Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Panìn” di Laura Montagna

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

E’ buio. E lei ha freddo. Un freddo terribile.

Ha camminato per ore, sempre in salita, sprofondando nella neve. Da quanto tempo se ne sta accovacciata a battere i denti senza riuscire più a muovere un passo? Mani e piedi non li sente più da un pezzo. La frontiera sarà ancora lontana? Potrebbe averla già raggiunta ma non essersene accorta. Non c’è nessuno lì, a parte quello spicchio di luna che ogni tanto guarda giù dal cielo nero. Povera Luna. E’ così piccola che non ce la fa ad indicarle la strada. Ma lei non dovrebbe aver paura del buio. Come la luna lo conosce bene. Dove altro ha passato la sua vita se non in mezzo alle tenebre?

Eppure tanto tempo prima di luce ce n’era, quando la mamma le diceva quanto era bella e il sole spendeva alto e caldo nel suo cielo. E a sedici anni bella doveva esserlo davvero, con le trecce bionde e la pelle bianca e morbida come il burro appena fatto.

– Sembri proprio un panìn de bütér, un panino di burro. – le diceva sua madre, pulendosi le mani nel grembiule da contadina e pizzicandole le guance. Per la mamma lei era Panìn, Panìn e basta. Era el Pa’ che la chiamava con il suo vero nome. Dopo. Quando la mamma non c’era più. Quando era cominciato il buio.

Allora el Pà se ne stava via per tanto tempo. Tornava solo per sedersi davanti al focolare la sera, portandosi dietro quei suoi amici che ridevano forte.

– Vai a prendere il vino! Abbiamo sete! – le ordinava ghignando sotto ai baffi umidi. E lei scendeva le scale e portava su il vino, mentre quelli la fissavano in un modo che le faceva paura.

Poi una volta uno di loro la aveva presa per un braccio e la aveva spinta giù nella cantina, contro il muro umido. Il suo fiato sapeva di vino mentre le alzava la gonna e la toccava dappertutto. E lei aveva sentito male. Un dolore che pareva venirle da dentro, tanto forte che avrebbe urlato se quello non le avesse tenuto una mano sulla bocca.

Ed era successo ancora e ancora tante volte prima che el Pa’ andasse a parlargli insieme all’ Av’ 1, di cui tutti in paese avevano rispetto.

E adess la tusa te l’è de spüsala!2 – gli aveva detto il vecchio, con uno sguardo di fuoco negli occhi stretti a fessura e pestando un gran pugno sul tavolo.

Fatte le pubblicazioni, le amiche non smettevano di dirle che era fortunata, che la invidiavano. Il Livìs era così bello! Ed era vero. Era alto, con i baffi sempre ben piegati e un gran sorriso. Ridacchiavano quando le salutava con il baciamano, proprio come fanno i sciùr, i signori. Mica lo sapevano loro quello che combinava al buio, in cantina. Però lei era contenta di sposarsi. Avrebbe avuto una casa sua, anche se di due sole stanze e nera di fumo, e non avrebbe più dovuto obbedire alla nonna né al Pa’. E poi adesso il Livìs la trattava bene, da bravo fidanzato. Le portava i fiori, le sfiorava appena la mano, con gentilezza, la baciava sulla guancia. E lei alla cantina non ci pensò più.

Ma dopo la cerimonia tutto ricominciò. Come prima. Peggio di prima. La notte delle nozze le fece così male che sanguinò per un gran pezzo.

Quando fra le lacrime lo implorava di lasciarla stare, lui le diceva che era sua moglie e Dio voleva che fosse così fra marito e moglie. Lei rispondeva che Dio era buono e non poteva essere contento di far soffrire le sue creature. Allora lui urlava di non bestemmiare e cominciava a picchiarla, perché era stupida, cattiva e non faceva il suo dovere. La rotolava sul pavimento, le tirava i capelli. E poi ricominciava, mentre lei si sentiva spaccare in due.

Ogni giorno pregava davanti alla Madunina del Rusari, quella dipinta sul muro della casa, con il vestito blu e le labbra rosse rosse come le sue, perché le desse la forza di sopportare tutto, e dopo un po’ di tempo la bella Signora del Cielo doveva essersi impietosita. Quando il Bepìn le saliva sopra lei poteva uscire dal proprio corpo. Era come se la sua anima volasse via, e se ne stesse a guardare dall’alto del soffitto mentre lui faceva i suoi comodi. Ma anche così con l’andar del tempo la bela tusa diventava sempre più magra, le guance scavate, gli occhi spenti. La mattina faticava ad alzarsi e a lavorare nella vigna o nella stalla. Eppure non faceva figli, non rimaneva incinta. E così non riusciva più a guardare nessuno negli occhi perché le sembrava che avessero tutti qualcosa da rimproverarle. Come se sapessero che non era una brava moglie, che non faceva il suo dovere. Si sentiva sempre più triste. Sempre più sola.

Ormai usciva dal suo corpo ogni volta che il Livìs le si avvicinava, e non se ne stava più lì a guardare dal soffitto, ma aveva imparato ad andarsene lontano, volando via sopra alle case e ai pascoli. Portata dal vento si innalzava sulla sua valle, seguiva il greto del torrente, rincorreva i camosci su e giù per i pendii. E cominciò a succederle anche quando incontrava gli sguardi cattivi degli altri, quando non voleva ascoltare quello che le dicevano, o semplicemente quando si sentiva triste. Allora lasciava lì il suo corpo e se ne andava. Saliva in alto, verso i boschi di pini a respirare l’aria fresca e profumata delle cime. Era come se sognasse, ma era ben più di un sogno. Quello che vedeva era così vero, che non poteva proprio esistere solo nella sua testa.

E poi arrivò lo svizzero. E fu come quando il vento scuote le cime degli alberi, o il fulmine accende la notte di luce e di rumore. Gli occhi dello straniero, più azzurri del cielo in primavera, si fissarono indelebili nell’anima sofferente di lei e il suo sorriso parve aprirle un mondo intero dentro al cuore. Un mondo nuovo.

– Cosa ci fa qui un angegher3? Sarà mica venuto a dare la caccia ai contrabbandieri? –

– E’ facile. E’ arrivato sulla camionetta insieme a quei due panau4. –

– Starà cercando qualcuno. –

– Ma chi di preciso? Quasi tutti i nostri uomini portano la bricòla5! –

Però lei non ascoltava. Dentro agli occhi dello straniero aveva trovato tutto quello che non aveva mai visto, tutta la vita che non aveva mai vissuto. Le era parso di nascere un’altra volta, quasi lui fosse un angelo, un altro dono della sua Madunina dalle belle labbra. Quell’azzurro lei non riuscì più a toglierselo dalla testa. Né di giorno, né di notte. E lo straniero cominciò anche a parlarle.

Panìn, le diceva, Panin! vieni via con me. Vivremo insieme in mezzo alle montagne più belle, ai boschi e ai prati più verdi che tu abbia mai immaginato. Sarai finalmente felice.

Allora lei si voltava verso il Livìs che russava forte e lo svizzero continuava:

Non pensare a lui. Devi solo avere il coraggio di alzarti, uscire in strada, prendere il sentiero dei monti e passare la frontiera. Fallo Panìn! E’ così facile! Fallo, e io sarò là a riceverti.

– Ci sarai per davvero? – mormorava lei.

Ma se sono già qui che ti aspetto, Panìn! Fai presto! Fai presto! …

Le piacevano così tanto quelle parole! Qualcuno la aspettava, e saperlo le rallegrava il cuore.

E alla fine lo fece. Trovò il coraggio necessario, e quella sera lo fece.

Il Livìs era tornato a casa e la aveva spinta sul letto e lei, come al solito, aveva cercato di volarsene via. Ma non ci era riuscita perché continuava a sentire quelle parole, sempre le stesse:

Panìn, vieni! Vieni da me!

E allora aveva spinto via il Livìs con una forza che nemmeno sapeva di avere e lui era quasi finito per terra. Poi si era alzata in piedi, guardandolo dritto in faccia.

– Cos’è che c’hai? –

Lei non aveva risposto. Aveva preso il secchio dall’angolo, quello pesante di ferro, e lo aveva colpito. Forte. Dritto sulla testa.

Non credeva che sarebbe caduto in quel modo, come un sacco di farina rimasto vuoto all’improvviso. Ma era andata esattamente così. Lui scivolò sul pavimento e non si mosse più.

Allora Panìn si era seduta sul letto tirando un gran sospiro, ed era rimasta a guardare il rivolo rosso che scendeva dalla tempia di lui e la chiazza scura che si allargava piano sul pavimento. Era restata ancora lì, immobile, non sapeva dire per quanto, mentre quella voce continuava a chiamarla con il nome che solo sua mamma aveva usato tanto tempo prima:

Panìn … Panìn …

Poi, con calma, si era alzata. Aveva infilato il cappotto, preso lo scialle e il fazzoletto di lana per la testa, era uscita chiudendo a chiave la porta, e aveva preso verso le montagne, verso chi la attendeva …

Da tempo la luna timorosa si è ritirata nel suo nido di nubi, bianche come
spettri, lasciandola sola. E lei è tutta rigida, le palpebre sempre più pesanti.
Però continua a vederlo il suo svizzero, bello e luminoso, simile a un angelo.

Vieni! Vieni da me! le dice. E tra poche ore, quando il sole tornerà a sorgere arrossando le cime dei monti, lei ritroverà il sentiero che nel buio non riesce a vedere. Lo sa che in fondo a quel sentiero c’è lui, il suo amore. E la aspetta … la aspetta ancora …

 

1 Il nonno, inteso come il vecchio saggio del paese.

 

2 – E adesso la ragazzina devi sposarla! –

 

3 Guardia di frontiera svizzera.

 

4 Quei gendarmi italiani.

 

5 La “bricola” è lo zaino del contrabbandiere. Quindi “portare la bricola” sta per “fare contrabbando”.

 

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16 commenti »

  1. Bel racconto, mi è’ piaciuta sia la storia che il modo in cui è’ scritta. Il finale e’ giustamente sospeso, nel senso che da’ ben poco da sperare.

  2. Racconto che narra con dolcezza una storia di maltrattamenti. I miei complimenti.

  3. Una storia scritta in punta di penna , con discrezione ma che ben traduce la sofferenza della protagonista.

  4. Ringrazio per i commenti.Questo racconto mi ha impegnata molto e sono davvero contenta di vedere che e’ stato apprezzato.Grazie a tutti!

  5. …un racconto crudo che mi ha fatto rabbrividire. Molto bello!!

  6. Un racconto, purtroppo, ancora attuale.
    Scritto bene.

  7. Racconto che crea un personaggio “reale”, senza compiacimenti, senza separare bene e male in modo forzato. Molto tenero nel descrivere le immaginazioni che danno alla protagonista la forza di ribellarsi.

  8. Accattivante e scritto molto bene. Apprezzo anche il pastiche dialettale…

  9. Grazie ancora! Ho cercato di raccontare una storia di per se cruda con la semplicità della sua protagonista. Sono veramente felice di leggere nei vostri commenti che, ci sono riuscita.

  10. Lauramon,
    un racconto molto bello, scritto con grand proprietà di linguaggio, di cui apprezzo soprattutto argomento e ambientazione.

    L’ambientazione – ce le fai toccare, Lauramon, quelle montagne; ci fai inspirare l’odore dei pini, e rabbrividire per il gelo che ti entra dai piedi, fino dentro le ossa.
    Starordinaria la delicatezza con cui tratti un argomento tanto crudo.
    La semplicità della protagonista è addirittura toccante, a tratti: non puoi non amare la dolcezza di Panin; per contrapposto, non si può non odiare la supponenza e l’arroganza del Livis, prototipo, qui, dell’uomo che pensa tutto gli sia dovuto da una donna (a maggior ragione, dopo averle infilato un anello al dito).

    Non è il Livis, alla fine, che uccide Panin e il suo sogno di una vita migliore: anzi, succede che accada l’esatto contrario.

    Tuttavia, è proprio lui, spinto da quella mentalità assurda, atavica, da uomo delle caverne di cui tante, troppe, testimonianze ci arrivano ogni giorno, a rendersi colpevole della propria morte, e di quella – possibile; anzi, più che probabile – di una moglie ‘inadeguata’.

    Vi siete rese conto, donne, signore e signorine là fuori, che in Italia UN GIORNO OGNI TRE, muore una donna ?…
    I motivi?… non ci sono mai. La maggior parte delle volte, le donne sono vittime ‘in quanto donne’: perché hanno lasciato un uomo violento o prevaricatore, di cui non erano più innamorate. Oppure perché non erano ‘abbastanza’ – inadeguate al ruolo che un uomo si aspetta una donna debba ricoprire.
    UNA DONNA.
    UN.GIORNO.OGNI.TRE.
    Incredibile.

    Una violenza di genere inspiegabile.

    Dico, se un’altra categoria di persone – una qualunque: preti, ferrotranvieri, metalmeccanici, imprenditori, cantanti, attrici – venisse trucidata in maniera regolare con la medesima cadenza, scoppierebbe una rivolta, a dire poco.

    Invece, qui, nessuno fa nulla: perché da noi, purtroppo, la violenza sulle donne, ahimé, è tuttora un fatto endemico, che affonda le proprie radici in una cultura patriarcale che di fatto assolve pratiche sociali ad indirizzo misogino (non vi sentite tuttora un po’ discriminate, a portare la gonna, in Italia?… Non so voi: io sì).
    Be’, signore. Che dire? Iniziamo a rispettarci, perché non vi siano più Panin.

    Brava, Lauramon.
    Avevo in animo di scrivere io, sull’argomento.

    L’hai fatto tu, tra l’altro in maniera divina. Quindi mi astengo.

    Un abbraccio a tutte.
    Nikki

  11. … Che dire, Nikki? … Un simile commento sarebbe il sogno di un sacco di grandi scrittori, figurati cosa significa per un’esordiente!!
    Grazie di cuore, soprattutto per aver capito al di là della ” letteratura ” quello che volevo dire con questo racconto.
    un abbraccio anche a te e un in bocca al lupo.

  12. Bella storia e il finale è una vera chicca, complimenti! Come già detto da qualcuno precedentemente, questa è una storia ancora disgustosamente attuale…ma alla fine è bello vedere che il coraggio, che si pensava non avere, viene fuori…con tutta la sua energia!

  13. Il racconto è molto bello, scritto con buona padronanza narrativa e con una penna leggera, nonostante la drammaticità del tema trattato.
    Molto curata l’ambientazione, dentro la quale proietti magicamente il lettore.
    E’ una storia ambientata in un paese di confine, tra le montagne, in un’epoca che spero si riferisca a qualche decennio fa.
    Ma, oltre che una storia di maltrattamenti e violenza, io ci ho letto una vera denuncia sociale.
    Infatti i maltrattamenti subiti da Panin sembrano quasi “istituzionalizzati” .
    Dopo le prime violenze, anche i parenti stessi della ragazza sanno chi era l’uomo della cantina.
    Ma al reato non segue una condanna, morale e giuridica, come ci si dovrebbe attendere.
    Segue invece un matrimonio “riparatore”.
    E neppure dopo le nozze fa seguito un affrancamento dalla sottomissione attraverso il nuovo ruolo di moglie. Anzi. La violenza prosegue, senza nemmeno più la possibilità che venga a cessare, perché ormai è “legalizzata” dal suo nuovo ruolo di moglie.
    E’ questo quello che mi ha colpito ancora di più, come se tu avessi voluto indicare il vero e proprio percorso che attraversa la protagonista.
    Da vittima, a moglie. E, nel ruolo di moglie anche vittima “istituzionalizzata”.
    In questa storia è chiaro che esiste una bestia, l’uomo della cantina, poi marito, che è il primo colpevole della sofferenza di Panin.
    Ma esistono anche altri colpevoli, che tendono a coprire quella violenza subita da Panin e a convertirla in situazione permanente.
    In effetti è quello che, a volte, purtroppo, succede anche nella realtà odierna, all’interno dell’ambito familiare.
    Con una differenza però. In questo racconto la realtà descritta è ancora più raccapricciante, perché le violenze non iniziano dopo il matrimonio, ma addirittura prima.
    Come sottolineato anche da altri, è straordinario il modo con cui hai affrontato una realtà tanto raccapricciante in maniera lieve, con una narrazione che a tratti appare quasi fiabesca.
    Certamente è un racconto che lascia il segno e in cui dimostri delle qualità narrative davvero notevoli.
    Faccio un’ultima considerazione, che però esula dal tuo racconto.
    Il tema dei maltrattamenti sulle donne è un tema delicato e purtroppo sempre attuale.
    Sicuramente la prima causa è un certo tipo di mentalità maschilista, diffusa sia a livello culturale che sociale.
    Però io non credo che la colpa nell’alimentare questi atteggiamenti sociali e culturali sia esclusivamente maschile.
    L’educazione individuale parte dalla famiglia e dalla scuola.
    Ma, all’interno della famiglia, non è soltanto la figura paterna quella che dovrebbe educare al rispetto della donna, ma anche (e soprattutto) quella materna.
    Credo quindi che la responsabilità di un atteggiamento culturale sbagliato vada ricercata anche nel fatto che persino le madri, spesso, educano i propri figli maschi in modo differente da come educano le figlie femmine.
    E dimostrano maggiore indulgenza e tolleranza nei confronti di certi atteggiamenti “troppo vivaci” se a metterli in atto è la parte maschile della famiglia.
    In altre parole, i figli maschi, a volte, godono di troppa impunità non solo da parte dei padri ma anche delle madri.

  14. Bel racconto, a tratti poetico. Mi ricorda le prime canzoni di De Andrè, Marinella, le Ballate, Delitto di paese.

  15. Un bel racconto che ho letto con una certa emozione e a volte anche con ribrezzo, vista la situazione descritta. Apprezzo la descrizione suggestiva di questo “uscire” dal proprio corpo per salvarsi l’anima e l’equilibrio mentale. L’ambiente e la situazione di paese lombardo di confine ( nel passato, ) è ben descritto.

  16. Trovo nel tuo racconto le atmosfere e la mentalità dei paesi lombardi di collina di quarant’anni fa; per il mio paese lo posso certificare. Credo che sia quella, l’epoca dell’ambientazione. Il dialetto del mio paese è simile e si usavano i sopranomi; avevamo i contrabbandieri di sigarette e di caffè, senza bricolla. C’era violenza nella famiglia ma erano casi isolati. Ora il dialetto è parlato da pochi, i soprannomi non si usano più e la gente non permetterebbe la violenza di quel tipo, sopratutto non ci sarebbe una vittima. Bellissimo racconto, auguri.
    Emanuele.

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