Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Breve storia di Pablo Diaz” di Andrea Cirillo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Il suo nome era Pablo Diaz. Era un pittore. Non un pittore qualunque, però: camminava per le strade di Santiago armato di una matita e un taccuino dove riportava tutto ciò che lo colpiva. Dal microcosmo della sua città pescava di tutto: uomini che mendicavano ai lati delle strade, prostitute che mendicavano amore poco più in là e poi soldati, botteghe, caffè, pezzi di giornale, avanzi di cibo. La sua mente si appropriava anche della più anonima delle cose e le dava spazia. E la faceva crescere, nei suoi dipinti.

In essi, però, lui ci metteva la sua idea di mondo. Li modellava. Analizzava, decostruiva i soggetti. Faceva fluire il suo sconfinato essere tra le pieghe della realtà e quel che ne usciva erano capolavori: realtà e astrazione si fondevano dando origine a una perfetta armonia.

 

Il suo nome era Pablo Diaz. Era uno scrutatore del mondo.

 

Aveva un laboratorio nella parte antica della città, in uno di quei palazzi diroccati dell’era coloniale. Andava lì a notte fonda, dopo la consueta immersione all’interno di Santiago e dopo la visita a Ines. Non l’amava, in realtà faceva di tutto per evitare che accadesse. Condividevano il letto qualche volta alla settimana e poi lui andava via. I legami forti, intensi, lo inquietavano: si erano sempre impadroniti totalmente di lui, dominandolo. E lui ci metteva tutto se stesso, in quei legami, ogni singola goccia della sua vita si riversava al loro interno. Andava in profondità e non era in grado di risalire. I legami si spezzavano e lui rimaneva vuoto, prosciugato, allo stremo delle forze. Aveva giurato a se stesso che non sarebbe più accaduto, che qualsiasi cosa che lo circondava non lo avrebbe più trascinato con sé negli abissi. Lui l’avrebbe analizzata, scrutata, sarebbe stato capace di raccontarla. Sarebbe stato capace di porla vicino a tanti altri pezzi di mondo, di fare l’Inventario.

 

Il suo nome era Pablo Diaz. Classificava e collezionava pezzi di mondo.

 

Quella sera la sua visita da Ines si era protratta più a lungo del previsto per la violenta discussione che era nata tra i due.

“Pablo, come puoi non capire?”, aveva cominciato Ines mentre lui si rivestiva

“Capire cosa?”

“Che ti amo”

“Non dire sciocchezze, Ines”

“Come puoi pensare che siano sciocchezze? Io mi sono innamorata di te! Voglio che tu stia accanto a me!”

“Questo non è possibile. Sapevi benissimo quali erano i patti”

“L’amore non scende a patti con nessuno, Pablo! So benissimo che anche tu provi quello che provo io. Ma hai paura. Tanta paura di immergerti nel mondo”

“Io vengo qui per scopare e basta. Non m’interessano le immersioni. Io scruto, analizzo, classifico”

“Pablo…”

“Io…io non posso lasciarmi andare e perdere tutto il resto. Io…io devo collezionare…classificare…collezionare…classificare…”

E continuando a ripetere le stesse due parole se n’era andato via con passo malfermo, ubriaco di quel mondo che gli inquinava le vene, che bruciava ogni singola cellula del suo cervello.

“Pablo…”

 

L’assurda litania era proseguita fino all’arrivo nel suo studio dove l’incessante fluire sulla tela dei dati che aveva raccolto si fondeva col possente silenzio delle tenebre. I suoi quadri erano sempre piaciuti ai più famosi critici d’arte di ogni parte del mondo; i musei organizzavano mostre in cui i suoi dipinti venivano esposti accanto ad opere che rappresentavano pilastri per l’arte contemporanea. Arte visionaria, la chiamavano. In ogni recensione compiuta su un suo quadro c’era quell’espressione. “L’arte visionaria del Diaz conferisce…”, “La sua arte visionaria fa sì che…”. Lui li odiava. Tutti. I critici, i titolari dei musei, chiunque gli facesse i complimenti. Non capivano nulla. Il suo successo si fondava sull’ignoranza. Non si chiedevano perché ogni singolo giorno vagava per le vie di Santiago? Non si domandavano per quale motivo si fermava davanti a un cumulo di stracci buttato lì e prendeva nota?  Comportamenti bizzarri, degni di un artista, dicevano loro. E lui li odiava.

“Come possono distorcere in questo modo la mia visione del mondo?”, urlava nei suoi frequenti accessi d’ira, “Questo è ciò che tiro fuori dal posto in cui vivono, cristo! Perché non scavano in profondità, così da poter comprendere?”

Erano ben pochi quelli con cui Pablo Diaz andava d’accordo e che quindi erano giunti a comprendere il suo intricato universo. Una di questi era Adriana. Lui l’adorava. Ma Adriana viveva in Francia e rappresentava quel pezzo di mondo che lui non era riuscito a classificare. Arrivava, lo travolgeva, se ne andava. E lui rimaneva lì, stordito. E la ragione andava a farsi fottere.

Gli era di nuovo venuta in mente lei. Di nuovo.

Si impose di non pensarci: aveva dei pezzi da catalogare. “È quel caos che deve andare a farsi fottere”, disse tra sé.

 

Entrò nello studio. Faceva freddo, quella sera e Pablo sprofondò nella sua immensa poltrona rossa per riscaldarsi nella sua piacevole morbidezza. Violenta morbidezza. Com’erano violenti i colpi che il mondo dava contro le porte della sua mente, tentando di aprire una breccia in cui riversarsi e invaderlo totalmente. Ma lui resisteva. Con tutte le sue forze, avrebbe resistito.

Si staccò da quella voluttuosa distrazione che era la poltrona e si mise all’opera. Rapide e precise pennellate solcarono il mare bianco della tela, dando vita all’armonioso ordine che era fluito dalla sua mente. I colori, con tepore o gelo, avanzavano inesorabili su quel bianco vergine, distruggendo il nulla che vi abitava. Lavorava febbrilmente, Pablo Diaz, con quella tremante risolutezza che solo nell’artista ha dimora.

Fino all’alba il violento flusso del suo pensiero continuò l’inarrestabile incedere e finalmente il pezzo di mondo era lì davanti a lui. Un capolavoro. Da rimanere sbalorditi.  Come diavolo faceva? Quale sublime idea della realtà era in lui? Dava una incredibile sfumatura anche alla più insulsa delle cose. La guardava dall’esterno. La inquadrava. La realtà vista da un’altra angolazione.

 

Dopo un’intera notte passata in piedi si lasciò cadere sulla poltrona, sfinito. Un’incontenibile e disumana gioia lo invase: aveva un altro pezzo di mondo. L’Inventario proseguiva.

 

Aveva un appuntamento e un indescrivibile bisogno di caffè, così uscì dallo studio. Era da poco sorto il sole e Santiago brillava – sì, brillava –  di una mistica luce che conferiva alle cose una sfumatura sublime. Nell’aria tersa del mattino, Pablo respirò a pieni polmoni e in quel respiro c’era tutta la città, tutto il mondo come lui lo vedeva.

Camminando per i viali Pablo rifletteva. Aveva sempre riflettuto tanto, troppo. Anche quando era immerso in quei legami dove non si pensa, si vive. Lui doveva collezionare…classificare…la sua mente doveva essere in continuo divenire, i pensieri dovevano susseguirsi e muoversi incessantemente, come gli ingranaggi di una macchina perfetta. Ecco perché Adriana lo attraeva così tanto e allo stesso tempo lo terrorizzava. Quando era con lei tentava di capire in tutti i modi che razza di sentimenti provava, ma poi, come al solito, la ragione andava a farsi fottere e con lei tutta quella dannata storia della classificazione e dell’Inventario. E allora lui si chiedeva “Voglio davvero continuare a scrutare tutto quello che ho intorno? Oppure voglio che Adriana rappresenti l’unico motivo che mi permetta di starci, in questo cazzo di mondo?”. Non sapeva rispondere a quest’infinità di domande che si affollavano le une sulle altre nella sua mente quasi fossero a un festino notturno. E intanto continuava a fare quello che sapeva fare, in attesa che Adriana tornasse e lo portasse via.

Lei che alternava ardente passione a freddezza glaciale e…e cazzo, c’era ricascato. Adriana, sempre Adriana. Lei, meravigliosa. Lei, un tarlo fisso.

Nel frattempo il sole era sorto e aveva restituito Santiago alla realtà, lavando via la metafisica sfumatura che l’avvolgeva.

 

Pablo era arrivato al caffè e aveva ordinato la colazione. Di lì a poco avrebbe dovuto incontrare Miguel Ortiz, un critico d’arte interessato ai suoi dipinti tanto da voler organizzare una mostra interamente dedicata a lui.

“Signor Diaz, l’avverto, non si aspetti da me i giudizi che è solito ascoltare”, gli aveva detto Ortiz due sere prima ad una festa.

“Me lo auguro”

“Ma come? La critica stravede per lei e io non so se…”

“Me lo auguro”.

 

Se incontri Miguel Ortiz per la prima volta di certo non ti metti a pensare che sia un critico d’arte. Già, perché ti trovi davanti un armadio a tre porte, sui trent’anni, pieno di orecchini e con una folta chioma ricciuta. Era un talento. In genere i critici d’arte erano vecchi, bassi, grassi e privi di senso dell’umorismo. Lui era un ragazzino ed erano anni che lavorava già. Era già un bel po’ che scavava tra le pieghe di ogni singolo quadro che gli capitava sotto tiro. Ed era il migliore.

Quella mattina era più nervoso del solito. Sapeva di andare contro ogni giudizio pronunciato finora sulla pittura di Pablo Diaz. Ma voleva rischiare.

Arrivò al bar con passo svelto e strinse la mano al pittore. Una stretta vigorosa. Poi ordinarono due caffè.

“Signor Diaz, come le ho detto qualche sera fa, il mio giudizio differisce totalmente da quelli che in genere si leggono su quelle riviste che pretendono di parlare d’arte”

“E io, come le ho detto qualche sera fa, me lo auguro”

Ortiz sorseggiò il suo caffè e cominciò

“Non riesco a comprendere cos’abbia in testa chi la definisce un pittore visionario. Questa analisi stupidamente accademica della sua opera distorce in maniera intollerabile quello che lei ha intenzione di dirci”.

“Lei…lei crede che io voglia dire altro con ciò che dipingo?”

“Esatto. Lei non è affatto un visionario. Lei osserva, classifica, colleziona pezzi di ciò che la circonda. Uno scrutatore della realtà. Però, io…io credo che quella che lei mette nei suoi quadri sia la sua idea di mondo”.

“Ortiz…”

“Come diavolo ci riesce? È sublime…”

“Ortiz…mi spieghi come ci è arrivato”.

 

Pablo stava per cadere dalla sedia per lo stupore. Una selvaggia gioia si impadronì di lui. Allora c’era qualcuno…qualcuno che ancora credeva che la realtà andasse cercata al di là…tuffandosi nell’abisso che scruta dentro di te.Ma perché pensava a queste cose? Non era forse un osservatore, un collezionista? Non doveva forse fare l’Inventario? Non capiva…proprio non capiva…

Fu la voce di Ortiz a farlo riemergere da quel groviglio di domande.

“ Beh, Diaz, io sono un critico. E criticare significa analizzare, scrutare, certo. Ma il mio lavoro non finisce lì, come forse lei crede. A me non interessa l’opera d’arte, per quanto meravigliosa possa essere. A osservarla son buoni tutti. A me importa di ciò che sta dietro. E anche a lei importa, altrimenti non ci metterebbe quella sua idea di mondo tanto potente e tanto dolce al contempo. Io porto a termine quello che lei ha iniziato, Diaz. Lei scava, col suo sguardo, tra le pieghe della realtà e lì, in quegli abissi, deposita un fiore, la sua idea. Il mio compito è far crescere quel fiore e mostrarlo a chiunque sia capace di scendere tanto in profondità solo per contemplare la sua devastante forza”.

“La forza di un fiore…”

“La forza di un fiore”.

“…”

“…”

“Io non so come lei faccia…lei non mi ha mai visto prima di qualche sera fa, ma attraverso la mia opera è riuscito a guardarmi dentro. Ed è riuscito a dare una risposta alla domanda che mi dilaniava. Devo partire. Adesso”.

“Per la mostra siamo d’accordo, no?” chiese Ortiz con un sorriso

“New York un mese?”

“New York. Tra un mese.

 

E corse via. Corse, come non aveva mai fatto. Casa sua. Una valigia con qualche vestito scelto a caso. Matita e taccuino. Taxi, di corsa all’aeroporto. Primo volo. Per Parigi. Adriana.

 

 

Lei lo aspettava all’aeroporto. Lo vide e gli andò incontro.

“Ti aspettavo da mesi…dall’ultima volta che sono tornata da Santiago. E tu finalmente sei venuto da me”

“Anch’io ti aspettavo. Sono anni che ti aspetto. Sei lo sconfinato pezzo di mondo che mi mancava”.

 

Il suo nome era Pablo Diaz. Era un pittore. Non un pittore qualunque, però: depositava piccoli fiori negli abissi più profondi.

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5 commenti »

  1. Bella l’idea di parlare della pittura e dell’arte. Forse ci sono un po’ troppi personaggi per un racconto così breve, e non riescono ad emergere bene. Dovresti tratteggiarli meglio e far capire chi è Adriana, da dove viene, ecc. Comunque bravo!

  2. Io non sono una critica d’arte e quindi sicuramente dirò una cavolata, però non ho capito cosa ci sia di straordinario nelle parole del critico enfant prodige, Ortiz, quando parlando al pittore afferma che “io credo che quella che lei mette nei suoi quadri sia la sua idea di mondo”. Al che il pittore ringrazia commosso. Non vedo cosa ci sia di straordinario in tutto ciò. E questo pittore che cataloga razionalmente e che dipinge l’ennesimo quadro, compiacendosi che sia un altro capolavoro.

  3. Va pur bene il concetto dell’inventario inteso come catalogare, classificare, e sinonimi vari, però il racconto avrebbe acquisito più forza se venivano tratteggiati meglio i lati caratteriali di INES e di ADRIANA. Secondo me bisognava dare più risalto alle differenze esistenti fra queste due donne, sarebbe stato più facile capire il motivo per ritenere simpatico questo pittore sudamericano baciato anche dalla fortuna di incontrare il tracagnotto Miguel Ortiz.

  4. Forse il limite delle battute, limita anche il racconto, che appare quasi incompleto.. Mi sono piaciuti però i dialoghi…

  5. Ciao Andrea, ho letto il tuo racconto con simpatia. Nel senso che mi sono immedesimato con il personaggio. Le battute sembrano un po’ buttate lì, però il legame tra visionarietà e indagine visiva, scrutante, della realtà, è fondamentale. Il racconto è a mio avviso scritto bene. Ho avuto però l’impressione che l’impostazione sia teorica, non sciolta in una trama. Quando descrivi Santiago, non c’è quella vibrazione che il pittore avrebbe avuto nel guardarla. Forse un modo sarebbe mettere a fuoco anche gli altri personaggi. Grazie per il tuo racconto
    – Tommaso

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