Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Quella campagna, al mio paese” di Giovanni Occhipinti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Io andavo sempre al vespro o di prima mattina in quella campagna, con Bastardino, un trovatello che batteva i miei stessi luoghi e uno spavaldo soriano che amava la sua compagnia. Vi nascondevo un deposito di armi: spade di legno e fionde che con gli amici dissotterravo a periodi per un controllo sulla loro efficienza, di solito alla vigilia di ogni scontro con una “banda” di coetanei che bazzicava l’ampia campagna di carrubi.

Mi appollaiavo tra i rami di un carrubo a studiare il punto più opportuno per collocare trappole per gli uccelli o valutare da quale ramo sganciare sul “nemico” fazzolettoni di terra e polvere così da disorientarlo, avvolgendolo in momentanee nubi fumogene. Le piccole strategie belliche le pianificavo sempre dall’alto del mio carrubo. Episodi di Cuore o de I ragazzi della via Pal le avevamo nel DNA, noi piccoli attori scapestrati di campagna. E quando sul nostro calendario non erano segnate le scaramucce contro i nostri avversari scatenavamo la caccia alle gazze e alle lucertole o sconfinavamo in un frutteto lì vicino, scavalcando uno a uno il muro di cinta, con già l’acquolina in bocca per le mature albicocche che da lì a poco avremmo gustato, vermetti a parte. Rubavamo il tempo ai libri, noi, neanche ancora Figli della Lupa, e ci sperdevamo tra i solchi e i viottoli di quella campagna che finiva, dalla parte del mare, in un’area coltivata a frumento. Ricordo un giugno di particolari emozioni, quando giungevano nella mia Santa Croce e si accampavano in prossimità dell’aia della campagna, le spigolatrici modicane. Qualcuno si spingeva con muli e asini, tirandosi dietro ritrose caprette per il latte ai piccoli, che frignavano sgambettando tra accampamenti di carri con le aste puntate al cielo, e poi la sera, tra nugoli di lucciole, venivano accucciati in coffe panciute e intrecciate con corde e spago. Oscillavano con dolcezza insieme ai lumi a petrolio e sembravano intonare mute ninne nanne.

Le guardavamo le belle, tonde e maliziose, spigolatrici, forti e sanguigne (si scambiavano tra loro gesti osceni e parole con cui pregustavano il piacere del sesso, la notte, sull’aia), nascoste nelle pesanti gonne e nei corpetti che a malapena contenevano i seni debordanti, da balie. Accorrevamo per sbirciare le loro gambe celate da spesse calze di lana strette, a metà coscia, da legacci e aspettavamo, eccitati, che si chinassero a mostrarle. Ahimè, si incurvavano quel tanto che bastasse a raggiungere con la falce le spighe! Sembravano le spigolatrici ricurve di Millet, specie se spigolavano grano recuperando per sé il poco rimasto. Un fascino arcadico emanava dalla loro condizione idilliaca, tanto da ricordare la solennità del raccoglimento dell’Angelus. Lo stesso fascino, più tardi, riproponeva Van Gogh nelle sue tele.

Un giorno, dal mio nascondiglio segreto tra le fronde del carrubo, scrutavo attraverso spiragli di luce, tra foglie e foglie dei rami, lo spazio di campagna dominata a distanza dalla sagoma chiara di casa mia, quando fui distratto dal rombo di una Guzzi con side-car. Ne scesero un giovane e un anziano e subito si diedero a fare dei rilievi: misurarono segnarono transennarono un’ampia area della campagna. Mi chiedevo cosa volesse dire quel trafficare sotto i carrubi, mentre parlavano di raduni imminenti e di un sabato. Compresi qualche tempo più tardi. Una valanga di gente in divisa con gagliardetti e moschetti venne a riversarsi nell’area, nel frattempo spianata e battuta, della campagna e lì a marciare correre gridare saltare; giurare promettere minacciare sparare. In aria, e il botto spaventava gli uccelli, e Bastardino e il soriano, che saltavano e s’inseguivano, l’uno guaendo e l’altro emettendo isterici miagolii. Mi piacevano gli stivali tirati a lucido dei gerarchetti locali con monocolo e frustino e le scarpine di vernice nera spezzata dal candore delle ghette; e gli ordini ragliati ai megafoni. Quel bailamme era il “Sabato fascista”.

Vennero poi mezzi pesanti a sbancare un’altra area della campagna e perforarla a più riprese, costellandola di buche profonde che i mastri riempivano con pietre e cemento. Ne venne fuori un fungo che chiamarono fortino. Aveva feritoie che ostentavano nere canne di mitraglia. In seguito altri funghi sbucarono dalla terra con mostruosi occhi di drago sbarrati sulla campagna. Anche l’aria minacciavano con le canne nere di mitraglia. Andai sempre meno in quella campagna ormai orfana di tanti suoi carrubi abbattuti per dare spazio ai mostri di cemento: – È cemento armato, indistruttibile! – esclamò un tecnico panciuto e compiaciuto. Sì, andai sempre meno in quella campagna, ma sempre più ne desiderai gli odori, i colori, i silenzi e i rumori. Anche il cielo tra gli spiragli di luce delle foglie sembrava più bello e più lontano nel suo azzurro puro, ma i tramonti sul mare di Capo Scalambri finii per non ammirarli più. Oh, i rossi tramonti, quando il sole si lasciava inghiottire dal mare e infuocava il cielo orlando le nubi di delicati merletti d’oro!.

 

Non mi resi subito conto che non erano tuoni quelli che scuotevano il letto turbando il mio sonno…Un cannone – una notizia appena bisbigliata – sparava verso Capo Scalambri, oltre una cortina fumogena che celava lo sbarco dei mezzi alleati.

Ed ebbi anch’io cioccolatini e gallette e chewing gum caduti a pioggia da fragorosi mezzi corazzati, okay? Fu trovato un soldato nella mia campagna, disteso in un solco d’aratro -fagotto di carne putrescente. Digrignava i denti e sbarrava gli occhi al cielo. Intorno, randagi e gazze e rapaci. Altri penzolavano sospesi ai rami di alti carrubi -manichini deformi sbatacchiati da un vento irreale sotto l’ombrello del paracadute.

Io ormai combattevo la mia guerra personale e scimmiottando gli adulti accendevo micce: mi avvinceva la corsa di una fiammella lungo il filo di polvere e la fumata finale.

   

Non mi sembrava vero: ero riuscito a voltare le spalle alle nevrosi metropolitane. Tra non molto avrei rivisto la mia Santa Croce e la mia campagna, ove mi recavo al vespro o di prima mattina con Bastardino e il mio spavaldo soriano. Dell’antica campagna, ora, cercavo di ricordare i particolari, certi angolini seminascosti da pietre e erbacce, i solchi profondi dell’aratro, i muri a secco qua e là sbrecciati e il luogo in cui depositavo le “armi” della banda insieme a trappole per uccelli e forcelle d’ulivo per le fionde.

Dall’oblò posso abbracciare con lo sguardo Catania e il suo mare e il paesaggio etneo sormontato da un troneggiante Mongibello. Sulle strade un serpente mostruoso di auto si snoda in direzione della città.

La sensazione di essere finalmente giunto nella mia terra, insieme alla gioia di tornare a vivere, m’infonde la forza di un’euforia che lì per lì modifica un poco lamia tendenza al pessimismo e il senso di pochezza e di stordimento che la vita della grande città aveva sviluppato in me.

Anche ora è vespro, come tanti anni addietro ,quando andavo in quella campagna con Bastardino e il mio spavaldo soriano. Ora, mentre invano con gli occhi cerco un segno, almeno uno, di quella campagna. Cosa ne sanno -rifletto- questi bambini che si sfrenano sotto i miei occhi, liberi dai limiti del condominio. Si riversano nella nuova piazza, ampia, come lo era stato la mia campagna. La mia campagna, affogata nel cemento di un grigio agglomerato urbano. Scorgo solo lembi di cielo. Sembra un altro cielo, questo. Un cielo che non mi appartiene, anche se lascia cadere ancora una piccola luce su un grande presepio, tra palazzi insolenti che si levano dal grigio anonimo, omologato del cemento.

Inutilmente ricerco il bambino di un tempo, anche se posso giurare, su questo Natale, in un dialogo muto tra quel bambino e quella campagna, ove al vespro o di prima mattina io andavo con Bastardino e il mio spavaldo soriano.

 

 

 

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1 commento »

  1. Un racconto lucido come un film neorealista. Il lettore viene preso per mano e percorre con il protagonista, senza affanni e con grande leggerezza, gli anni più difficili della nostra storia, nel secolo scorso. Il bambino resta ed è ancora presente, malgrado tutto, è solo troppo provato dalle vicende della vita, ma ha ancora voglia di guardare lontano. Questa è la mia impressione.
    Mi è piaciuto molto anche perché è un racconto “originalmente” italiano.
    Complimenti ed in bocca al lupo.
    Alessandro Colosimo (ZENONE)

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