in Italia. Nel garage trovò decine di barattoli con conserve di ogni tipo: aveva scorte alimentari per anni, non avrebbe dovuto cercarsi subito una donna. I cinque anni passarono lenti ma inesorabili, durante i quali pochi furono i contatti con i parenti acquisiti: lui si era di nuovo rinchiuso nel suo idioma polesano e gli riusciva troppo faticoso al telefono sopportare quel linguaggio così incomprensibile eppure un tempo tanto familiare. Non aveva più tanta voglia neanche di ballare: passava le serate a giocare a scopone o a briscola al bar, ascoltando e sorridendo alle “monade” dei compagni di gioco. Si risvegliava dal suo torpore solo quando qualcuno, entrando diceva “Gato savesto chi s’è copà ?” Hai saputo chi è morto?. “No, chi”? “El fiolo de Marangon, el s’è ribaltà co’ la moto, zò dal’arzene del Po de Cà Venier”. “Ohhhh, poreto!”.

Alla fine di gennaio si preparò di tutto punto: prese la borsa di similpelle, vi mise poche cose, giusto il necessario per rimanere qualche giorno, il minimo indispensabile per sbrigare la faccenda. Arrivò a Roma e lì, dopo aver sbagliato più volte il cancello d’imbarco, salì finalmente sull’aereo. I due fratelli di Aurora lo accolsero a San Paolo e gli raccontarono del vecchio padre, andato nel frattempo a raggiungere la moglie e la figlia. Il soggiorno in realtà non fu breve ed anzi si trasformò in una via crucis attraverso uffici comunali, legali, avvocati, procuratori, per le autorizzazioni necessarie alla riesumazione della salma ed al trasporto delle ceneri in Italia. Il dialogo con i funzionari brasileri a cui Vittorio rispondeva nel suo dialetto era esilarante ed assurdo assieme. Alla fine però, l’impiegato del servizio mortuario  brandì il timbro e lo calò pesantemente sul foglio che malamente lanciò nella direzione di Vittorio: ce l’aveva fatta!.

All’aeroporto abbracciò il cognato per l’ultima volta, convinti entrambi che non si sarebbero visti  mai più. Imbarcò l’urna e salì sull’aereo. Atterrò a Roma alle cinque del mattino , sentendosi quasi a casa; sorrise contento quando, chiedendo quale fosse il nastro per ritirare i bagagli del suo volo, qualcuno gli rispose “ahò ce stanno li cartelli”. Rimase lì incollato per due ore, in attesa di veder scorrere il suo pacco, poi, consigliato da un facchino, si recò all’ufficio per denunciarne lo smarrimento: intervennero diversi impiegati e qualche poliziotto ma non fu facile spiegare il perché di quello strano bagaglio. Mostrò anche l’atto dell’ufficio mortuario, scritto in portoghese “; boh, che ce sta scritto qua?” Alla fine riuscirono a liberarsi di lui imbarcandolo su un aereo per Venezia e assicurandogli che presto gli avrebbero recapitato tutto a casa a spese dela compagnia aerea.

Passò una settimana, poi un’altra: continuava a telefonare parlando ogni volta con un impiegato diverso a cui raccontava la sua sfortunatissima storia . Niente. L’angoscia e la rabbia contro il destino lo facevano imprecare e rendevano cupo il suo volto. Nessuno osava più chiedergli notizie della moglie.

Dopo due lunghissimi mesi probabilmente lo spirito di Aurora s’intenerì ed intercesse per lui: una mattina fu chiamato al centralino del mercato del pesce ed una voce squillante di giovane donna gli annunciò “g’avemo trovà el so paco, sior Finotti, l’è chì , al Marco Polo. Se la vien subito a ghe lo demo sensa tante formalità”.Vi arrivò un’ora dopo e, firmate con zelo alcune carte, poté finalmente riabbracciare la sua Aurora.. Il pacco era malamente imballato e conteneva una cassettina di metallo simile a quei salvadanai che le Casse di Risparmio una volta regalavano ai figli dei clienti per invogliarli  al risparmio. La scosse più volte, sorpreso e sospettoso che tutta sua moglie potesse stare lì dentro; fu tentato di aprirla ma non lo fece: erano di nuovo insieme e nient’altro voleva sapere.

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5 commenti »

  1. Bella storia davvero, che si legge tutta di un fiato. Ho apprezzato molto anche le parti in dialetto che aggiungono atmosfera. Una cosa però non mi è chiara: chi è il narratore di prima persona che si affaccia di tanto in tanto?

  2. ciao Giovanna, grazie per il commento positivo: quello che più desideravo era proprio trasmettere quell’atmosfera tipica del Delta degli anni in cui io ero bambina e ogni volta che ci penso, la rivivo nelle espressioni della gente, in quell’ironia che accompagnava la quotidianità e nella quale, io stessa, come Achille nello Stige, fui immersa, da mio padre. Dimenticavo: la storia è vera, c’è veramente poco d’inventato e , in quanto figlia di uno dei protagonisti, ogni tanto, indirettamente… mi affaccio!

  3. Ciao Clara, bellissima storia (che storia poi non è)! La go sentia così vera che me pareva d’esser lì. A parte tutto ho sentito la spussa del Delta e delle anguille nonchè il caldo a Rio di dicembre. Commovente e vera…complimenti e auguri di tutto cuore perchè è originale!!
    P.S. ho conosciuto anch’io la nostalgia del caldo natale in Sud America! 🙂

  4. Racconto davvero carino…bella l’atmosfera..

  5. veramente bello, hai ricreato e trasmesso bene tutto un clima, coinvolgente e toccante!

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