Premio Racconti nella Rete 2013 “La scoperta del piccolo Emmanuele” di Alessandro Marinaro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Ebraismo
…anche il porco, che ha l’unghia bipartita ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri. (Deuteronomio 14,8)
Islam
In verità vi sono state vietate le bestie morte, il sangue, la carne di porco e quello su cui sia stato invocato altro nome che quello di Dio. (Corano, Sura II, 173)
Quando Emmanuele vide per la prima volta quel porcellino, se ne affezionò subito, manco fosse un cane. Più di un cane, addirittura. Lo accudiva, ci scherzava, ne imitava il grugnito, lo sfotteva belando e gli lanciava foglie di lattuga, cosciotti di carne di bue, tuorli d’uovo, bucce d’ortaggi, e il porcellino mai una volta che rifiutava, divorava con ingordigia tutto quel cibo. Emmanuele si divertiva a lanciare lontano tutta quella roba e, il porcellino, con quelle zampette e le unghie bipartite, e le gambe tozze e cortissime, correva da una parte all’altra del piccolo recinto, e s’ingozzava. Quando correva, pareva che la bocca ridesse e gli occhi si allungassero, formandogli un’espressione dolce e infantile, tipica dei maialini.
La famiglia Gensabella lo teneva prigioniero nel recinto da quasi quattro mesi. Non avevano mai posseduto un suino, solo animali con piume, tipo una gallina dalle penne rossastre, alla quale Emmanuele si affezionò tre anni prima, e che la nonna spennò tirandogli il collo una domenica di settembre. Una domenica piena di convitati. Quando Emmanuele assistette a quella scena, provò una morsa nello stomaco. Una morsa che gli fece paura e lo fece piombare dalla mamma in cucina, tremante, la quale toglieva il piumaggio ad un altro pennuto, adagiato sul davanzale. Quella gallina fu chiamata dal bimbo nel solito modo: coccodé. E il bimbo non capì perché la nonna s’accanì contro il suo rachitico collo.
Quando pioveva, il bambino si precipitava nel recinto, e invitava il maialino – chiamato da lui Porcellino – ad entrare in una casetta di legno che aveva costruito con le sue mani, dentro cui piazzò una coperta di lana, pensando che l’animale potesse proteggersi dal freddo.
Una notte di lampi e tuoni, una notte in cui la pioggia scendeva furiosa dal cielo, corse verso il recinto, gridando Porcellino Porcellino Porcellino, e nella corsa sentiva la bestia grugnire esaltata, come se aspettasse il cibo. Il bambino spalancò la porticina di legno e ordinò all’amichetto di accuciarsi sulla coperta. Il porcellino gli corse incontro e fiutò i suoi calzoni, zuppi di fango, poi le mani vuote che gli lanciavano sempre piccoli doni. La mamma di Emmanuele sentì grugnire e gridare nella tempesta della notte, e strillò al figlio di tornare a casa, che l’avrebbe sculacciato. Cosa che avvenne in modo puntuale.
Emmanuele si divertiva a correre nel recinto rasente le travi di legno, e rideva come un pazzo quando il porcellino trottava dietro, più divertito di lui, grugnendo e riproducendo suoni acuti e vibranti, che a lui piacevano tanto. A volte cascava a terra dalle risate e, il naso unto e fangoso della bestia, si poggiava sulle sue gambe, e con la forza del collo cercava di rimetterlo in piedi, per correre ancora, e poi aspettava felice una ricompensa. Cosa che avveniva sempre. Il bimbo scoppiava in matte risate e urlava lasciami stare lasciami stare, e si rotolava a terra in mezzo alla sozzura, annerendosi come papà quando puliva la canna fumaria. Tornato a casa le buscava da entrambi i genitori.
Quanta gioia quando gli donava la ricompensa e lo vedeva esprimere la sua folle contentezza! Sembrava che ridesse il maialino, per come incurvava la bocca. E pareva lo ringraziasse con gli occhietti piccini piccini: due fessurine. Emmanuele si scioglieva d’affetto e se lo stringeva, avvinghiandosi al collo, e le guance di
entrambi si sfioravano. Il porcellino si eccitava e batteva le zampe a terra, tup tup tup, improvvisando rapidi balzi, passi danzanti, somiglianti a una pizzica. Emmanuele si sbellicava dal ridere e si rotolava sul letame, seguito dall’amichetto ballerino.
Alle volte avveniva che i genitori Gensabella erano fuori per le compere, il bambino apriva la porticina dello steccato e lasciava Porcellino libero di scorrazzare per il giardino. Una volta lo fece entrare in casa, in cucina, portandolo vicino la cesta degli ortaggi; e poi vicino al frigo, riempito di costate di montone. Lo sfamò lì. Emmanuele si mise con le gambe penzoloni sul tavolo e Porcellino lo fissava dal basso in alto, manco fosse un cagnolino, e si sfamava contento, ballonzolando sul pavimento. Poi Emmanuele gli si mise a cavalcioni sul dorso, e gli disse:
“Ora che hai mangiato, sei forte. Portami fuori. Quando ti stanchi, dimmelo, che scendo.” Se durante il tragitto lo sentiva ansare, scendeva di corsa e gli diceva contrito: “Scusa, scusa, non lo faccio più, non lo faccio più. Piccolino, piccolino…”, e gli batteva la manina sulla testa, con dolcissima cautela.
Quando quel giorno i genitori ritornarono e videro il pavimento tutto bagnato, come se qualcuno l’avesse ripulito da poco, chiesero al figlio conto e ragione, e quello rispose che una fetta d’anguria era finita per terra. Dopo se la rise e ordinò a Porcellino di mantenere il segreto. Quello grugnì a lungo, come se davvero avesse inteso, mentre il bambino gli carezzava la groppa, temendo di avergli fatto del male.
Tutto quell’affetto e quelle premure poco interessavano alla famiglia Gensabella, che un giorno decise di preparare un lauto pasto domenicale, per fare rimpinzare i convitati. Mamma e papà Gensabella volevano invitare tutti i parenti, anche quelli più litigiosi, sederli allo stesso tavolo, e dire loro di archiviare vecchi rancori e resistenze, per tornare a volersi bene come un tempo.
Sapevano che alcuni avrebbero declinato l’invito, ma poco importava, l’importante era che i presenti si divertissero e s’avvinazzassero. Ma per ottenere un pranzo domenicale coi fiocchi, di quelli che se ne parla nei giorni avvenire, di cui non si può spettegolare nei cortili di nuore e suocere, ma solo parlarne con la bocca sciacquata, bisognava che la signora Gensabella, oltre a catalagore gli ingredienti a lei più consoni, doveva trovare il modo di ficcare il porco nel forno. Così, un giorno, il signor Gensabella, sapendo che il figlio s’era legato a quella bestia in modo estraneo ad ogni previsione, decise di telefonare al fratello, per dirgli se l’indomani mattina avrebbe portato il piccolo a pescare. La richiesta fu accettata di buon grado. Emmanuele s’alzò alla buonora, quando c’era l’aurora e la rugiada bagnava il pochissimo verde dell’estate siciliana. Lo zio Santo l’attendeva fuori il portone, dentro la Panda ammaccata. Il piccolo montò e lo salutò, facendo schioccare le labbra sulla sua guancia paffuta.
“Andiamo?”, chiese lo zio sorridente. “Corriamo!”, rispose il piccolo, tutto raggiante. La macchina sgommò ed entrambi se la risero. Più tardi, alle nove del mattino, quando Emmanuele e zio Santo erano a largo del mare di Brucoli, fece ingresso in casa Gensabella l’allevatore e macellaio di suini Alfio Castiglione, tipo corpulento, dalla faccia ovale, il naso largo e le mani callose. Entrò dal portone prima la pancia adiposa e dopo quel che restava di lui. S’avvicinò a Turi Gensabella con quella faccia tipicamente accigliata che caratterizza certi soggetti siculi, anche se incolleriti non sono. I due si salutarono col bacio in guancia e dicendo “Comu semu? (1) A’ cca semu. (2)” Si diressero verso il recinto dove il porcellino grugniva e pareva agitato, come se presentisse. Quando vide quell’energumeno, si nascose nella casetta costruita dalle manine di Emmanuele, disperso quella mattina a largo dello Ionio. Il bifolco vide il maialino e si sorprese che fosse molto piccolo. Ne scrutava da lontano la piccina dimensione, e con occhio di lince adocchiava possibilità di buoni tagli da praticare.
Alfio Castiglione aveva al seguito due giovani tirocinanti, che sgobbavano giornate intere nel suo enorme porcilaio, registrati all’ufficio anagrafe come Salvo Spitaleri ed Elio Gangi. I giovanotti si fecero una corsa verso il recinto che il capo costeggiava, armati di corde, coltellacci, mannaie e pure un machete. Quando il bifolco Castiglione li vide armati fino ai denti, disse, calcando la zeta e aprendo la “o”: “Che esagerazzione”
Il porcellino si mise a correre. Forse non si fidava di quelli lì. Lanciava brevi e secchi urli. Si dice sia questa la natura del maiale: l’animale che pare consapevole delle umane intenzioni e presagisce di finire in uno scannatoio. Il suo acume, proprio così, sembrava non tradirlo. Non si fidava di quegli oggetti così grossi, accompagnati da battute di scherno, e quelle lame che si sfioravano e stridevano.
Quando nel recinto entrava il padroncino era sereno. Adesso si sentiva tutto agitato, tutto apprensivo, tutto atterrito. La paura gli sfondava il petto e lo faceva sbuffare. Correva avanti e indietro, col naso appiccicato a terra, come se grufolasse in cerca di cibo, e invece costeggiava lo steccato, cercando un’uscita. Sbatteva contro le travi di legno e ne veniva fuori intronato. Gli uomini si misero a rincorrerlo, ma lui riusciva a fuggire, ogni volta, strisciando sotto quelle gambe robuste. I giovani apprendisti sorridevano e gridavano Femmiti, cunnutu! (3), ma il porcellino sgusciava dalle loro prese. L’intenzione era farlo sfiancare. Quando tornò indietro per infilarsi nella casetta, quella in cui si sentiva protetto, la gamba pesante e rocciosa del corpacciuto Alfio Castiglione, incollerito per quei capricci, si sollevò per colpire il suo dorso, ma uno scatto subitaneo del maialino gli fece perdere l’equilibrio. L’uomo terminò col culo per terra, tra la melma indurita dal sole cocente. Non aveva mai subito un tale affronto, e le risate dei garzoni ne scatenarono la ferocia. Strappò la mannaia dalle mani di uno di loro, e la scaraventò contro la bestia, che stava sul ciglio della casetta di legno. Lo centrò dritto sul dorso, nello punto carezzato dal padroncino Emmanuele, quello che ebbe timore di danneggiare se ci galoppava di sopra. La lama si incastrò nella carne. La bestiaccia gettò un grido straziante. Iniziò a scuotersi sul posto, a scalciare, a issarsi goffamente sulle gambe posteriori, a saltare come un toro schernito in un rodeo. Niente, tutto quell’acciaio rimaneva conficcato. Si rimise a correre, e gli urli erano più dolorosi, disperati e allungati. Il coltellaccio ondeggiava sul dorso, non voleva staccarsi, il sangue cominciava a scorrere con irruenza e macchiava gli escrementi, i residui di cibo, il terreno melmoso. La corsa si faceva più affannosa e squilibrata, e la povera bestia fu centrata allo stomaco da un potente calcio di Salvo Spitaleri. Il corpo sbalzò in aria e piombò pesante a terra. Si rialzò intontito, le gambe anteriori vacillarono e finì col muso sulla sua cacca. Provò a recuperare l’equilibrio, ma Elio Gangi gli era addosso. Gli avvolse una corda sul collo e diede potenti strattoni, rischiando di soffocarlo. Il maiale si dimenava e piangeva, grugniva e sbraitava. Alfio Castiglione staccò la mannaia dal dorso e gli diede un calcio sullo scroto, con la punta durissima dello scarpone, per farlo cedere sulle gambe posteriori. Il maiale lanciò un urlo terrificante. Turi Gensabella non pensava fosse così difficile accoppare un porco, né tantomeno acchiapparlo, e per un secondo fu preso dal rimorso. Sapeva bene che non era quello il metodo, ma Alfio Castiglione scelse quello più barbaro.
La bestia cedette sulle gambe e si piegò su un fianco. Gli fu applicato un altro potente nodo tra la mandibola e il naso, e un altro ancora sulle gambe anteriori, che furono bloccate. Si agitava ammattito, pazzo di paura. Il respiro era prima rapido, poi rantoloso. Gli strilli uscivano più fiacchi dalla bocca legata.
“Dammi chissu, dammi chissu…” (4), ordinò il grasso Castiglione ad Elio Gangi, che gli passò un enorme coltello acuminato. Indossarono dei camici bianchi per non sporcarsi, tenendo a bada l’animale, che aveva ancora la forza di dibattersi. Tira tira tira, ordinò Castiglione a Spitaleri, che piegò la testa del porco all’indietro, lasciando stirare i muscoli del collo, dove la lama del coltellaccio recise di netto la gola. L’animale gettò l’ultimo grido, il più assordante. Il sangue zampillò furibondo e imbrattò i camici dei tre scannatori, che lo insultarono incazzati. La bestia diede vita a brevissimi rantoli. Alfio Castiglione si rialzò a fatica, ma solo per dargli cinque calci sulla pancia, che lo sollevarono da terra, fottendosene del sangue che gli insozzava i pantaloni; poi, con la pianta della scarpa imbrattata di merda, gli pestò la faccia. Gli aiutanti risero.
Trascorsero tre giorni dallo squartamento del maialino nero dei Nebrodi. Tre giorni in cui il piccolo Emmanuele pianse dalla mattina alla sera: non poteva credere che il suo porcellino l’avesse abbandonato, che fosse scappato nel boschetto adiacente la casa di campagna. Stavano così bene assieme, si divertivano così tanto, si allietavano a vicenda le lunghe giornate estive, si scambiavano così tanti gesti d’affetto. Non era possibile, non era possibile che fosse fuggito. Fuggito da chi? Questo è ciò che gli raccontarono, che era fuggito dal portone lasciato aperto sbadatamente dal nonno Mimmo Lo Faro. Trascorsero tre giorni in cui il bambino lo cercò tra l’ammattito, l’incupito e il furibondo. Girovagò lungo i sentieri del boschetto, dietro i tronchi dei castagni e le siepi, dietro i cespugli e dentro una casetta abbandonata, costruita coi muretti a secco di pietra lavica. Si sporse pure dal pozzo vicino la stessa catapecchia, credendo di trovarlo là sotto, annegato dentro l’acqua putrida e ristagnante. Gridava il suo nome nel buco e l’eco della sua voce gli restituiva il nome Porcellino Porcellino. Pregava Gesù che lo facesse riemergere dall’acqua e glielo ridonasse anche morto stecchito, quantomeno per dargli una sepoltura. Stava seduto, con la schiena poggiata sul muretto del pozzo, e fantasticava il grugnire dell’animaletto provenire da laggiù, con le mani giunte in preghiera, gli occhi chiusi per ore, piangendo a dirotto. Arrivavano gli insetti a fargli visita: mosche verdi e nere, vespe e farfalle, scarafaggi e lombrichi, che lui accoglieva con un sorriso, senza infastidirsi per i ronzii né impaurirsi per le punture. Acchiappò una bellissima farfallina dai mille colori, le strinse le ali e la lanciò verso il buco del pozzo, dicendole “Vallo a prendere.” Disse proprio così. La farfallina sorvolò lungo i confini del cerchio e ne uscì subito dopo, rifugiandosi tra le piante dei rovi, riempite di more. Ritornava a casa all’imbrunire, sapendo d’essere sculacciato per i continui ritardi. Ma era tale lo strazio che in quei giorni si infischiò di busse e rimbrotti.
Finalmente arrivò la domenica del pranzo opulento, quello preparato con dovizia di particolari, quello delle abbuffate all’italiana, in cui gli adulti, finito di divorare, si coricano sulle sedie della cucina e s’accarezzano la pinguedine della panza, e giocano formando palline di mollica che lanciano ai parenti distratti, perduti in discorsi linguacciuti.
Il pranzo fu ricco di pietanze. Due tipi di pasta: la norma e i ravioli con brodo di carne di maiale, aromatizzato con salvia. Infatti quel porcellino, che prima camminava e trottava, che saltellava sul posto e pareva ridesse nel ricevere carote marce, adesso era sbrandellato e cosparso di brodo, e finiva dentro la pancia di nonno Mimmo, zio Nicola, zia Cettina, nonna Lucia, papà Turi, mamma Grazia, zio Santo, zia Aitina, zia Adriana, e nelle piccole bocche dei cuginetti Mario, Marco, Giuseppe, Alessandro, Giovanna, Simona, Sabrina, Adele e Ketty. E pure in quella del piccolo Emmanuele, che masticava ravioli e pezzi del suo porcellino, a sua insaputa, dicendo “Che buono! Che buono! Che bello quando mamma cucina così!” La sua sincerità scatenava le risate, le carezze e i baci del parentado, che se lo stringeva e raddoppiava la G e allargava la O per dirgli “Gioia mia!”
Per secondo c’era la salsiccia condita, gli involtini ripieni, le polpette di cavallo, la cipollata alla brace e la metà del corpo del maialino di Emmanuele, riposto in un vassoio d’alluminio, con la faccia abbrustolita e mezzo limone in bocca. La mamma ebbe cura di riporlo a distanza dal figlio, ricevendo i rimbrotti del marito, il quale sosteneva che non poteva mai immaginare che quel bimbo, così piccolo, avrebbe rivisto l’amichetto scomparso su quel vassoio. Ma le donne, si sa, non sono mai
avare di precauzioni. Turi Gensabella s’alzò e si diresse al centro della tavola, sfregando due coltellacci per affettare il porco e ridistribuirlo sui piatti in modo equanime. Chista è carne di primo tagghio (5), disse compiaciuto in direzione del suocero Mimmo, cercando di italianizzare il dialetto. Il suocero rimase impassibile. Non si scomponeva mai prima di assaggiare. Era ingeneroso nei complimenti. A lui interessava mangiare e basta. Era colto in fatto di cibo e ignorante nell’oralità. Per lui, il senso della vita, era la masticazione.
Nel frattempo gli ingordi commensali spendevano parole d’elogio per la cucina della signora Gensabella, con toni rumorosi e gestualità teatrale. Si passavano la bottiglia di vino ricavato dalle viti di Santa Venerina, e alcuni ruttavano per fare dello humour. I più piccoli ridevano delle battute dei più grandi, e delle barzellette condite di pernacchie e rutti liberi. Turi Gensabella tagliava con cura il povero corpo della bestiaccia scomparsa, e lo riponeva sui piatti, badando bene a dare la fetta più grossa a nonno Mimmo, capotavola e capo famiglia. Sua moglie invitava i presenti a servirsi il contorno: fagiolini con aceto balsamico e patate con rosmarino. Nonna Lucia dava scappellotti sulle mani del marito quando abusava del vino, oppure quando non toglieva la mollica dal pane, che ingurgitava a chili. Emmanuele masticava la carne di Porcellino, e si complimentava con la mamma. Emmanuele era una buona forchetta. I genitori volevano farlo crescere contento e pasciuto. Diceva “uhm, buono!”, allungando la M.
I cuginetti si lanciavano le molliche e nascondevano i visi dietro le bottiglie; i giovanotti discorrevano di amori di coppia e senso di rigetto per l’amore sponsale; gli uomini facevano battutacce in dialetto e si lamentavano col governo; le donne si univano ai loro discorsi, ma la soglia d’attenzione durava poco, così viravano verso la passione preferita: il cicaleccio. Partiva per prima zia Aitina. Le altre le facevano il coro. Solo mamma Grazia titubava. Ma poi cedeva. La tentazione era troppo forte. Attorno a quel grande banchetto si alternavano espressioni dialettali e giudizi sprezzanti verso gli assenti, e pure brevi silenzi in cui si pensava solo a inghiottire. Emmanuele terminò la fetta del suo porcellino e fece richiesta di un’altra, ma nessuno lo ascoltò. Gettò uno sguardo verso il vassoio e s’accorse della rimanenza: la testolina. Chiese un’altra fetta con voce forte, ma il vino, il cicaleccio, le risate, distraevano i beoni chiassosi, che lo ignoravano. S’alzò e si diresse al centro della tavola per servirsi da solo. Prese il grosso coltello accanto alla testa e fece per tagliarne una fetta. La testa ondeggiava, fino a capovolgersi oltre il vassoio. La nonna Lucia se ne avvide e ne sorrise. Il coltello era lungo quanto il suo braccino. “Faccio io, faccio io, nonnina…”, disse nonna Lucia. Turi Gensabella, mezzo ubriaco, disse: “Non ce n’è più. E’ finito, non ce n’è più. Ne volevi ancora? Tutto suo nonno!”. E via con risatone, spallate, schiaffi affettuosi, il tutto reso possibile grazie agli istinti alterati dal quel magnifico frutto: l’uva.
“E’ buonissima!”, gridò entusiasta il bambino. La nonna s’intenerì. “Vediamo, gioia. Vediamo che possiamo fare”; e s’avventurò in un taglio infelice, che sbriciolava la carne in residui minuscoli, non essendo più adatta ad un taglio decente. Il bambino rimase serio serio e osservava gli sforzi della nonna che cercava di affettare un pezzo masticabile. Il piccolo Emmanuele guardò meglio quella testolina e ne scorgeva una certa familiarità. Aggirò il tavolo e si posizionò accanto a nonna Lucia. Incurvò la schiena e poggiò il mento sul dorso del tavolo, così da guardare negli occhi quella faccia arrostita: gli occhi non esistevano più, erano due cerchi marroncini; il naso era schiacciato e bruciato; le orecchie stavano attaccate e sembravano solo due sporgenze; la bocca era aperta con un pezzo di limone conficcato. Fissò quel che restava di quella faccia. La nonna continuava a pressare sulla carne con esiti disastrosi. Si sbriciolava e i pezzi finivano oltre il vassoio, vicino i bicchieri di zio Santo e zia Cettina. Uno volò e ci finì dentro, inzuppandosi nel vino frizzantino di Santa Venerina. Quella scena fece ridere lo zio, che bevve la rimanenza e inghiottì la carne, mormorando: a’ facci dell’immiriusi! (6)
La faccia di Emmanuele sembrava atrofizzata, non accennava un movimento. Ebbe l’impressione di sentire come un grugnito; un grugnito prima felice e sfuggente, poi disperato e atterrito. Fissava la faccia del porco e la sovrapponeva a quello dell’amichetto scomparso. D’accordo, era tutta bruciata, sembrava più piccola, ma la somiglianza era notevole. Sentiva gridare. Quelle urla soffocate è come se provenissero dalla bocca della testa mozzata. Iniziò a strillare: “E’ lui! E’ lui! L’ho trovato, è qui, è qui! E’ lui!” La nonna s’arrese e fece un balzo per gli strilli del bimbo. Il coltello volò per aria. “E’ lui! E’ questo, questo! Ecco dov’era! Era qui, qui!”, continuava ad urlare il bambino, che mischiava felicità e tristezza, pianti e risate. “E’ questo, questo qua!”, disse sporgendosi verso la testa e portandosela al petto. La circondava col braccio e l’accarezzava con la guancia. “Sei qui, sei qui, porcellino. Amichetto, amichetto, ti ho trovato! Ti ho trovato finalmente! Sei qui! Perché sei scappato?”. Scoppiò in singhiozzi mentre abbracciava quel pezzo di carne e se lo sbaciucchiava sulla testa e sulla superficie del naso. Gli altri rimasero impietriti e il bimbo volse lo sguardo verso mamma e papà, ai quali disse entusiasta, gli occhi sgranati e il viso lacrimante: “E’ qui, papino! E’ qui, mammina! Era qui, qui, sul tavolo! Non era scappato. Ve l’avevo detto che non scappava. Era qui. Si era nascosto qui, sul tavolo.”
Poi, d’improvviso, sentì come un grugnito venire da lontano. Si portò la mano sul pancino e non sapeva perché. Gli sembrava che la pancia dolesse. Il grugnito impetuoso sembrava provenire dalla bocca dello stomaco, dalle giovani viscere. E poi un pianto, un dibattersi, uno scalciare, uno strillo, un grido infinito di paura. E a quel punto, a soli 7 anni, gli sembrava d’aver capito. Così, con la testolina del porcellino protetta dalla braccia ossute, scappò dalla cucina e corse fuori in giardino, verso la staccionata. Aprì la porta legnosa, con un calcio, e sembrava pazzo di gioia. Poggiò la testa a terra e si mise carponi, ad altezza occhi. Le mani si imbrattarono di cacca. Fissò quegli occhi vuoti e arrostiti, e cominciò a grugnire grrr grrr, prima piano, poi sempre più forte, aspettando la reazione di quella testa compatta. Cominciò a balzare sul posto come faceva il suo amico, a gettare le gambe indietro, imitando lo scalciare degli equini. Gli zii e i cugini s’affacciarono dalla porta-finestra, e rimasero scioccati e vinti da quell’immagine insensata. Stavano ammutoliti, pietrificati. Emmanuele era carponi nel recinto laggiù, e correva attorno a quella testa abbrustolita, aspettando un gesto di reazione della stessa. Senza accorgersene, con le suole delle scarpe che grattavano per terra, faceva schizzare il sangue rappreso di alcuni giorni prima. I cuginetti più piccoli ridevano di quel gioco e volevano unirsi andandogli incontro. La mamma e il papà, increduli e paonazzi, si incamminarono verso il figlio, che si rotolava sul letame e s’impregnava di quell’olezzo vomitevole, e fissava quella faccia di carne buttata tra le cibarie avariate. Appena gli furono addosso, il piccolo iniziò a gridare, riproducendo il suono atterrito dei maiali che intuiscono d’essere scannati. I genitori cercavano di placarlo, ma il bambino gridava sempre più forte. Si dibatteva tra le loro braccia e scalciava. Cercavano di bloccarlo, urlando e imprecando, ma lui fuggiva ogni volta, correndo a quattro zampe, scivolando dalle loro prese rabbiose. E poi grugniva, prendendoli in giro. Subito dopo ricorreva su due gambe, prigioniero del recinto, accostandosi alla staccionata, prendendola a spallate, provando a saltarla, senza riuscirci. Teneva fra le mani quella testa sfracellata, che ondeggiava a causa del passo, e scappava piangendo di paura, imitando eccezionalmente gli strilli del porco.
Traduzione
1 Come va?
2 Siamo ancora qui (nel senso di vivi e vegeti). Tiriamo a campare, andiamo avanti.
3 Fermati, cornuto! 4 Dammi questo. 5 Questa è carne di primo taglio. 6 Alla faccia degli invidiosi!
Scritto bene, molto bene.. Bertiniano (v. Bertino Giovanna) convinto, devo però anche criticare, in relazione allo spunto che mi offre il racconto. In Israele è vietata anche la suinicultura, il problema non è infatti solo non mangiarlo, il porco, ma anche non giocarci. Soprattutto se ti chiami Emanuele devi tenere i maiali a distanza.:-) Il problema delle norme alimentari che l’autore richiama è complesso. Non si tratta di norme igieniche, ma, con ogni probabilità di norme che derivano dall’analisi della sostanza vitale, nervosa e inframentale degli animali così come usciti dalle mani (si fa per dire) del Demiurgo. Frequento a Milano la classe del Rabbino Isidore Kaplan e mi piace ricordare un suo provocatorio intervento alla nostra domanda sul perchè delle norme alimentari: “Carissimi, sembra che le proibizioni relative al maiale derivino dalla volontà di danneggiare economicamente i moabiti, che lo allevavano intensamente ai tempi del Libro. Sembra che si voglia, oggi, anche evitare il cannibalismo, conoscendovi per i maiali che siete, almeno a vedere le foto che appendete nei vostri armadietti e da come guardate mia nipote. Sembra. Ma le cose non sono mai sembrano e di più non vi dico. Per la prossima volta fatevi venire un’idea che giustifichi le regole alimentari tutte.” Rabbi Isidore Kaplan Tutta questa mia riflessione ha solo in parte a che vedere con il bel pezzullo di Marinaro. Portate pazienza. 🙂 CEMF
Ma le cose non sono mai COME sembrano
Racconto siculo dal sapore autentico, che si legge tutto d’un fiato, anche se il finale è intuibile. Descrivi benissimo, con ironia e realismo la realtà contadina e le mangiate siciliane; io che ho due genitori siciliani lo posso dire forte. E come è tenero il maialino che sorride con gli occhi a fessura. Non posso che congratularmi con te, novello Verga
Mi prendo il “novello Verga” arrossendo sulle guance. La sua storia dell’asino di San Giuseppe è impareggiabile. Grazie mille, Giovanna. Sono contento che ti sia “abbuffata” allegramente leggendo queste pagine.
Per Fairendelli. La citazione del Rabbino è davvero acuta. Molto poetica. E non avevo mai letto “il bel pezzullo” e la “suinicultura”. Mi piacciono un sacco. “Emmanuele”, con due “m” (ma pure con una) deve tenere i maiali a distanza? Sì, perché il nome è ebraico e significa “Dio (è) con noi”. E tu già lo sapevi! E m’hai fregato! Ma adesso ti frego io: il mio Emmanuele non ha origini ebraiche, è siculo e basta, quindi i maiali se li tiene vicino 🙂
Purtroppo l’Asino di S Giuseppe non l’ho scritta io e nemmeno l’ho letta. Vedrò di mettermi in pari. I racconti sono così tanti che non si capisce più niente. Saluti alla Sicilia, terra magnifica!
Bertino ma l’Asino – pezzo detestabile come quasi tutta la prosa verghiana – l’ha scritto Giovanni. 🙂 CEMF
Appunto. Asino, porcello. Giovanni, Giovanna. Qui è una babele di nomi. È dura arrivare fino a maggio!
ps povero Verga, mi scuserà!
Maggio? Questa avventura terminerà a Maggio? CEMF
Bravo. Il racconto scorre tra ironia e realismo.
La narrazione è incisiva e si nota chiaramente molta dimestichezza nella scrittura.
Molto efficace la descrizione della scena della cattura del maiale.
Penso, invece, che si potesse omettere quell’iniziale reazione di entusiasmo del bambino nel momento in cui “ritrova” il suo amico porcellino.
Ad ogni modo è un buon racconto.
Sai, qua siamo rimasti scossi dalla scomparsa di un altro quadrupede, avvenuta pochi giorni fa.
E, nel timore di cosa potrebbe accadere al cavallo di Fairendelli, ho letto quell’ultima parte del tuo brano con un certo turbamento.
è a bistecche? 🙂 CEMF
In ogni caso ricordiamo al galoppo. Con la criniera al vento.
Gioacchino, il dott Brandi ci ha ammonito. Smetti di giocare, scendi da cavallo e fai il bravo!
Bertino l’ammonito continua a giocare. E’ il secondo cartellino che significa espulsione. In ogni caso io mi sono conformato a commenti costruttivi e “sul” testo. Il Dott. Brandi sarà contento di me. Devo perdere anche il mio stile, diventare un altro, farmi violenza, scendere a compromessi? No, preferisco allora essere aggredito da un gruppo di maghrebini all’uscita dei tunnel il venerdì, con la busta della paga in mano, con il rischio di subire anche ben altro… 🙂 CEMF
CEMF, sei troppo simpatico!
Ma tutto questo cosa c’entra col porcellino di Emmanuele? 🙂
Gioacchino, l’entusiasmo del bambino mi sembrava utile per evidenziare la sua presunta inconsapevolezza rispetto alla brutalità degli adulti. Forse ho ecceduto? Boh, non so. Grazie comunque per la critica.
Ciao Alessandro, confermo che il tuo è davvero un buon racconto, scritto con ottima padronanza narrativa, ma forse è il caso che io specifichi meglio cosa intendevo dire sulla reazione iniziale del bambino.
Quando Emmanuele “ritrova e riconosce” il suo amico porcellino a tavola, quella sua prima reazione entusiasta mi è apparsa un po’ innaturale, perchè credo che un bimbo di sette anni capirebbe cosa è successo e ne rimarrebbe subito turbato.
La reazione di sgomento e fuga che mette in atto poco dopo è, a mio parere, quella più istintiva, immediata e naturale. Per questo motivo ho detto che l’entusiasmo iniziale poteva essere omesso.
L’obiettivo di evidenziare l’inconsapevolezza di Emmanuele rispetto alla brutalità degli adulti è stato pienamente raggiunto, a mio parere, a prescindere da quella reazione mista di felicità e tristezza.
Ma si tratta soltanto di sensazioni soggettive, perciò, se per te quella parte del racconto era utile per evidenziare ancora di più l’assenza di malizia del bimbo rispetto all’atteggiamento degli adulti, allora può darsi tu abbia fatto bene a inserirla.
In ogni caso è un gran bel racconto.
Ciao
PS: Giovanna, Fairendelli: devo scendere da cavallo?
E chi ve lo tocca il cavallo!
E’ tutto vostro, siete così carini su quello a dondolo!
D’accordo, Gioacchino, chiarissimo! 🙂 Ho piacere a leggere i vostri. Cosa che farò. Volemose bbene.
Tenerezza e crudeltà’.
fagnani puo mettere un commento su un mio racconto che non trovo piu la sua mail? grazie e mi scusi. CEMF 🙂
bello, un buon, bel racconto
Che piacevole racconto…la descrizione del classico pranzo meridionale è sorprendentemente realistica, dalle urla e le risate, al lancio delle molliche di pane!!!! perfetto!! e poi la storia è bella e toccante! bello bello
Ciao Alessandro. Grazie per il tuo bel commento. Ne ho approfittato per leggere il tuo e devo dire che può venirne fuori un corto molto interessante. Bravo!
Oh ti ringrazio di cuore davvero!!! 🙂 Speriamo tutti e due!!
Una gran bella scrittura per un racconto dal sapore sicilianissimo!
Ciao Francesco, grazie!
COMPLIMENTI ALESSANDRO PER LA VINCITA….ricordo che quando ho letto il tuo racconto mi si è stretto lo stomaco e mi sono salite le lacrime agli occhi pensando a quel povero bambine ed al suo amichetto. Non mi ero sentita di commentare …MI DISPIACE..Il racconto è scritto meravigliosamente bene tant’è vero che è stato premiato. Complimenti ancora! 🙂
Che bello leggere le tue parole. Grazie Eleonora. Vorrei abbracciarti!
Considerando che sono catanese ma risiedo al nord da quand’ero bambina ho letto il tuo racconto con molto piacere, rivivendo ricordi e storielle raccontate dai miei parenti. Molto Bravo complimenti!
Già, il tuo cognome non è proprio nordico! Grazie Linda.