Premio Racconti nella Rete 2013 “Interferenze” di Riccardo Piazza
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Dal casolare in fondo alla strada, la radio trasmetteva una canzonetta degli anni sessanta, una di quelle che poi ti porti dietro per tutta la giornata.
Si percepiva perfettamente tutta la linea melodica e buona parte del testo in quel mattino dimenticato da Dio e dai diavoli. Il silenzio assordante del piccolo borgo era il preludio del giudizio universale e la canzonetta una piacevole distrazione.
Le tende erano ancora socchiuse e l’acqua del vecchio rubinetto, condannata dalla forza di gravità, goccia dopo goccia, scandiva un ritmo fastidioso. Percependo il peso sovrannaturale del corpo in fase di risveglio, mi diedi slancio e decisi che era tempo di mettere a posto le cose. Mi alzai, chiusi il rubinetto ben stretto e versai del latte in un bicchiere. Valorizzando ogni gesto presi vigore in ogni attimo riuscendo a sentirmi per un secondo, giuro, veramente solo. Io, solo del tutto, non lo sono mai stato, perlomeno da un certo punto della mia vita in poi, ma andiamo per ordine.
Ero scapolo: L’amore mi aveva sempre tentato, sfiorato e poi lasciato a bocca asciutta proprio come un nobile cane randagio.
Nella vita ho sempre lavorato come interprete e dell’ascolto ho fatto il mio altare personale al quale sacrificare ogni cosa. I geni di oggi, gli strilloni, come si diceva un tempo, amano fregiarsi di lunghe parole composite, di morfemi audaci e di dialettiche seducenti, ma tutti dimenticano sempre la base. La base è l’ascolto. Ogni volta che traslavo sinossi difficili da una lingua ad un’altra, da un dialetto ad un altro, prima della traduzione, immagazzinavo sempre ogni termine a memoria. Per far questo ovviamente prendevo il mio tempo, mi zittivo ed ascoltavo me stesso e gli altri. Pensate di cosa può essere capace l’ascolto se ben impiegato. Potrebbe distruggere le barriere dell’indifferenza, costruire le basi di un pensiero scalfito ed abbandonato, aprire il vaso di Pandora per far uscire nuovi orizzonti. Amavo l’ascolto. Ascoltavo di tutto, discorsi di pomposi diplomatici, arie d’opera, rumori urbani. Di ogni sonorità facevo tesoro e distillavo il senso che poi impiegavo a mio vantaggio nelle traduzioni, nelle abitudini, insomma nella vita. Oltretutto, con il gentil sesso, tutto ciò aveva anche un effetto vantaggioso ma poi, arrivato al momento topico, mi perdevo sempre in un bicchiere d’acqua. Era tipico di me.
Tutti noi combattiamo contro le nostre fobie più arcane. In fondo le fobie ci rendono umani e non c’è cosa migliore d’essere umani troppo umani. Nietzsche era una delle mie letture preferite lo trovavo lapalissianamente vero. Divieni ciò che sei. Quale marmoreo monito ad eterna memoria di tutti. Fin da bambino io non ho mai avuto dubbi, avrei fatto dell’ascolto il mio campo d’azione. Gli altri compagni di scuola avevano il mito dell’astronauta io dell’uomo dalle grandi orecchie che sedeva nel negozio di dischi dietro l’angolo di casa mia. Le grandi orecchie erano ovviamente delle cuffie d’ascolto ma da bambini, cosa non diventa una avventura travolgente. Si dice che per i pianisti, gli scrittori e per chiunque fa delle mani il suo varco preferito verso il mondo reale, la più grande paura sia ovviamente quella di una malattia invalidante degli arti.
Cari tutti, questa invece è la breve storia delle mie interferenze. Si interferenze. Non si tratta soltanto di onde della televisione, dei trasmettitori della telefonia o della classica galleria inventata per chiudere la chiamata con l’interlocutore. Qui il ricevitore ero io, e purtroppo, da un giorno all’altro, iniziai a ricevere male.
Il decorso di questo strano monologo interiore non autorizzato dal sottoscritto è stato veloce e senza alcuna pietà. Cominciai con il percepire delle strane serie fonetiche all’interno della mia testa che inizialmente imputavo allo stress per aver tradotto ed ascoltato troppe cose. Niente da temere, soltanto qualche voce, chi non sente le voci nella sua testa al giorno d’oggi?
La cosa mi convinse tanto che provai anche a scrivere ciò che sentivo nella mia mente, le terapie fatte in casa sono sempre state un mio vezzo, ad onor del vero spesso erano grandiose castronerie. Scrissi alcuni quadernetti di cose senza alcun senso semantico, lettere in libertà, mi sentivo un futurista. Tuttavia c’era poco da far il baldanzoso letterato d’avanguardia, di li a poco le mie turbe sonore peggiorarono.
Da rare si fecero continue e da confuse voci sovrapposte divennero fischi, interminabili fischi, cosi forti da impedirmi di sentire più alcunché.
Persi la testa, diedi di matto, presi a calci tutto ciò che avevo nel mio studiolo da lavoro e poi persi pure il lavoro. Come la quiete dopo la tempesta, arrivò anche il tempo in cui mi rassegnai del tutto al mio sentire pur non sentendo niente di ciò che di razionale intorno a me avveniva. Il resto del racconto lo ometto ma potete immaginarlo. I pareri medici sentenziarono acufeni. Acufeni dovuti ad una massa non meglio identificata, ed ormai troppo espansa per essere bloccata, che premeva sul mio sistema nervoso. Rifiutai il ricovero e tutto il doloroso calvario al quale ti costringono spesso in situazioni del genere. Rifiutai anche il falso pietismo di qualche parente fattosi vivo soltanto per l’occasione. Volli soltanto rimanere a casa mia fra le mie cose. Mi affibbiarono una badante con la quale ormai dialogavo a gesti o scrivendo su di una lavagnetta da cucina. Avevo quasi fatto l’abitudine a quella sinfonia del non senso che dentro di me era sempre più forte. Avevo quasi sviluppato la paura inversa, quella di svegliarmi un mattino e di non sentir più niente.
Tutto ciò che ci determina, nel bene o nel male, alla fine, ci fa innamorare perdutamente di sé.
Scrissi questa frase la mattina in cui, con mia somma sorpresa, ascoltai quella orribile canzone dalla radio in lontananza.
Le cose che si potevano udire erano come me le ero sempre ricordate, in un attimo di libertà, in un secondo, per me, ora totalmente anormale.
Il mio personale suggerimento per la prosa di questo racconto è di provare a usare l’imperfetto e il passato prossimo anziché il passato remoto e di eliminare qualche aggettivo, usare parole talvolta più semplici. Il passato remoto trovo confini tutto in un tempo definitivamente passato e non più ripresentabile. Il lettore invece vuole potersi immedesimare e quindi c’è secondo me bisogno di un tempo più vicino e pertanto più possibile. Ciao!
Ti ringrazio per il sincero e spassionato parere. Lo reputo costruttivo. Ti dirò che la scelta del passato remoto è una premeditazione curata in quanto la persona che ricorda, e che ci parla della sua vicenda, tratta di avvenimenti ben distanti dal suo vivere nel momento in cui ricorda e riporta alla luce quello che lo riguarda. Per il distacco dalla sua vecchia vita, rovinata dagli eventi di cui narro, mi sembrava appropriato. Concordo sul fatto che un imperfetto più snello, in certi casi ed in certe fabule, potrebbe essere più coinvolgente.
Grazie per aver letto e per avermi detto la tua.
sinceramente la fine di questo racconto mi appare un po’ nebulosa, dal punto in cui l’io si esprime a gesti con la badante. Vale a dire le ultimissime righe. Scusa, ma è un l mio limite. Non mi sento, perciò, di esprimere un giudizio. Sorry.
Cara Giovanna,
Intanto grazie per aver letto il mio racconto. L’ultima parte che ti appare nebulosa non è che la riscoperta, per un breve lasso di tempo, dell’udito da parte del nostro povero protagonista. Le interferenze infatti gli avevano creato un mondo a parte in cui lui ormai si era abituato a vivere, come conferma la discussione con la badante. In un momento di libertà in cui il male lo lascia tornare al “normale” livello d’ascolto, egli però si sente impaurito, spaesato. Spero di averti chiarito un poco le idee.
Felice serata!
grazie per la spiegazione. Ho riletto l’ultima parte e adesso mi fila liscia. Bel racconto originale.
Di nulla, grazie.
…racconto originale…. che rispecchia benissimo il disagio della persona che si trova a convivere, improvvisamente, con una menomazione. Dover rimettersi in gioco, ricominciare a un’altra vita. Il disagio creato dalla malattia ma, nello stesso tempo descrive perfettamente la capacità di adattarsi alla nuova situazione. E poi…la sorpresa di ascoltare quella canzone lontana ma che ormai non faceva parte del suo quotidiano. Spero di aver interpretato bene. Saluti 🙂
Hai interpretato perfettamente Eleonora. La malattia, la condizione di disagio, per quanto possa sembrare triste, in realtà crea un vero e proprio habitat di stenti e difficoltà. Per sua natura l’uomo ha imparato ad adattarsi ed a fare sue anche le condizioni peggiori. Ho voluto far risaltare la capacità, non di tutti in verità, di far scaturire del buono anche da queste avversità. Il paradosso che si genera, che poi è anche la fine del racconto, coincide con l’inadeguatezza nel sentirsi nuovamente vivi, in un ambiente che noi tutti diamo troppo spesso per scontato. Ecco a cosa ha portato l’istinto d’adattamento. Penso sia un effetto collaterale.
Un caro saluto
Riccardo
Racconto interessante e gradevole.
In particolare, mi è piaciuto il riferimento all’importanza del saper ascoltare.
Credo si possa sottolineare che, nel caso a uno scrittore fischino le orecchie, non è detto che stiano parlando di lui o che si tratti dell’ispirazione che gli sta mandando qualche segnale. A volte la realtà è molto più prosaica, purtroppo.
Ciao. E complimenti anche per il bel commento che hai lasciato qui sopra.
Ti ringrazio Gioacchino e complimenti anche a te. Ho già avuto modo di esprimerti qualcosa di più articolato in calce al tuo racconto.
Felice giornata!
“Tutto ciò che ci determina, nel bene o nel male, alla fine, ci fa innamorare perdutamente di sé.”
Questo pensiero è molto vero.
Mi è piaciuto molto anche il fatto che il protagonista ritrovi la sua facoltà di sentire per un attimo (se ho ben capito) con un’orribile canzone.
Grazie per il commento al mio racconto!
Buona serata:)
Penso che l’uomo abbia questa capacità, sono con Darwin fino in fondo sotto questo aspetto.
Grazie a te, Viviana, per il commento.
Felice serata.
Il tuo bel racconto affronta una situazione difficile, quella di sentire delle voci, vissuta davvero da molte persone. Sono “interferenze”, sicuramente, ma solo nei racconti. Con le tue parole sei riuscito ad aprire un finestra per cambiare poeticamente l’aria in un mondo spesso chiuso e difficilmente vivibile.
Cara Silvia, era proprio questa la mia intenzione: riuscire ad aprire uno squarcio all’interno dell’indifferente, del misterioso, emarginante, mondo della malattia.
Di più, ho cercato di far questo inserendo le virtù della forza e della tempra cui uno stato deficitario può condurci.
La trama narrativa si articola poi ricercando un realismo quasi cinico, di chi è talmente abituato al mondo della malattia da considerare tutto il resto soltanto una dimensione estranea.
Quanto aveva ragione Nietzsche: “Quello che non mi uccide mi rende più forte”, spesso lo dimentichiamo.