Premio Racconti nella Rete 2013 “Senza futuro” di Martina Fabbri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013La incontrava ogni giorno, da tempo. Ed era bella.
Ma non di quella bellezza ostentata, messa in risalto come un triste espediente per piacere ai più, sostenuta. Lei possedeva quella bellezza inconsapevole, donata e non cercata.
Aveva un collo sottile e chiaro, che si stagliava deciso al di sopra della schiena, a raggiungere il contrasto del caschetto scuro, disordinato. E un camminare leggero, ogni passo posato appena a sfiorare il triste marciapiede buio, attraversando veloce la luce dei lampioni, che a sua volta giungendo dall’alto la percorreva, rendendola trasparente, fatta solo di pensieri. I suoi.
Agli occhi di lui incarnava la perfezione immateriale della morte.
Erano mesi che la incontrava. Il più delle volte lei non se ne accorgeva nemmeno.
Passava distratta fissando il marciapiede grigio che le correva incontro, come un proiettile che nel svolgere il suo ingrato compito non ha tempo per guardarsi attorno né per distrarsi, ma punta dritto verso il suo bersaglio. Colpendolo. Affondandovi.
In quei momenti lui la odiava.
Più raramente, quando non aveva fretta, si lasciava distrarre dalle vetrine camminando piano, attraversando la strada. Accadeva anche che i suoi occhi si soffermassero per un veloce istante su di lui, fermo sempre nello stesso punto ad aspettare l’ultimo autobus notturno. Qualche volta gli aveva sorriso.
Si chiedeva se quella creatura assorta fosse incuriosita, se si domandasse il perché della sua presenza, ogni sera, nel medesimo punto, in attesa del medesimo autobus, con la medesima faccia stanca.
Probabilmente no. Odio, lui.
Ma sapeva dove fosse diretta. Esattamente. Non avrebbe potuto restare all’oscuro. Si era informato: l’aveva cercata. Si recava ogni giorno, molte ore prima del loro incontro serale, in un caffè non lontano da quella fermata dell’autobus, a piedi. Si ravviava i lucenti capelli scuri e si posizionava dietro il bancone. Aveva un sorriso diverso per ogni diverso cliente, una parola gentile per chiunque, un’accortezza privata.
E sembrava che tutti l’adorassero. Ma come avrebbero potuto non farlo? Come potevano non desiderarla?
Più volte lui si era avvicinato al caffè, con l’intento di spingere semplicemente la porta, accomodarsi ad un tavolo e, quando lei fosse giunta per l’ordinazione, approfittarne per scambiarci qualche frase superficiale. Magari ricevere uno dei suoi sorrisi speciali. Ma ogni volta ci ripensava: non aveva intenzione di accontentarsi di una banale conversazione di circostanza, di poche parole vuote, lui aspirava a conoscerla. Esigeva di possedere ogni centimetro del suo io.
Non voleva un solo sorriso, ne voleva infiniti. Li voleva tutti. Solo per sé.
Ed ogni volta tornava, non notato, ad aspettarla al chiarore alogeno della via.
Pensava molto, lì nel suo angolo buio.
Dentro le sue vene l’eccitazione dell’attesa e l’irritazione per il ritardo di lei si dibattevano in uno scontro rabbioso, avvinghiandosi e respingendosi in una macabra danza di pensieri densi. Oscuri.
Gli era impossibile disporli ordinatamente, domarli. Come onde di un mare nero che si infrangono selvagge sulle coste di una città fiocamente illuminata, la sua volontà, questi pensieri lo confondevano e lo stordivano. Da questo uragano implacabile lui riusciva a distinguere solo parole isolate. Ed ognuna di esse permetteva di dare vita ad un’unica utopia: averla unicamente per sé.
Un’unica sensazione lievemente tranquillizzante gli scaturiva dal timido conforto di incontrarla sempre sola: mai un’amica, un conoscente, una persona a condividere il suo geometrico tragitto; aveva maturato la convinzione che fosse un’anima solitaria. Come lui. Una creatura abbandonata a se stessa, in balia di un mondo votato a riscuotere gli interessi prima di aver elargito il prestito. Una convinzione, appunto.
Era una nottata buia, la luna un flebile accenno tra le nubi. Lei passò davanti a quell’angolo, vestita di scuro, come a volersi mimetizzare con il cielo attorno a loro. Elegante.
Lo superò velocemente, abbandonando la luce, lasciandosi dietro il suono ordinato dei tacchi ed un sentore delicato di profumo. Donandosi spontaneamente all’oscurità.
La seguì. Senza un motivo.
Lei non affrettò il passo, non si guardò indietro, si avventurò tra le stradine cupe della città addormentata con le mani affondate nelle tasche del cappotto per non permettere al freddo di sottometterla. Non se ne era accorta. E non lo avrebbe fatto mai.
Dietro: lui. Camminava, contemplandola, faticando a mantenersi distante, a non farla accorgere della sua presenza: attratto da una forza invisibile, ma potente, che partiva da lei e gli affondava decisa nel petto, e tentava di trascinarlo avanti, con forza. Presto sarebbe arrivato così vicino da poterla toccare. Tra un momento.
Lei si girò di scatto alla pressione della mano decisa che le afferrava il braccio. Inizialmente sorpresa gli conficcò gli occhi dritti nei suoi, gli lesse fino al punto più remoto della sua anima. E si spaventò.
Lui rischiò di rimanere spiazzato del terrore che le lesse in volto. Una straziante angoscia lo invase: per un istante sentì le forze che lo abbandonavano ed ogni muscolo contrarsi a negare ciò che aveva ormai deciso di compiere. Era così bella. Troppo.
Con poca decisione, la colpì. La mano sinistra, aperta, sul suo zigomo destro. Era mancino. Lei vacillò.
La colpì nuovamente, più forte, provocando un rumore sordo. Il labbro le si spaccò. La mano di lei, dalle unghie laccate di blu, arrivò a graffiargli il collo; non gli provocò nessun dolore ma frenesia.
La scaraventò malamente sul marciapiede grigio e reso umido dall’avanzare della notte. Lei si lasciò scappare un grido strozzato; nella stradina buia nessuno passava. Né sarebbe passato mai, non quella notte.
Il suono velato prodotto dalla sua bocca, impregnata di sangue, unito al sordo rumore prodotto dalla caduta, suscitarono in lui un moto sfuggente di dolcezza. E di amore. Lei era finalmente sua, solo sua, in balia del suo volere, schiava.
La ragazza piangeva sommessamente, facendo forza sulle braccia, tentando di rialzarsi. La colpì al ventre, a gamba tesa. Forte. Lei non riuscì ad emettere alcun suono questa volta. Ed il silenzio obbligato che aveva provocato si fece largo in lui arrampicandoglisi sulle gambe, così vicine al corpo di lei, salendo sempre più in alto, fino alla vita, al petto, alle braccia. Dai graffi sul collo, trovata una breccia, si insinuò dentro di lui andando a mischiarsi al sangue pulsante nelle sue vene, eccitato, che correva veloce fino a giungere ai polmoni, dove il silenzio colmava ogni vuoto lasciato dalla banale aria che aveva fin ad allora respirato. Riempiendo ogni cavità dei suoi desideri più remoti e oscuri.
Continuò ad inferocirsi, col furore di un fiume vorticante per la tempesta, piegandosi su di lei che diventava ogni istante più impotente, più fragile, più conquistata. E dopo ognuno dei colpi che
giungevano a segno lui si sentiva più vicino all’onnipotenza. Più padrone. Si sentiva appagato come non si era mai sentito in vita sua.
Improvvisamente: svuotato. Solo.
Nella notte nessuno era accorso e lei giaceva, stremata dai pugni e dai calci, privata della sua eleganza e della sua purezza, tra i vestiti strappati, perduta nell’oscurità. Solo il rosso cercava ancora di affiorare alle sue labbra, cedendo spazio ad un amaranto incalzante, rappreso.
E lui, debole, era ora soffocato dal suo impeto, che aveva fino ad allora dominato. Il silenzio lo frastornava.
Si guardò attorno: aveva realizzato di essere passato da predatore feroce a preda. Presto sarebbe stato braccato.
Lei rimase lì, immobile. Senza futuro.
“In quei momenti lui la odiava”. Da questa frase si intuisce presto l’evoluzione drammatica di questo racconto.
Però il lettore rimane attanagliato al tuo brano perché riesci a descrivere con la stessa incisività sia la sequenza degli avvenimenti che la psiche malata del protagonista maschile.
Notevole il tuo stile narrativo. Molto brava.
Concordo con Sig. Gioacchino!
…argomento, purtroppo, attuale. Fin dalle prime righe mi si sono rizzati i capelli presagendo la tragica fine. Ritmo serrato fino al triste epilogo. Complimenti Martina…mi è piaciuto molto!!
Difficile descrivere un atto così efferato mettendosi nella mente di chi lo commette, eppure ci sei riuscita in maniera egregia, un racconto scritto molto molto bene, mi è piaciuto tantissimo!!
Ritmo incalzante. Storia tragica raccontata in modo essenziale. Complimenti!
Uno sprazzo dettagliato della psiche di un moderno serial killer. Ben fatto davvero.
Racconto dallo stile notevole, che tiene il lettore avvinto fino alla fine, non tanto per sapere come va a finire- poiché lo si intuisce dall’ossessione delle prime righe-, bensì per il piacere dello stile stesso. Veramente brava.
Propongo, con lo strumento di Decreto a mia firma da affiggersi ai muri, di abolire nei commenti le seguenti espressioni: “veramente brava/o”, “brava/o”, “piaciuto molto”, “avvincente”, “buon lavoro”. Bisogna tirare fuori gli attributi anche nei commenti, non solo nella scrittura. Chi si ostina avrà sfortuna, economica e letteraria. 🙂 CEMF
corna, bicorna,aglio, frattaglie, fattura ca nun quaglie!!
Molto bello!!
Martina,
Toccante.
Ti cresce dentro come un’onda, un culmine che ti si rovescia addosso sul finale.
Chissà perché, mi hai richiamato alla mente la tragedia della giovane Yara, come se stessi parlando di lei, e della sua aggressione.
Del suo assassino.
Della maniera in cui al criminale è cresciuta dentro l’ossessione per una giovane donna bella, la sua convinzione di doverla possedere.
Non si accontentava di conoscerla. Perché loro non si accontentano: vogliono possederti, possedere tutte le tue frasi, chissenefrega delle frasi di circostanza, di poche parole vuote. Loro aspirano, esigono di possedere ogni centimetro del tuo io.
Non un solo sorriso, come dici tu: ne vogliono infiniti. Li vogliono tutti, tutti per sé.
Pensano molto, nel loro angolo buio. Maturano convinzioni – che la preda sia un’anima affine, una creatura abbandonata a se stessa, in balia di un mondo che non la apprezza come dovrebbe. Convinzioni, appunto. Senza alcun fondamento.
Hai colto davvero nel segno, Martina.
Gli uomini di oggi sono in crisi – crisi da prestazione, se vogliamo. Le violenze sono spesso conseguenza di un disagio profondo.
Alla fine, per analizzare la violenza sulle donne credo si dovrebbe sollevare una ‘questione maschile’, interrogarci sui veri motivi per cui certi uomini faticano a porre limiti e paletti ai propri comportamenti magari domandandoci quale sia il ruolo giocato dalla famiglia, in questo disagio.
Grande tema, Martina, per un racconto straordinariamente attuale, scritto in maniera ineccepibile.
Complimenti.
Ti abbraccio,
Nikki