Racconti nella Rete 2009 “Un addio (Cosa resta?)” di Denis Larcher
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009“Forse, Deborah, è meglio che non ci vediamo per un po’”.
Respiro. Aspetto.
Ma no, non c’è. Il senso di sollievo ancora non è arrivato, mentre lei già da tempo ha distolto lo sguardo, ha capito presto dove volevo andare a parare con questo mio lungo discorso.
Così mi ritrovo a fissare i bambini che giocano nel prato davanti alla nostra panchina, aspettando una botta di serenità che tarda a salire, un sollievo promesso come liberazione ma ancora colpevolmente assente.
Perché?
Non si dice forse che fare la cosa giusta sia l’unica strada per rasserenare l’anima?
Allora perché non mi sento meglio ora?
Un rumore mi riporta al presente, il suono di cerniera della borsetta di Deborah mi fa capire che sta cercando i fazzoletti per asciugarsi gli occhi.
Mi odio ora. Vorrei lo facesse anche lei ma non lo fa. Nulla va mai come dovrebbe.
Un groppo attanaglia lo stomaco adesso mentre mi manca perfino il coraggio per guardarla direttamente in faccia.
“Vorrei tanto tu fossi felice.”
La frase rimane sospesa sulla mia bocca esattamente a metà strada tra il labbro superiore e quello inferiore, ma non c’è voce a dargli forza. Un respiro troncato mi strozza la gola e non dico niente; le parole rimaste solo ipotetiche ben presto svaniscono nell’aria senza lasciare di loro alcuna traccia.
Ma io so perché accade ciò, so cos’è tutto questo. E’ paura.
Davvero Deborah ti vorrei felice e vorrei tanto dirtelo, ma la possibile risposta sa terrorizzarmi, quello che potresti replicare mi rende vile, zittendomi.
Dopo poco lei si ricompone, alza il capo e si mette seduta con la schiena diritta, parallela allo schienale della panchina, come quando all’asilo ci si aggiustava sulla sedia dopo essere stati sgridati per la cattiva postura. Intuisco che sta per parlare e temo il peggio. Vorrei correre ai ripari, cerco di farmi venire alla mente qualcosa da dire il più presto possibile, qualsiasi cosa pur di anticiparla ed evitare di dover fronteggiare i suoi sentimenti delusi e i miei rimorsi conseguenti. Deborah però si rivela più lesta di me nello spezzare il silenzio ma con mia grossa sorpresa lo fa solo per indicarmi come è vestita buffa la bambina che gioca poco distante da noi, in questo parco che sa di primavera.
Vorrei essere come quella bimba dal vestitino a fiori adesso, spensierata e serena.
Per fortuna ora la conversazione ha preso una piega più leggera e ne approfitto per farla ridere, mi sembra la cosa migliore da fare e sicuramente quella meno rischiosa. Pare funzionare. Deborah sorride mentre faccio lo scemo, mentre mi travesto da clown cercando di convincere lei, ed assieme me stesso, che va tutto bene e che il vuoto pneumatico che sento dentro il cuore è solo un’illusione senza conseguenze.
A volte la vita va così, si cerca di aggiustarla come meglio si può. Capita che la trama non sia delle migliori e che ci troviamo a fare i conti con scene che avremmo voluto evitare, ma in questi casi l’unica cosa che ci resta da fare è barcamenarsi alla meglio e, se questo non basta a superare il problema, abituarsi a conviverci, venirci a patti. Così mi sento adesso: intrappolato dentro un ruolo che non sento mio e che davvero eviterei di interpretare ma un regista sadico ora pretende che diligentemente lo reciti comunque.
Guardando l’orologio mi accorgo con sollievo che la pausa pranzo sta terminando per cui potrò presto porre fine alla scadente recita che ho messo in scena e smetterla di fingere che vada tutto bene. Lei sembra intuire il mio pensiero e mi precede alzandosi improvvisamente dalla panchina, sistemandosi poi il vestito primaverile che indossa con grazia tipicamente femminile.
“Si è fatto tardi, meglio che mi avvii alla macchina ora.”
“Ti accompagno!”
Le cammino al fianco evitando accuratamente di darle il braccio, impedendo che lei possa a sua volta prendermi a braccetto o peggio ancora per mano. Non è cattiveria la mia ma davvero non saprei come reagire a questa eventualità, il disagio che sento addosso è già ora sufficientemente grande.
Adesso entrambi rimaniamo silenziosi mentre camminiamo guardandoci le punte delle scarpe. Mi tornano alla mente i versi di una vecchia canzone che da ragazzo amavo tanto:
Occhi bassi quando cammini
dentro i piedi che tesoro hai?
Ma davvero stavolta sento di non avere nessun tesoro addosso mentre ci avviciniamo lenti alla macchina e di pari passo al momento dell’addio. La distanza tra noi e il parcheggio è percorsa nel più assoluto dei silenzi, il rumore del parco che prima era sottofondo ora suona come l’intera colonna sonora. Guardando oltre i miei piedi scorgo le nostre ombre; quella di Deborah sembra più triste della mia ma potrei sbagliarmi.
A pochi metri dall’auto lei prende coraggio e, sempre tenendo il capo abbassato, azzarda un timido saluto.
“Allora, ciao.”
Valuto nella testa la confusa possibilità di darle un bacio sulla guancia ma subito mi convinco che sarebbe una mossa difficile poi da gestire. Vorrei almeno scegliere le parole adatte alla circostanza ma queste dispettose non si fanno trovare, cerco invano di afferrarle ma rimango imbambolato a bocca aperta alla loro ricerca finché mi accorgo della pateticità della scena. Rapidamente mi riprendo, chiudo la bocca e per rompere la staticità della situazione dico la prima cosa che mi balza in testa.
“Dai, non fare così, ci sentiamo comunque ok?”
Nell’istante immediatamente successivo a quelle parole già mi pento di averle pronunciate. Nell’ampio ventaglio di cose da dire ho scelto affrettatamente quella meno adatta, ma è troppo tardi ormai. Lei risponde abbassando lo sguardo come a conferma dell’infelicità della mia uscita.
“No dai, cioè, se ti va…”
Frettolosamente la interrompo, cerco disperatamente di correggere il tiro.
“Ma si tranquilla, non c’è problema, ti lascio andare ora che tra poco inizi al lavoro!”
Adesso mi muovo a scatti, gesticolo, segno che il disagio di prima sta mutando velocemente in panico. Ma ormai siamo giunti al termine, lei ha già aperto la portiera e fa cenno di entrare in macchina.
Sorrisi di circostanza e fretta di allontanarsi. Questo resta.