Premio Racconti nella Rete 2013 “Rinascere a nuova vita” di Chiara Taponecco
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Quando sono arrivato nella mia attuale dimora, ero un perfetto randagio.
Vagavo per strada tutto il giorno e vivevo solo di ciò che riuscivo a trovare. Spesso l’unico modo per mettere qualcosa sotto i denti era fermarmi davanti ad un bidone della spazzatura e aspettare che qualcuno lasciasse a terra il sacchetto dei rifiuti. Quando questo succedeva, lo consideravo come il mio giorno fortunato perché potevo contare su un pasto sicuro, benché non di prima categoria. Sempre meglio di addentrarsi all’interno della pattumiera, con tutti i rischi che quest’operazione comportava. Aspettavo che la persona si allontanasse e guardingo mi dirigevo verso la meta. Una volta aperto il sacchetto, escludevo tutto ciò che non era commestibile o di mio gradimento e mi lanciavo sul resto. Non nego di aver trovato spesso cibo avanzato di ottima qualità e ben cucinato e quando questo accadeva, mi sorprendevo del fatto che le persone lo gettassero. Altre volte invece capitava che gli abitanti del quartiere mi lasciassero un cartoccio all’angolo della strada dove ero solito sostare. All’interno trovavo spesso carne avanzata ma fresca, pasta e insaccati di vario tipo. Un giorno trovai perfino i resti di un branzino cotto al forno con contorno di patate. I momenti più duri li ho vissuti durante l’inverno, e non solo dal punto di vista dell’alimentazione. Quando pioveva, le persone uscivano di rado a gettare la spazzatura ed io rimanevo anche giorni senza mangiare nulla, se non ciò che riuscivo a racimolare a fatica fuori dai ristoranti. Per non parlare del fatto di andare alla ricerca di un posto al coperto dove ripararmi dalla pioggia e rimanerci fino all’arrivo del sereno. In quei momenti sentivo solo il freddo pungente che mi entrava nelle ossa come fosse una lama ghiacciata e non voleva andarsene nonostante facessi di tutto per scaldarmi. Anche raggomitolarmi su me stesso come solo un contorsionista riesce a fare. Per fortuna basta aspettare e il signore inverno lascia sempre il posto alla primavera, la quale ama far annunciare il suo arrivo dal colore azzurro del cielo, dal calore del sole e dallo spuntare delle gemme tra il verde delle foglie. E’ in assoluto il periodo dell’anno che preferisco. L’aria diventa frizzante, le ore del giorno prendono il sopravvento sulla notte e tutto rinasce con rinnovato splendore. Anche le persone sembrano rinascere. Escono, si godono il sole passeggiando per strada e anche la loro andatura sembra più rilassata. Li osservo curioso e cerco di capire il loro strano modo di vivere; sicuramente così diverso dal mio. Non nego di fermarmi ad ascoltare le loro conversazioni senza che se ne accorgano, e mi stupisco di ciò che considerano le loro preoccupazioni. Sono così diverse dalle mie che devo fare qualche sforzo per considerarle tali.
Un giorno, mentre mi stavo godendo il sole del primo pomeriggio sdraiato sul prato del parco cittadino, ho notato un’anziana signora seduta sulla panchina di fronte a me. Se ne stava lì, senza avere apparentemente nulla di meglio da fare se non guardare nel vuoto, persa nei suoi pensieri. I capelli erano bianchi e raccolti sulla nuca da un vecchio elastico. Indossava un grembiule sopra a un maglioncino color ocra e a una gonna di lana marrone. Lo stesso tipo di grembiule che le donne di un tempo usavano indossare in casa per svolgere le faccende domestiche ma che non avrebbero mai sfoggiato con così tanta disinvoltura all’esterno; così come invece stava facendo quella signora. Non credo aspettasse qualcuno poiché non prestava attenzione neppure alle persone che le passavano davanti. Il suo sguardo era fisso, immobile e ho avuto più di una volta la netta impressione che mi stesse osservando. Mi sono alzato, ho stirato le mie membra intorpidite dal sole e lentamente ma facendo sempre finta di nulla, mi sono avvicinato alla panchina. Non si era accorta di nessuno dei miei spostamenti. I suoi occhi, che da quella distanza riuscivo a vedere di un vitro color azzurro, erano ancora puntati verso l’infinito. Sembrava ricordare tempi lontani ormai vivi solo nei ricordi e aveva l’espressione triste delle persone che si rendono conto, di essere ormai vicine dal dire addio a questo mondo terreno. Quando sembrava che veramente nulla potesse distrarla dai suoi pensieri, si alzava di colpo senza neppure guardarsi intorno e si allontanava lentamente accompagnata solo dallo scricchiolio delle scarpe sulla ghiaia del vialetto. Giorno dopo giorno, sempre gli stessi movimenti e lo stesso atteggiamento abbattuto. Più di una volta sono stato preso dall’irrefrenabile curiosità di seguirla per vedere dove fosse la sua casa e soprattutto se ci fosse qualcuno ad aspettare il suo ritorno; ma ho desistito fino al giorno in cui ho sentito per la prima volta la sua voce.
Mi ero fermato dietro di lei come d’abitudine, ormai, quando tutto a un tratto, ha cominciato a raccontare sottovoce una storia. Quasi non volesse farsi sentire da coloro che le passavano accanto per la paura, forse, che la scambiassero per pazza. Ho capito solo più tardi, entrando nel suo mondo, che quella era la storia della sua vita fino a quel momento. Raccontava di come si fosse sposata giovanissima e fosse rimasta legata al marito nella buona e nella cattiva sorte fino al giorno in cui lui, malato ormai da anni, aveva deciso che era giunto il momento di andarsene. Di come, suo malgrado, avesse lasciato libero il figlio di cercare il suo posto nel mondo. Posto che aveva trovato tra le braccia di una donna molto più grande di lui e proveniente da un altro Paese. Lo aveva visto andarsene, farsi la sua vita altrove e dimenticarsi di lei come se non fosse mai esistita. Di come passasse le sue giornate completamente sola e senza ascoltare il suono della sua voce anche per intere settimane. Le bastava trascorrere qualche ora all’aria aperta durante il giorno e addormentarsi la sera davanti alla televisione in salotto, per sentirsi viva. Quando ebbe finito di raccontare ogni dettaglio del suo passato che riusciva a ricordare, si alzò dalla panchina e s’incamminò verso casa. Quel giorno la seguii, e così i giorni successivi fino a quando non mi fece entrare nella sua vita. Divenni per lei la migliore compagnia che potesse avere. Mi fece spazio nella sua casa e ben presto divenne anche la mia. Mi assegnò un nome, Teofilo, e un collare rosso con un campanellino che la avvertiva di ogni mio spostamento. Cominciai a capire cosa volesse dire avere qualcuno che si preoccupa del tuo benessere e quanto importante fosse trovare sempre una ciotola calda e un giaciglio pulito. Anche il mio aspetto cambiò radicalmente. Il mio pelo nero divenne così lucido che anche coloro che mi avevano sempre visto per strada stentavano a riconoscermi. Qualcuno, infatti, non riconoscendomi cercava invano di avvicinarmi.
Io le ho regalato il piacere di condividere la vita con un altro essere vivente, anche se un gatto e lei ha regalato a me una nuova vita.
Molto fiabesco. La realta’ a volte o direi spesso usa purtroppo altri generi. Sei molto ottimista’ complimenti! Io un po’ meno comunque Grazie.
Grazie a te, Emanuela per aver lasciato un tuo commento.. purtroppo sì, la realtà è sempre molto peggio ma la fantasia serve anche per filtrarla e renderla migliore!
Racconto garbato, che consola.
Bel racconto, profondo e sorprendente…a me è piaciuto molto! Complimenti!!
Un racconto carino, che sul finale regala un leggero sorriso.
Un racconto che ci presenta in punta di piedi i pensieri di un gatto nero randagio. Gatto questo che deve affrontare ogni giorno varie peripezie per assicurarsi un boccone di cibo. Gatto che si avvicina sempre più ad una donna solitaria che ogni giorno incontra al parco. Molto benaugurante il finale, nel senso che, non sempre le persone che rimangono sole dopo una vita in cui si sono spesi anima e corpo per i propri figli, riescono ad intravedere ciò che c’è in tanti innocenti gattini neri, ovvero una nuova ed energica fonte di grande affetto.