Premio Racconti nella Rete 2013 “L’estremo piacere di sbagliare senza averlo deciso” di Renato Fagioli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Le dieci del mattino di una bella giornata d’estate e la luce del sole ormai alto nel cielo quasi abbaglia, mentre sul lungomare le ombre di alberi e case si accorciano in fretta, seguendo obbedienti la corsa dell‘ astro nel cielo. L’ infinita distesa del mare, giusto a qualche decine di metri di distanza, scintilla azzurra e invitante. Per di più nel cielo sereno una brezza leggera soffia pigra e piacevole.
Nell’ ampia spianata di sabbia adibita a parcheggio dello stabilimento balneare un uomo se ne sta ritto in piedi a fianco della sua automobile. Snello, alto, è vestito solo di una t-shirt colorata e di un paio di calzoncini da mare. Lo sguardo é nascosto dietro un paio di occhiali neri. Sulla testa castana qualche capello grigio luccica al sole.
Due borse grosse e gonfie gli pendono dalle spalle e ai piedi nudi porta delle ciabatte di gomma. Sembra di casa in posti come quelli, lui che invece è appena arrivato dalla città vicina.
Difficile riconoscere oggi il dott. Gualazzi, di professione dermatologo, con ambulatorio in centro, si riceve dal lunedì al venerdì dalle 17 alle 20, è gradita la prenotazione, abitazione (per le urgenze) via Manzoni 34.
Peccato però che l’abitazione citata sulla targa di ottone non sia certo più una casa come solo pochi anni fa. Manca proprio dei requisiti per definirla una casa. Ci
contenga solo un paio di bottiglie di vino bianco, olive e qualche vasetto di yogurt.
Quando Gualazzi la sera si chiude dietro le spalle il portoncino e percorre il corridoio, ammira ogni volta le belle stampe incorniciate scelte insieme a lei, lo specchio in stucco dorato comprato durante il viaggio in Francia, e mentre ci appoggia sopra le chiavi non può fare a meno di guardare con affetto il vecchio mobile in noce. Quello lo hanno restaurato insieme, anche benino, non tanto tempo fa, giusto qualche secolo fa.
Gualazzi si sforza come sempre di non provare niente mentre cammina per la sua casa, e forse davvero non sente nulla, chissà? Quando finito di percorrere il corridoio mette piede nell’ampio soggiorno l‘unica nota stonata, mica tanto strano che nella mente associ quella vista al rumore di un’ unghia che scorre su una lavagna, l’unica cosa che riesce a risvegliarlo dal torpore a cui si è abbandonato da un pezzo, non sono più quegli intoccabili e ingombrantissimi candelieri in legno intagliato che stanno a prender polvere tra la vetrata e la libreria (li ha scelti lei da sola e lui non ha mai nascosto che non li sopporta), ma è piuttosto la vista del divano di pelle che troneggia nella stanza fra tavolini antichi, vasi di piante in fiore e il mobile bar, il maledetto divano precisamente al vertice di un perfetto triangolo stereofonico, insomma, più o meno, le solite cazzate che recentemente racconta così spesso. Giusto ogni sabato sera.
Scelto insieme a lei, anche quello, ormai da un pezzo ospita le sue assortite e assai poco convincenti conquiste, che parlano, parlano, e raccontano la loro vita e i loro sogni. Proprio lì, Alessandro, questo è il suo nome, spesso scarmigliato e rosso in viso, con la camicia mezzo aperta e lo sguardo ormai torbido ha ascoltato, a volte con sforzo ha annuito convinto, altre volte ha sorriso benevolo, più spesso non ha condiviso. Però si è sforzato di sorridere a denti stretti. Sabato sera è pur sempre sabato sera.
Diamine non si può passare la settimana a esaminare la croste di vecchie e bambini, magari incontrarla per strada abbracciata a qualcun altro, a fine giornata cenare con una pizza surgelata e mantenere al tempo stesso la più completa serenità zen. Probabilmente invece sarebbe più sano incazzarsi, magari avventarsi sul divano e farlo a pezzi. Magari con sopra quella del prossimo sabato sera. Una soluzione molto gratificante, ma assai poco pratica.
L’alternativa a tutto ciò, l’ultima difesa, è smettere di sentire, di provare emozioni. Morire un po’ per volta invece che tutto insieme. Ed è appunto questo in cui ill dottor Gualazzi si sta cimentando con impegno da un pezzo.
Ma oggi è tutta un’altra storia, è una domenica d’estate e lui ormai è arrivato alla spiaggia. In piedi nella spianata armeggia per chiudere la portiera, ma le borse che porta a tracolla lo intralciano, e lui bestemmia sottovoce. Un altro sbadiglio, ancora più grosso, lo scuote. Con ancora tutti i muscoli del viso tirati in quella maschera grottesca socchiude gli occhi fino a ridurli a due fessure, così da proteggerli dalla luce forte del sole e contemporaneamente scacciare il pulsare forte alle tempie che lo disturba da quando si è svegliato.
“Un’altra notte interminabile, un’altra notte da dimenticare. Per mia fortuna Dio ha voluto che di sabato sera in ogni settimana c‘è ne fosse uno solo. Altrimenti chissà cosa riuscirei a farmi?“ pensa, mentre continua a trafficare con la chiave.
Con i piedi ben piantati sulla sabbia calda adesso ondeggia leggermente e quasi vibra ancora per l‘energia risvegliata la sera prima, l‘ eccitazione della festa, il vino, la musica.
Le poche ore di sonno, lui le chiama di oblio, non sono riuscite a spegnerla completamente. Il sonno, il buio, il riposo. Il luogo fatato in cui si smette finalmente di pensare.
Se non fosse per il mal di testa adesso godrebbe del piacere di sentirsi addosso il calore dei raggi del sole. Mentre con la mano libera si aggiusta meglio gli occhiali scuri davanti agli occhi sposta lentamente i piedi che con la sottile suola di gomma delle infradito affondano nella sabbia tiepida.
Al terzo tentativo la chiave che stringe in mano entra nella serratura e lui con un colpo secco la gira per chiudere la macchina. Mentre abbassa appena le spalle per completare il gesto, su quella sinistra avverte consolante il peso della cinghia della sacca delle vele. La brezza leggera sta sfiorando invitante le sue gambe nude che spuntano dai corti calzoncini da mare. Buon segno, pensa, fra poco il vento rinforzerà e ci sarà da divertirsi.
Però adesso la mano, ormai libera dalle chiavi abbandonate in tasca, corre da sola a cercare il cellulare nella sacca. “Ma che fai“, pensa inorridito, “ancora? Ancora no, adesso basta, sono qui per tutt’ altro“. E mentre ributta con un gesto brusco il cellulare nella borsa si chiede: “perché tutto ciò, a cosa serve? Ogni cosa ha una fine, anche se non se ne arrivano a capire le ragioni, ogni cosa, ha pur sempre, lo stesso, una fine”. Ripete a se stesso il suo mantra preferito, ma sa bene che non riuscirà a convincersi neanche oggi.
Non ci sono risposte pronte per lui, come al solito, come sempre. Solo domande. “Smettere di pensare, ecco la soluzione, anche se magari per riuscirci dovessi fare ogni volta come ieri sera, e lasciarmi guidare solo dall’istinto. Per un volta, finalmente, concedermi il lusso di sbagliare senza averlo deciso“, riflette adesso, mentre esce dal parcheggio e inizia ad incamminarsi verso la spiaggia, che lentamente si sta animando per un’altra domenica estiva.
Il capanno del piccolo bar è già gremito e la gente, tanta gente, si accalca al bancone o sciama fra i tavolini. Giovani, meno giovani, comitive di amici e famigliole. Tutto ciò non lo interessa. Come non lo interessano tutte quelle altre persone che gli passano vicine, indaffarate e eccitate per la giornata al mare che li aspetta. I cagnolini in braccio, i bambini per mano, le sacche termiche con il pranzo all‘ ombra dell‘ ombrellone. Gli altoparlanti sistemati sul tetto di cannuccia del locale rimandano le solite canzoni di questa estate a un volume imbarazzante, mentre lungo le file ordinate di ombrelloni colorati famiglie e gruppi di amici scherzano e si affaccendano intorno a asciugamani e creme solari.
Però quando camminando passa vicino alle coppie che da sole si godono in santa pace la loro giornata libera abbassa lo sguardo e allunga il passo.
Ma oggi è domenica, lui non vuole avere altro per la testa e i suoi occhi fissano il pugno di alberi neri e sottili delle barche a vela, che svettano oltre gli ombrelloni e le cabine. Proprio laggiù al margine dello stabilimento, dietro una duna di sabbia coperta di tamerici c’è un pezzo di spiaggia dove non sono stati piazzati nè ombrelloni nè cabine, e le barche tirate in secco se ne stanno in una lunga fila ordinata. E’ lì che Alessandro si sta incamminando. Gli stralli metallici battono fra loro mossi dal vento e il loro suono è un richiamo. In fondo é venuto per questo. Proprio ieri notte, tardissimo, Alessandro con lo sguardo sfuocato ha puntato apposta la sveglia sulle sette, rinunciando alla gratificazione di una mattinata di sonno.
Perché la domenica fa presto a finire, e ci sono ancora tante cose da fare.
Gli amici sono già lì e armeggiano indaffarati intorno alle barche, controllando l’ attrezzatura e le vele. Ci sono giovanotti aitanti e uomini maturi brizzolati e un po’ appesantiti, qualche bella ragazza in due pezzi e un paio di signore sorridenti coperte da pareo colorati. In tutto saranno una quindicina. I soliti amici del circolo.
“Ciao” dice Alessandro
“Ciao” gli rispondono tante facce sorridenti.
“Ciao a tutti” dice lui continuando a camminare, e batte pacche sulle spalle e stringe mani. Con gli occhi sta cercando Paolo, il suo timoniere, ma non riesce a vederlo.
“Ciao Alessandro” dice adesso un uomo peloso e tarchiato con indosso solo uno slip assurdamente piccolo che gli si para davanti.
“Ciao Gianni, come va? Si esce oggi?” ribatte pronto Alessandro.
“Certo“, risponde quello, e gli occhi mobilissimi sprizzano energia, “siamo qui per questo, o no? Anche se davvero non pensavo di vederti oggi, visto che ieri sera quando ho lasciato il locale non sembravi proprio avere intenzione di tornare a casa prima dell’alba”
“E infatti così è stato, caro Gianni. In fondo era sabato sera no? Vorrà dire che dormirò domani, che è lunedì, magari in ambulatorio tra una visita e l’ altra” replica Alessandro sorridendo. Il primo sorriso di quella mattina.
“Tu mi fai stare in pensiero Alessandro, davvero. Scusa se te lo chiedo così a bruciapelo, ma va tutto bene?”, fa Gianni, che adesso non sorride e mentre lo dice guarda per terra, “pensi sempre a lei?”
“Ma dai, cosa vai a pensare, proprio oggi poi, che è domenica“ si schernisce lui, “ma che credi, che solo perché ieri sera ci ho parlato di nuovo potrei passare sopra tutto quello che è stato? Davvero, non saprei come fare. E poi mi hai visto dopo, quando è andata via? Ma l’hai vista quella con cui ho attaccato? Grande, sono un grande. E comunque non hai detto che oggi siamo qui per uscire a vela? Senti, anche se Paolo come al solito è in ritardo io adesso comincio ad armare.”
Armare una piccola deriva non è un gran daffare. Anche se si tratta di questi catamarani da due persone di equipaggio. Si rovescia la sacca delle vele sulla sabbia, vicino alla barca, e si mettono in chiaro scotte e bozzelli. Poi si iniziano a montare le parti mobili della barca, quelle che durante la settimana riposano in fondo al capanno delle vele.
Alessandro lavora in fretta e con concentrazione, ripetendo gesti imparati ormai a memoria, tanto che per alcuni minuti quasi non si accorge dell’uomo che lo fissa fermo in piedi vicino alla prua.
E’ Paolo, grosso e sgraziato, col ciuffo ribelle sempre sugli occhi, il suo compagno di tante regate. Indossa già la muta e in mano tiene le scarpe da vela.
“Allora hai deciso di fare tutto da solo?” dice sorridendo sornione quando finalmente lui lo nota.
“Certo che no,” ribatte Alessandro, “vorrà dire che quando torniamo disarmi da solo e io mi fiondo al bar a farmi una piadina calda“.
“Davvero vai ammirato per il tuo senso del gruppo, scemo,” risponde lui scoppiando in una gran risata e buttate le scarpe sulla sabbia agguanta una drizza e inizia a tirare.
E insieme terminano in fretta di preparare la barca.
Si affaccendano veloci e ogni tanto alzano la testa e guardano il mare là davanti, che si va increspando per il vento che aumenta.
Al contrario di quel che si può pensare alare in mare una barca a vela dalla spiaggia quando c’è vento forte è una cosa più complicata, e ci vogliono oltre all’equipaggio almeno un paio di volenterosi per trascinarla fino al bagnasciuga, poi una breve sosta per l’ultimo controllo e quando si torna a spingere, appena gli scafi toccano l’acqua, bisogna saltare su con decisione e cazzare le vele.
Quello è un momento in cui è necessaria una gran concentrazione e in cui ciascuno deve conoscere bene le mansioni che gli competono in base al suo ruolo. Perchè appena le vele si gonfiano e iniziano a portare non si può sbagliare, e infatti loro non lo fanno. Si tratta solo di una manciata di secondi ma nessuno dei due fiata e ciascuno esegue i gesti necessari con concentrazione e un filo di apprensione. Ancora pochi minuti e poi di nuovo è tutto facile, o meglio è tutto deciso, non è più necessario pensare.
In un attimo la barca spinta dal vento che continua a crescere è fuori dal mobile sentiero colorato contrassegnato dalle boe del corridoio di lancio e appena giunti a una ragionevole distanza dalla riva basta un piccolo colpo alla barra del timone per iniziare a prendere velocità, fra gli schizzi d’acqua e le onde.
Vivo, sì che adesso si sente vivo, davvero. Il perchè in fondo non lo sa neanche lui, ma è così. Sarà che si sente proprio parte del cielo che lo circonda, una piccola irrisoria parte. Quel cielo che adesso è di un azzurro quasi insolente, mentre là in alto il sole brucia e scintilla come non mai.
La spiaggia invece ormai è laggiù, lontana lontana, giusto una striscia biancastra strizzata tra il blu del mare e il verde scuro della pineta.
La piccola imbarcazione, novanta chili di vetroresina e acciaio, vibra e geme manco fosse viva, mentre pare trovare quasi con naturalezza la sua strada in mezzo alle onde grandi e piccole orlate di bianco che la circondano.
La barca se ne va veloce sotto la mano esperta di Paolo, che siede rannicchiato vicino al timone con il viso tirato per la concentrazione. E lui? Lui adesso guarda di nuovo avanti e stringe affannato con la mano sinistra il cavo d‘acciaio. Un cavo sottile sottile, ma che assicurato alla cintura imbottita stretta ai fianchi sostiene il suo peso. Mentre si protende sulle onde. Allo stesso tempo sposta con attenzione i piedi con cui si puntella al bordo della barca.
Quando ancora una volta spruzzi d’ acqua ghiacciata pungenti come aghi lo colpiscono in viso lui gira lentamente il capo. Lo fa anche per ammirare le due creste di spuma scintillante che la loro barca solleva mentre scivola veloce sulla superficie dell’ acqua. A pochi metri dalla poppa gradualmente si avvicinano e infine si congiungono in un unica scia che pare viva per quanto ribolle.
Infine é Paolo che sente il bisogno di spezzare quel silenzio strano, pieno com’è dei suoni della natura che li circonda e lotta per dominarli. Chiede: “Allora?” , e sta quasi gridando per sovrastare con la voce il rombo del vento, “allora come è andata ieri sera alla festa? Che cosa hai provato nel rivedere Matilde dopo tanto tempo?”
Di colpo la luce del sole si abbassa, il colore dell’ acqua vira al grigio, il vento non sibila più. “Adesso no, non è il momento” pensa lui. E vorrebbe gridarlo.
Anche la spiaggia, quella striscia grigia fino a pochi istanti fa inoffensiva, adesso si ingrandisce a vista d’occhio. Quasi a minacciarlo con i problemi piccoli e grandi della sua vita abbandonati sulla rena umida giusto poche decine di minuti fa, al momento di alare in acqua la barca.
E’ inutile armeggiare con il nodo allentato del cavo, tirare gli strap della muta, fissare con attenzione la prossima onda. Tanto c’è Paolo, bovino, che insiste: “adesso non far finta di niente come al solito, ho visto come vi guardavate” aggiunge, “eppoi non per farmi i fatti tuoi ma avete parlato a lungo, molto più a lungo di quanto serva a due ex per scambiarsi un saluto!”
Ed é tutto vero, anzi quella sera loro due avevano continuato a parlare anche nel parcheggio davanti al locale, lontano dagli sguardi degli altri, giusto per il piacere di informarsi l’ uno dell’ altra e magari anche ridere ancora, di gusto, come quando le cose andavano bene.
Di colpo la sente tornare. Eccola lì. La stessa sensazione che guasta da un pezzo le sue giornate, quell’ amaro in bocca ormai familiare. Lo stesso provato la sera prima quando Matilde se ne era andata e lui era tornato sui suoi passi nel locale illuminato, e che aveva cercato di spegnere nell’ unico modo che conosceva. Continuando a morire un po’ per volta, però con classe, tra risate e bicchieri.
Adesso non prova più alcun gusto nell’ uscita a vela tanto attesa. Ora questa domenica é uguale agli altri giorni che l‘hanno preceduta. Perché adesso è convinto di aver finalmente capito, sa già che non appena tornato a riva, alla vita reale, ancora bagnato e con la muta mezzo aperta, cercherà il cellulare nel borsone da mare e la chiamerà ancora e proverà a spiegarsi, e proverà a capirla.
Però sa anche che là sulla spiaggia, ci sono gli altri, e poi ci sono i ricordi e le amarezze, che testardamente lo aspettano. E sa bene che laggiù i suoi pensieri non saranno mai più chiari come adesso.
“Attento“, e’ la voce di Paolo, chi altro potrebbe essere, loro due sono soli in quell’ immenso mondo blu, “attento all’onda là davanti. Cazzo che roba, sposta il peso, Dai, dai, dai“. Adesso non ha più bisogno di pensare, tantomeno a quello che deve fare. Ogni movimento gli viene così naturale, spontaneo. Stringe con le mani il cavo e sposta i piedi verso poppa, aggiusta il peso. Adesso sì. E’ bastato un istante perché la spiaggia tornasse di nuovo lontanissima.
“Cazza, dai un colpo di barra e cambia bordo e andatura , scemo“ grida adesso a Paolo con tutto il fiato “o ci vuoi far scuffiare?”. E lui rapido lo fa, cosìcche la barca inizia docilmente a descrivere l’angolo acuto della virata.
Bravo però Paolo, pensa mentre sgancia il moschettone e si lascia andare con un solo gesto sul tendone umido del catamarano. Nelle orecchie non sente altro che lui che urla “vai vai vai, muoviti che ci manca un pelo“. La barca ha cambiato mure adesso, le vele tornano a gonfiarsi e l’adrenalina a pompare mano a mano che la velocità cresce di nuovo. Con pochi gesti assicura di nuovo il moschettone, punta i piedi sul bordo dello scafo ed é di nuovo appeso al sottile cavo di acciaio a pochi palmi dalle onde ormai blu scuro. Adesso la barca è di nuovo stabile.
“E Matilde? Perché non la porti ancora?“, sta dicendo ora Paolo fra le risate “in fondo una volta le piaceva tanto venire con noi in barca“.
Inutile rispondere. In fondo Paolo non attende neanche una risposta, sta solo cercando un attimo di svago dopo la tensione della manovra.
“Non la porto,” pensa lui tra se e se mentre gli schizzi d’acqua aumentano per la improvvisa accelerazione, “non la porto perché per arrivare fino alla barca, e poi al mare azzurro e pulito dovremmo prima passare fra gli ombrelloni, gli amici e tutti i nostri ricordi. E non saprei come. Non la porto no“, pensa, e con calma, senza pensare, sposta il peso del corpo verso poppa, quel tanto che basta per far si che le prue rimangano fuori dall’ acqua spumeggiante. Questo lo sa fare.
Si vede che vai in barca e che ti piace. Grazie per i primi rudimenti. Un suggerimento, se posso : butta Paolo giù dal catamarano!
Questo racconto capitatomi sotto gli occhi ora che si intravedono i primi raggi di sole, mi ha fatto venire voglia di mare 🙂