Racconti nella Rete 2009 “L’ultima pagina di un diario senza nome” di Davide Corvaglia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 200923 maggio 2005
Sono giunto alla fine. Ho ancora poco tempo, prima di salutare questo mondo, e credo di aver pagato per il mio comportamento. Tremo, ma ancora non smetto di scrivere. È come una droga, ma devo pur condividere con qualcuno la mia esperienza.
Forse non sto perdendo la ragione, diario, ma sono sicuro di aver toccato il fondo quando ho pensato di sceglierti anche un nome.
Sì, proprio questo sei diventato. Un diario. Da una serie di pagine a righe con una data in alto, che scandivano le mie giornate tra riunioni, incontri e congressi, ti ho obbligato a raccogliere i miei pensieri, senza giudicare. Ora, ti prego di ascoltare come la mia anima ha trovato la pace.
La tempesta di neve di ieri, che tu non hai visto, nascosto al sicuro nella tasca interna della giacca, è stata spaventosa. Ho perso la sacca con le provviste che ho recuperato nella stiva dell’aereo e che forse apparteneva all’enorme esploratore tedesco seduto tre file davanti a me. Ho dovuto lasciarla cadere nel crepaccio per non esserne inghiottito, poi sono svenuto per lo sforzo.
Con essa, ho abbandonato anche l’ultima scorta di carne secca. Finirò col morire di fame. Arriverò al cospetto di Dio da solo, ma avrò un vantaggio: credo di averlo già visto. E penso mi abbia già giudicato.
È accaduto dopo aver ripreso i sensi. Mi sono svegliato nella neve, con il corpo completamente sommerso, tranne la testa. Avvertivo la pelle del viso bruciare per il troppo freddo. Ho urlato mentre cercavo di uscire, e ho udito la mia voce propagarsi sulla piana per poi tornare indietro più volte.
In quel momento, senza sapere perché, la mente è tornata al passato, alla mia adolescenza. Ho ripensato alla scuola, al liceo. Poi ho compreso il motivo, semplice e chiaro: avevo avuto un dejà vu e non era stato casuale. Avevo già visto quella scena, immaginandola durante una lezione di letteratura, e ho capito che tutto, dall’incidente aereo al vagare in mezzo alla neve per un mese intero senza trovare nulla di diverso che montagne bianche e fiumi gelati, era accaduto per uno scopo ben preciso: dovevo pagare per il mio tradimento.
Proprio come i peccatori che Dante incontra nella Caina, io ero immerso in “un lago che per gelo/avea di vetro e non d’acqua sembiante” ed è stato allora che ho compreso tutto.
Dal momento in cui l’aereo ha toccato il suolo di questo paese desolato, ho iniziato a pagare per una vita passata a tradire per rincorrere denaro e successo. Cose futili che mi hanno portato ad ingannare la mia famiglia nel peggiore dei modi, a rinnegare il loro amore e la loro fiducia e ad abbandonare il mio paese e le mie origini.
Immerso nella neve come quei dannati ho realizzato che questa sarebbe stata la mia Caina, il girone che merito, e ho pianto per la prima volta da che sono un uomo.
Geograficamente non so dove ci troviamo. Sono quasi sicuro di essere in Alaska, giacché nel suo ultimo annuncio il comandante aveva detto che mancavano un paio d’ore a Vancouver.
In verità, non mi interessa affatto. Potremmo trovarci ovunque, ma non cambierebbe nulla. Mi spiace soltanto di andare incontro al mio destino da solo, ma una cosa mi inquieta ancora di più: che cosa mi attende dopo la morte, se già sto scontando una pena?
Io lo so, ma te lo dirò tra un attimo. Prima voglio parlarti della mia confessione alla luna. Sì, proprio a lei, non prendermi per il culo per questo. Non puoi!
A te non riesco a raccontare tutto, mi vergogno di scrivere alcune cose, ma ieri sera, dopo aver scolato l’ultimo sorso di rhum, ho sentito la lingua sciogliersi. Qualche sorso, in bocca ad un astemio, può fare miracoli. Ho iniziato a parlare, ma non da solo. Parlavo alla luna, che intanto mi sorrideva e mi ascoltava come fosse una vecchia e cara amica, e non avevo più i brividi. Riuscivo quasi a percepire il calore del rhum irradiarsi nello stomaco e risalire fino alle gote, e ho raccontato tutto. Ho descritto il mio tradimento nei minimi particolari e mi sono liberato di un peso.
Ti ho già detto di aver visto Dio in quel momento?
No, non sai neanche questo.
Il cielo aveva iniziato a mascherare le sue stelle, mediante vapori che danzavano come fumo di sigaretta o esalazioni di ogni mio respiro. Poi dall’alto, meravigliosi archi sottili di luce dal colore indefinito hanno cominciato a scendere verso il suolo. Erano azzurri, o forse verdi. Non riuscivo a distinguere dove finisse una tonalità e iniziasse l’altra. Ho sempre saputo chiamarle “aurore boreali”, ma ieri sera non ci riuscivo. Per me era Dio che stava usando una delle sue creazioni per venire a parlarmi. Credo di aver visto il suo sguardo severo in mezzo alle striature che ondeggiavano come tende leggere mosse dal vento. Non sono riuscito a guardarlo negli occhi, e ho abbassato i miei.
Rialzandoli, l’ho visto mentre svaniva e ho pianto di nuovo, per la seconda volta.
Mi chiedo: c’era davvero bisogno di cadere con un aereo in questa terra desolata, a migliaia di chilometri di distanza dai miei cari ed essere l’unico superstite, per accorgermi di aver bisogno di incontrare Dio? Forse sì.
Ho usato una delle tue pagine libere per fare un paio di disegni. Il posto qui, tutto sommato, è stupendo. Credo che ogni essere umano dovesse vedere queste meraviglie ogni giorno. Proprio ora un’aquila mi vola sulla testa. Fa un cerchio, poi torna alla sua montagna.
Aquila, hai trovato prede qua attorno? Le hai trovate mentre guizzavano tra la neve o sei riuscita a scorgere una radura verde popolata? Io non l’ho vista, se passi di nuovo, ti prego di indicarmela.
Mi sento debole, molto debole. Ho perso anche l’ultima scorta di carne secca. Ho urlato, al nulla, e non ho avuto risposta. La montagna ha rimandato la mia voce indietro, solenne. Ha rifiutato anch’essa la mia voce da traditore. Stai lì, mi ha detto. Soffri e pensa.
Non riesco a dormire. A dormire veramente per riposare. Fra poco, lo so, dormirò per sempre, ma una cosa mi tiene sveglio: la paura di quello che ci sarà dopo la morte, anche se ho già un’idea.
La montagna dell’aquila mi appare più spaventosa, adesso che la sua maestosità si cela tra la foschia. Mi è venuta in mente un’altra immagine e un altro personaggio, Ulisse, che tra le fiamme dell’inferno racconta a Dante la sua morte. C’è la stessa “montagna, bruna/per la distanza, … alta tanto/quanto veduta non avea alcuna”.
Forse Dio mi ha perdonato! Sono scampato per miracolo ad un disastro e ho passato un mese a scontare una pena durissima, ma a pochi minuti dalla fine mi ha mostrato la montagna del purgatorio.
Ho deciso: domani andrò verso di essa. Andrò incontro al mio destino, come Ulisse. Supererò il fiume e la raggiungerò. Tu dovrai restare qui, nella tenda. Dovrai conservare le mie memorie e il mio pentimento fino a quando il tempo, e soltanto lui, non le vorrà consumare. Se le cose dovessero andare male, voglio che le tue pagine non finiscano in acqua: verrebbero cancellate all’istante.
Spero soltanto di riuscire ad attraversarlo, senza morire congelato. Dopotutto, domani sarà il ventiquattro maggio. Il Piave non fece passare lo straniero, novant’anni fa…
Ciao Davide, eccomi qui a leggere il tuo bel racconto. Il ghiaccio e il gelo esterno come metafora del freddo dei sentimenti. Un Diario, sì proprio con la maiuscola , muto interlocutore e confidente , in grado di far scaturire pentimenti e confessioni più di qualsiasi persona in carne ed ossa. Racconto ricco di suggestioni. Bravo! Continua a coltivare la splendida passione della scrittura. Annamaria
Davide, ho letto anch´io il tuo racconto e ho anch´io volato con gli occhi dell´immaginazione facendo leva sulle tue frasi. Credo che potrei fare un´esegesi dotta, valutando le tue citazioni, oppure semiotica, analizzando i significati simbolici di monte-acqua-diario, però non lo faccio e ti lancio un´idea invece perché alcuni aspetti del tuo racconto, quelli che condivido di più, potrebbero trovare mille altre vesti: il tuo personaggio dichiara apertamente la propria sconfitta, non la “aziona” ma la “dice”, o per dirla alla Montale (lascia anche a me il vezzo della citazione), la “squaderna”. Mi piacerebbe rileggere la stessa storia e vedere agire questo senso di impotenza e di demistificazione della realtà umana (oltre gli allori e gli ori). Chissà se hai voglia di buttare giù qualche riga. Del resto la variatio su tema è un esercizio letterario stimolante, non credi? Ovviamente accetto volentieri consigli analoghi sul mio racconto, per il quale ti ringrazio molto di avermi letto e di aver provato emozioni (che è poi l´unico motivo per cui scrivo).
Grazie Annamaria. Sono contento che ti sia piaciuto. Per quanto riguarda la tua risposta al mio commento, devo dire che purtroppo hai ragione.
Grazie ancora.
Ciao Davide,
complimenti per il tuo racconto! L’idea è davvero originale e perfetta la realizzazione.
Hai unito immagini forti a descrizioni fortemente coinvolgenti, e le citazioni dantesche ci stanno a pennello.. Lo stile è decisamente convincente
Mi fa piacere se vorrai leggere il mio raconto.
ciao
Monica
Ciao Davide il racconto mi è piaciuto,è molto filmico come rappresentazione,trasporta immediatamente il lettore nella testa e nelle sensazioni dell’io narrante,mi sarebbe piaciuto saperne di più, del prima e del dopo, se ci sarà un dopo per il protagonista.Se non lo hai già fatto io ci scriverei ancora,perchè lo consentirebbe.Complimenti!Se leggi “Io e Jonathan” lascia le tue impressioni.