Premio Racconti nella Rete 2013 “Assétou, Néné, Ara: donne africane in Movimento” di Cinzia Chighine
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013– Non lontano dalla piccola moschea, prima del Baobab, vive da sola Assétou. Adora le noccioline dolcificate con zucchero grezzo e la bevanda americana ai succhi tropicali. E’ una donna gentile; di mestiere fa la commerciante ambulante di cacahuettes lungo la strada che da Pikeoko porta a Ouagadougou.
Qualche tempo fa – era mattina – un cancro ai polmoni si è portato via suo marito. Ma ne ha lasciato i vestiti, la pipa e un bastone di legno rudimentalmente intarsiato.
L’unico loro figlio maschio, Boukari, è andato ad alzare la china nella capitale. Le quattro figlie femmine sono tutte sposate, Inshallah…. e sono disperse nei villaggi al di là del barrage.
Assétou si riunisce spesso con la sua grande famiglia e la nutre ancora, come sempre e come può. L’unico rimpianto è non aver potuto far studiare le figlie. Condivide con loro l’impotenza dovuta al non sapere scrivere nè leggere. Ha appreso, comunque, per necessità, dopo la morte del marito, l’arte del contare i numeri.
Pikeoko: qui è una mattina di gennaio calda e soffocante, ma già sembra sera dal cielo che fa ombra. Una foschia bassa colorata di rosa striscia fra le crepe arse della terra rossa. Un vento quasi muto geme come bestia. Luce che muore e più muore più fa male agli occhi arrossati dalla polvere trasportata. Polvere grossa che fa tossire.
Assétou tossisce lungo la strada per Ouaga. Viaggia a piedi con la sua mercanzia raccolta in piccoli sacchettini di plastica riposti con cura su una cesta di vimini che trasporta sulla testa.
Il sentiero si biforca: tutte le due vie sono piane ed infinite all’orizzonte. Dei cespugli piegati dal sole segnano il bivio sulla sabbia.
Durante il cammino, ancora lungo, Assétou si perde nei ricordi: è stata moglie, madre, sempre infaticabile lavoratrice. Sulla sua spina dorsale gravano il peso e le responsabilità del vivere quotidiano.
Donna come lavoratrice, dunque, comunque e sempre: la sua è una forza doppiamente produttiva, come donna madre-nutrice e come donna produttrice. La stessa forza che la condanna le da il privilegio nel contempo di sentirsi insostituibile: negli anni è stata sua la cura della casa e della famiglia, l’educazione dei figli e l’assistenza agli anziani, così come la parte del lavoro di sussistenza entro il territorio domestico.
Da madre – ma anche da figlia – ha sempre assolto il compito quotidiano e pesantissimo di andare tutti i giorni a prendere l’acqua al pozzo (lontano diversi chilometri dal villaggio) e procurare la legna da ardere.
Tra i pensieri, Assétou raggiunge la sua postazione di lavoro, all’angolo del carreffour, dove quotidianamente passano decine di autobus, taxi sept places e qualche jeep con toubab. Ogni fermata è una corsa al finestrino, una contrattazione per la vendita; ogni franco guadagnato è un successo. Mani e braccia che entrano tra i vetri dell’autovettura, sguardi che si incrociano per scrutare quanto si può insistere, urla da ambulanti che sfondano il silenzio del disinteresse. La compravendita è essenza di vita, di scambio di umanità; da’ il senso all’attesa e al movimento del viaggio.
A fine giornata Assétou è stanca ma contenta. Il lavoro rende liberi. Libera si rincammina verso il suo villaggio.Visto che la sera avanza e il vento sferza con una polvere granulosa, Assétou deve scegliere d’istinto se imboccare la via più breve o quella più facile.Fiato di sera lento, dopo cinque ore di cammino, si comincia a vedere i falò del villaggio.
Sapore di acqua fresca, un piatto di polenta bianca condivisa davanti al fuoco, un fromager che stormisce, l’ombra della notte che si posa su tutto il villaggio.
E’ notte tarda ormai, quando Assétou stende il tappetino liso sulla sabbia dell’aia e prega. Poi si siede e alza la sottana di wax dai colori sferzanti e conta i franchi CFA guadagnati. Libera ritorna alle faville del focolare, piegata sul pentolone, ruota il grande mestolo che mescia la polenta per domani. Prima che sia mattina avrà finito.
Sia quel che sia, domani, comunque Assétou s’alzerà per ricominciare la lunga giornata. Poi andrà all’angolo della finestra: fuori, in cortile, un nero di pece maschererà la notte prima che sia luce.
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Odore di pioggia senza pioggia. A Louga si aspetta la stagione dell’hivernage, augurandosi che quest’anno Allah possa garantire nutrimento per il grano sufficiente per permettere il raccolto. Si prega da mesi per questo.
Néné è vedova dall’inizio dell’estate. Un muro di fango, quello della sua casa, è caduto sul marito: la pioggia torrenziale ha causato lo smottamento del terreno e non c’è stato piu’ nulla da fare. Eppure ogni volta che ne parla è una specie di riposo per lei.
Ricorda la settimana di lutto fuori dalla casa, contorniata dalle donne del villaggio. Biscotti dal gusto stantio venivano offerti come dessert di benvenuto e ringraziamento a parenti, conoscenti e altri che venivano a renderle omaggio per la perdita del marito. Visi amici. Sguardi indiscreti. Parole di convenienza. Abbracci di calore.
Le mura di fango della casa proteggevano i tre figli. Tra di loro, in particolare Vivianne: molto piccola ancora, soltanto una bambina. La figlia maggiore, Dénise, faceva da spola tra il dolore ufficiale e l’intimità di una famiglia disperata. Tanto magra da sembrare quasi trasparente da passare tra le crepe delle pietre della capanna.
Néné ricorda lo sguardo spento ma candido di Dénise, come se i suoi occhi vedessero soltanto ciò che è buono. Pensava: “i miei figli sono stati bazzettati, sono cattolici…..Dio li aiuterà nel dolore”. Eppure nei suoi occhi non intravedeva la disperazione placata dalla condivisone con così tanta gente. Nel frattempo, da musulmana dalla nascita, accettava a cuore aperto, come un’eucarestia, il tozzo di pane di frumento e l’acqua del pozzo offertogli dalla figlia.
Nell’aia, invece, erano riuniti, separatamente dalle donne, gli uomini del villaggio, a consolare i fratelli del marito e a confrontarsi sul destino della famiglia.
Sotto una tenda alquanto logora: tante teste, spesso chine in preghiera o corpi sdraiati sul grande tappeto di plastica colorata intrecciata, dove spiccavano bianchi i plantari dei piedi con costellazioni di macchie, nei e piccole spine conficcate.
Tutto intorno un miscuglio vischioso di odori scuri sopra i quali gravava pesante quello
dell’incenso bruciato. Un uomo lento faceva acomodare l’ospite e due volte andava e veniva, l’ultima con un bicchiere di té con aroma di menta.
Ogni ospite formulava alcune domande generali sulla vita, la salute eccetera eccetera. S’informava su i parenti e villaggio di origine. Poi compiangeva il defunto. Infine il silenzio. Per qualche tempo i presenti sembravano studiarsi le mani, come a controllare che ci fossero tutte le dita e tutte a loro posto. Mani aperte, Cuori intatti.
Per un attimo fra le pieghe della tenda un sorriso di un bambino con denti di neve.
Il richiamo del muezzin alla moschea ed una processione di uomini come soldati in missione di scorta al corpo del defunto avvolto in un telo bianco.
Come supporto, tavole di legno destinate a bruciare.
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Da diciotto mesi Idrissa è lontano per combattere in guerra. In una trincea che non è né sua né degli altri mille burkinabé che dai villaggi rurali intorno alla Capitale sono partiti per la Costa d’Avorio. Dal villaggio sono andati via dodici uomini: tre fratelli e gli altri cugini fra loro. Cinque famiglie spezzate ma unite nella speranza del ritorno dei propri uomini con i franchi guadagnati in una battaglia mercenaria per i soldati del Burkina Faso.
Fra le donne in attesa, c’è Ara. A sedici anni e mezzo, in un paese di campagna l’accasarono a un lontano parente di Pô. Un trentenne vedovo di prima moglie.
In Burkina Faso è costume far sposare le donne a gente di famiglia. Idrissa, infatti, è anche suo cugino.
Ara ha vissuto con suo marito e le altre due mogli solo due mesi dopo averlo sposato, prima della sua partenza per il villaggio ivoriano di Seghela. Ma ha imparato in quei pochi giorni che il suo bene è anche il suo dovere e si è affezionata a quell’uomo gentile e di alta statura. Ha cantato a festa per la partenza degli uomini di Pô, ringraziando Allah per quel giorno in cui quell’uomo dalla voce ricca e cangiante entrò nel villaggio e sotto il Baobab richiamò i mercenari burkinabé. Un uomo che sapeva che cosa era meglio dire e che cosa passare sotto il silenzio.
Ritornata nubile, cognate e mogli la tengono d’occhio e non la lasciano mai sola. In realtà, Ara aspetta nei suoi sogni il ritorno del suo amabile amato per vivere quello che finora le è stato negato. Ha le gambe robuste ma i seni giovani e liberi che sbucano dal vestito a seconda di come lei si muove, ride, si china. Lavora sodo con le altre mogli e non si tira mai indietro anche ai compiti più faticosi.
Già due dei soldati sono tornati cinque mesi fa al villaggio. Né feriti né offesi. Con i soldi guadagnati costruiranno la propria casa in mattoni intorno alla capanna e finalmente un granaio chiuso assicurerà il cibo per tutto l’anno, contro le intemperie e gli animali.
Le loro donne saltano in balli di festa. Un soldato è tornato, ma è particolarmente stanco: “Paludisme?”Ammalarsi di malaria fuori dal villaggio è una disgrazia: non si viene curati e il male mangia dentro senza fermarsi. Ma questa volta è una palu diversa, che uomini onesti si portano dietro da incontri di intimità nei sentieri di guerra. Sesso prezzolato nella soglia della sopravvivenza, dove la guerra fa incontrare uomini soli e donne disperate che hanno solo il loro corpo da barattare per guadagnare la loro sopravvivenza e dei loro figli.
E dopo l’attesa, l’unione, comporta così la condivisone della malattia, ovvero l’infezione del virus dell’HIV, a cui le donne sono, da sempre e ovunque, le vittime più esposte. Nessuno ha mai parlato di Aids a Pô. Esiste solo un tabù di un male oscuro, che porta via mangiando le anime.
Ara, intanto, davanti al mare della savana, attende intrepita il ritorno del suo coraggioso soldato. Sguardo profondi racconta senza proferire parola. Il potere di un sorriso. E su quel viso bellissimo, che si rivela da sotto un velo di scura fatica e solchi d’esperienza inimmaginabile, è tutta la guerra quotidiana per la vita.
La città si mostra nuda e seducente all’alba, quando le strade sono solitarie ed abbandonate al vento dell’Harmatthan e le case di fango e sassi sono ancora affollate; quando mendicanti si levano dagli angoli delle ancora vuote piazze del mercato ed i pastori infreddoliti pescano in greggi accavocciati di vacche scarne e montoni assetati.
Gorom Gorom appare agli occhi del viaggiatore come un puzzle dove tanti pezzi sono andati casualemente perduti; il paesaggio è fatto da bassi edifici in banco (terra battuta) con stanzette essenziali, appoggiate a muri smunti nelle case dei pastori, arricchite da decorazioni sgargianti nell’abitazione del Sindaco e camuffate con piante di plastica impolverate nei rari Tele Centre.
racconto esotico e insolito che cattura.
Viva le donne di tutto il mondo!!
la mia opinione è che confondere letteratura e temi sociologici non va mai bene. il prodotto letterario si indebolisce e spesso è molto povero. 9 volte su 10. sospendo il giudizio sulle donne in movimento sino a che non mi date ok su questa riflessione di prima battuta. in modo assoluto. per bertino: viva la vita! viva il sole! viva la gnocca! 🙂 CEMF
Sono daccordo con te Fairendelli, fondere temi sociologici e letteratura in un connubio da cui emerge un’eccellenza di prodotto, sia dal punto di vista letterario, sia da quello sociologico, non è facile, inoltre, se andiamo ad esaminare bene, in questo concorso moltissimi racconti hanno temi sociologici, quindi, la loro valutazione è ancora maggiormente ardua. Comunque,trovo questo racconto encomiabile per la capacità descrittiva dell’autrice
Please, Fairy, lascia stare le tue riflessioni di prima battuta. Non ce n’è bisogno! Intuiamo!
Un bel racconto che trascina in terre lontana e seducenti… complimenti!
Il racconto è scritto molto bene… Leggendo scorrono davanti agli occhi immagini calde fatte di polvere rossa e profumi speziati. Le tre protagoniste sono descritte bene..
Mi aspettavo però un intreccio di vite, qualcosa che le facesse incontrare..invece resta una sorta di antologia..mi ha ricordato un libro letto anni fa “Donne dagli occhi grandi”.