Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Il prete” di Giuliana Moro

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Entro nella chiesa. E’ piccola, umida e subito un senso di freddo mi penetra nelle ossa.

Ha un’unica vetrata policroma sopra il pesante portone di legno che la divide dalla strada.

Il grigio del cielo lascia filtrare lentamente attraverso il blu, il rosso e il giallo ocra del rosone una luce senza sole.

Odore di chiuso, un misto di muffa, di fiori un po’ passati, di vecchio incenso, di stoffe desuete all’aria, di antiche preghiere.

Sembra completamente buia ma poi, a poco a poco, ne indovino la forma, ne dipingo i colori.

Due candele con le fiammelle tremule e sottili disegnano un’ombra chiara nell’oscurità dell’altare a destra del maggiore così che si può intravedere la pala con una Madonna dallo sguardo materno e dolce con in braccio il bambino morbido e nudo.

Le figure mi osservano severe e solenni dalle grandi tele: scene di santi e di sacra famiglia.

Hanno a loro volta sostenuto tanti sguardi, a volte ammirati, tante volte distratti, tante volte persi dietro altri pensieri. Sono sopravissute a tutti quegli incontri, a tutte le emozioni.

Le cose ti sopravvivono.

Mi piacerebbe che potessero parlare, raccontare della varia umanità che hanno visto in quel luogo, delle gioie espresse, di quelle nascoste e non manifestate per paura di non scoprirle tali e del dolore, quello gridato e bestemmiato e quello muto.

Qualcuno è entrato  qui per una visita frettolosa. Qualcuno si è per più tempo fermato per ritrovare il senso delle cose, per ritrovarsi. Si è lasciato andare a raccontare a quel Dio in croce pensieri cui non aveva mai dato voce. Si è sorpreso a sentire il desiderio di anima, la stretta allo stomaco per una antica vergogna, a pensare parole di scusa giù dal fondo del cuore e risalire fino alla labbra e poi starsene mute, come si deve in luogo sacro.

La vita mette sulla tua strada scelte che non avresti voluto fare e ferite che non vorresti avere dato.

Il prete è entrato con un lieve fruscio; un movimento leggero come della fiamma di una candela che barcolla e respira forte ad una folata di vento improvviso e poi si riprende e torna a consumare lenta la sua cera.

Alto, scuro come la sua chiesa. La tonaca coi tanti bottoni neri e lucidi, uno dietro l’altro, in fila ordinata, lunga a sfiorare il pavimento in cotto, a pietre rettangolari, d’un rosso mattone e qua e là grosse macchie marroni, forse l’umidità o solo il segno del tempo.

Si inginocchia sul primo banco, alla mia destra, così lo posso guardare.

Di una sessantina d’anni, il viso largo e pacioso. Grigi i pochi capelli, pettinati con cura.

La veste s’allarga sulla pancia, così che la fila dei bottoni si innalza con un balzo quasi improvviso, percorre la rotondità fino a scivolare giù abbandonandosi alla forza di gravità.

Mi ricorda il vecchio prete del mio paese con il suo incedere dondolante sul sagrato e il viso bonario ed il sopraciglio alzato a ricordare il rispetto che si deve ad un uomo di chiesa che accompagna tutta la tua vita, da quando nasci a quando, il corpo già composto, spiega a chi ti sopravvive che nessuno muore davvero se i tuoi pensieri lo ricordano.

Lo sento bisbigliare qualcosa che somiglia ad una preghiera imparata da tempo a memoria e usa a giornaliere frequentazioni, la voce bassa e roca rivolta all’altare.

Solo noi in chiesa e le due candele con le fiammelle e la luce grigia dalla vetrata.

Si volta lentamente verso di me e mi chiede se mi voglio confessare. Lo ringrazio ma gli rispondo di no.

Un lungo sospiro e poi mi chiede se lo può fare lui.

“Anche i preti hanno bisogno di confessarsi, lo sa?”

“Mia madre è morta stanotte. Aveva quasi 92 anni, una bella età”.

Forse gli dissi “Mi dispiace”.

La voce lenta, calda e precisa, nel silenzio di cui, mi ricordai, da tanto non sentivo così forte il respiro.

“Eravamo in tanti figli, il lavoro nei campi, la terra greve e avara di frutti.

Andai via da casa che avevo 8 anni.

Potevo mangiare tutti i giorni, potevo anche giocare con i coetanei, potevo anche ridere.

Qualche volta potevo anche ricordare mia madre meno stanca, mio padre meno arrabbiato, i miei fratelli meno poveri perchè, da lontano, il ricordo lo puoi anche addomesticare.

Quanto ritornavo pensavo che era stata una buona cosa l’esserne andato via.

La loro esistenza mi sembrava uguale a sempre, opaca e triste ed il futuro sembrava già essere passato di là dimenticando di fermarsi.

Ci andavo poco, a casa, e ne ero contento.

Il senso di colpa per questo sollievo mi ha accompagnato dopo, per anni, lungo la vita.

I miei genitori sono venuti un’unica volta a farmi visita, quando ho preso i voti.

Avevano l’espressione ed i modi di chi si sente fuori posto e la fretta di tornarsene da dove è venuto.

Ci eravamo visti l’ultimo Natale, mia madre già aspettando timorosa il grande viaggio, e io solo allora mi ero accorto che di tempo ne era passato da quando eravamo cuccioli come i vitelli nella stalla e gli agnelli del gregge.

Tante cose erano cambiate.

I fratelli erano diventati uomini consapevoli e duri. La vita aveva preteso tanto da loro ed ora le stavano chiedendo di pagare il conto.

Per tanto tempo ero stato sicuro che la strada che avevo scelto era stata quella giusta; più uomo, quando le ombre ed i timori mi rubavano il sonno, ho soffocato i dubbi, smorzato i desideri, evitato di farmi domande.

E’ stata mia madre, prima di morire che mi ha detto che per tutta la vita ha avuto il rimorso di avermi permesso di andare via, di non avermi lasciato là a soffrire con loro. Perchè loro erano una famiglia che ha masticato fatica e dolore, ma anche ruvido affetto e condivisione e amore pur senza abbandoni. “Perchè io ti ho sentito solo. Quello che mi scrivevi era intriso di solitudine”, mi ha detto.

Non ci avevo mai voluto pensare.

Avevo vissuto in mezzo a tanta gente. Avevo insegnato il catechismo ai bambini e poi anche ai figli di quei figli. Li avevo visti crescere e andarsene.

Me ne ero andato anch’io “ramingo per le chiese e nessuna è casa tua”, come disse mia madre.

Altri bambini, altri uomini, altre gioie e altro dolore.

Tutta la vita a mediare il dolore degli altri. E il mio?”

Rimane in silenzio per un po’ e a me vengono in mente i quadri di Nino Caffè con i pretini che giocano a pallone oppure che camminano sotto la pioggia con grandi ombrelli neri, come la veste ed il cappello a larghe tese.

Perchè il suo viso è disteso, nessuna smorfia, nessun disappunto, nessun risentimento.

Gli occhi sorridono a parlare della madre, a parlare dei ragazzi che aveva cresciuto insegnando il perdono, la tolleranza, la comprensione.

“E’ venuto a salutarmi quello che allora era un ragazzo impaurito e vulnerabile con una famiglia disgraziata e lacerata. Un ragazzo senza speranze, senza futuro Era la promessa di uomo senza regole da rispettare. E’ venuto a dirmi che sono stato un buon maestro e un buon amico”.

La voce del prete è ora morbida mentre accarezza le parole che sta dicendo, piano per non sciuparle, per assaporarle fino in fondo, perchè questa era stata la sua vita.

“Lo sa signora, a volte basta un prete, quando non c’è nessun altro intorno, un prete diventa tutto quello che hai”.

“Allora dicevo a quel ragazzo che ogni uomo è unico e insostituibile e prezioso.

Ora, diventato uomo, ho sentito che ha fiducia in sè stesso, nella ricchezza che ha, che ogni uomo ha.

Si è innamorato, ha una bella famiglia e sa che c’è chi lo ama e lo aspetta e non c’è maggior privilegio, non c’è miglior cosa in questo mondo, del sapere che c’è qualcuno per cui sei l’unico ed il solo, qualcuno che ti aspetta a casa e con te ha scelto di percorrere la strada della vita.”

Mi guarda e vedo il sorriso sulla faccia rotonda e dentro agli occhi, neri e profondi, come la chiesa e le tele e la sua tonaca e la giornata che sta cedendo ad una sera anch’essa scura e senza stelle.

Mi saluta ringraziandomi per averlo ascoltato, perchè anche i preti hanno bisogno di confessarsi, lo sa, signora?.

Quando esco c’è una bella luce che, obliqua, illumina una striscia di cielo.

A volte basta un prete, solo un prete.

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8 commenti »

  1. Bel racconto: molto riuscito, nel descrivere molto bene l’ambiente e il protagonista, che manifesta il bisogno e il piacere di raccontarsi e raccontare un po’ la propria vita. Veramente una piacevole lettura. Brava!

  2. Racconto ben scritto, denso di immagini poetiche che rivelano l’amore per l’arte. Mi è piaciuta molto l’immagine delle tele che hanno sostenuto tanti sguardi. Una storia di un prete e della sua chiesa, narrata con tocco leggero .

  3. Grazie di cuore. Poter condividere le emozioni è un gran regalo.

  4. Mi sono iscritto a questo sito con il desiderio di imbattermi in belle, originali storie. Questa, è una di quelle.

  5. Un racconto che descrive bene il bisogno di un prete di essere per una volta lui il confessato dinnanzi ad una fedele nelle vesti di confessore. Risulta la figura di un prete a cui dispiace essersi allontanato dalla propria famiglia, un prete fiero di aver dato buoni consigli a tanti fedeli. Fa meditare il fatto che egli non consideri la propria vocazione come il maggior priviliegio che la vita può concedere ad un uomo. Un prete onesto che ammette con disincanto le proprie debolezze.

  6. Bella è la descrizione degli ambienti, delle luci e delle ombre della chiesa, come è intenso il primo piano sul prete il cui animo è intristito dal senso di colpa. Ci dai Giuliana l’umanità di questo prete e la sua consapevolezza di fare comunque il bene.
    Bravissima
    Emanuele.

  7. Complimenti Giuliana! È l’unico tuo racconto che non avevo letto e commentato e ho fatto male…ha vinto e con merito! Come negli altri tuoi scritti vedo la tua ottima capacità di scrivere e la dolcezza delle tue parole che disegnano l’ambiente. Poesia! Complimenti.
    Silvia

  8. Un quadro ed una poesia. Di fronte a queste due cose mi sono sentita leggendo questo racconto!
    P.S.: “il futuro sembrava già essere passato di là dimenticando di fermarsi”… frase semplicemente perfetta! Complimenti per questa e per tutte le altre!

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