Racconti nella Rete 2009 “Scarpe” di Ilaria Benini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009E poi lo vedi il tuo zig zag tra le macchine, chiuso in un guscio di lamiera, nel buio bagnato di una notte metropolitana. Lo vedi e lo senti, e te lo stringi un po’ anche, ma poi ti scivola via o te lo lasci scivolare.
Io Irene l’ho amata. Adesso, francamente, non me lo ricordo tanto bene, però so che è così, che non è una bugia, come quelle che mi racconto per fare pace e andare avanti. L’ho amata perché non lo so, ed è per questo che sono certo di averla amata. Poi ho smesso di amarla e questo lo so perché, e infatti sono certo di non amarla più. L’amore è un mistero, se ce l’hai non hai bisogno di chiedere niente, che se chiedi, anzi, come una rana ti scappa via, perché in realtà è una farfalla. È quando finisce, invece, che di farfalle potresti farne una collezione e metterle in bacheca, imbalsamate di formalina, e sotto scritto: Perché non ti amo più due punti e a capo. Anche se poi di mille ragioni potresti fare un bel fagotto e dire soltanto Perché non sono felice. È così. È semplicemente così. L’uomo non è fatto per l’amore, l’uomo è fatto per la felicità. Quando l’ho capito erano anni che non ero più felice con Irene, erano anni che non l’amavo più, ma non riuscivo a dirglielo, perché poi, quando lo dici, finisci nell’isola del giorno dopo e indietro non puoi tornare più. Irene, indietro, voleva tornare, ma indietro tanto, indietro all’inizio e allora piangeva, urlava, e mi rinfacciava ciò che ero stato e che non ero più, come se l’amore avesse il diritto di scattarti una fotografia e dietro scriverci così per sempre. No, quello non è amore, forse una prigione, e anche un po’ la morte.
Torno a casa, apro la porta, dietro, lo so già, la prossima litigata, e infatti è così; nell’aria volano le stesse parole di sempre, che adesso neanche le ricordo, ricordo solo lo squillo, il telefono, le urla dei suoi insulti, le braccia che si muovono e poi la sento parlare, con voce impostata, tranquilla, falsa …va bene mamma, allora facciamo così, d’accordo, ci vediamo domani… Mi apro una birra. Aspetto. Aspetto che finisca la sua telefonata, per poter finire, poi, il nostro litigio. Continuo ad aspettare, intanto penso, penso che non ne posso più, che io lavoro tutto il giorno e torno a casa per stare sereno, che bisogna smetterla, che chissenefrega di tutto, che lei deve capire, che io non posso solo capire lei, e così mi faccio il film da solo, sì, solo, perché lei non torna. Mi alzo e la vado a cercare. Sta andando a letto.
– Beh? Che stai facendo?
– Non lo vedi?
– Certo che lo vedo, ma non mi sembra il momento.
– A me invece sì.
– Stavamo discutendo…
– Quindi?
– Quindi dovremmo finire la nostra discussione.
– Finiscitela da solo.
– Se è così, allora, posso anche vivere da solo.
È curioso, quella fu l’ultima parola che ci siamo detti, io a Irene, Irene a me, “solo”, del resto soli, dentro le stesse lenzuola, lo eravamo da parecchio.
Irene si volta, si avvicina alla scarpiera, la apre, prende una delle mie scarpe, si gira di scatto e me la lancia addosso con tutta la forza che ha, mi colpisce in pieno volto, poi subito prende l’altra e me la tira con più forza ancora, e poi un’altra, e un’altra, e un’altra, finché di scarpe non ce ne sono più, sono tutte in giro per la stanza, qualcuna è finita in corridoio, probabilmente sto sanguinando sopra un occhio perché del calore mi cola giù dalla fronte, sulla guancia. Lei scoppia a piangere, io non dico nulla, poi prende la porta ed esce di casa. Rimango finalmente solo.
Dieci anni sono tanti. In dieci anni si fanno tante cose. Eppure io l’unica cosa che mi ricordo di aver fatto con Irene è una cavalcata in campagna. Era un’estate torrida, il tropico si era trasferito da noi e la terra cercava l’acqua. Ci conoscevamo da poco, pochissimo. Lei mi era capitata a casa, ora di cena, con una scusa banale. Era emozionata, imbarazzata, quasi non la riconoscevo. Cos’è questo atteggiamento di chiusura?… Allora lei si era guardata, le braccia chiuse, le gambe chiuse, seduta in un angolo di divano, e mi aveva sorriso… Dici? … Beh, sì, dico… Cos’è, hai fatto un corso di psicologia?… Sì, body expression… avevamo riso… Senti, ti va di venire con me in campagna? … Quando? … Fra cinque minuti… Fra cinque minuti?… Sì, perché? … Ma campagna dove?… Qui, fuori città, vado in un maneggio di amici, così poi domani mattina presto vado a cavallo… Io adoravo andare a cavallo la mattina quando il sole c’è ma ancora non lo vedi. …No, ti ringrazio, poi se tu devi andare a cavallo io cosa vengo a fare… Beh, vieni anche tu… No, dai… Va bene … Cos’è ti dispiace se non vengo?… Un po’ sì… Ma io sapevo che dispiaceva anche a lei e sapevo che voleva venire, solo che lei era una brava ragazza e una brava ragazza non fa colpi di testa, perché una brava ragazza è in cerca di un bravo ragazzo per iniziare una brava storia d’amore. La lasciai uscire di casa e poi aspettai qualche secondo sperando di essere in un film di un regista pazzo che è troppo bello per essere vero. Quando sentii di nuovo il campanello capii che quella notte avremmo fatto i cattivi ragazzi. E dopo la notte arrivò la mattina e andammo fuori, presto, a cavallo. Io quello mi ricordo di quei dieci anni. Io, Irene, a cavallo, una mattina d’estate, dopo aver fatto l’amore la prima volta. Penso che in quella cavalcata ci siamo detti tutto, di noi, della nostra storia, e le parole che dopo hanno riempito i nostri dieci anni altro non sono che la copia, a volte brutta, a volte bella, più spesso brutta, di quelle parole, al vento, alla luce, nel silenzio della campagna. Poi dopo il silenzio uno squarcio nel cielo: un temporale. …Dai, seguimi… Ci ripariamo sotto un albero, ma la pioggia è troppo forte, le foglie cominciano a gocciolare, io mi metto sopra di lei, la copro, la difendo, la bacio, sotto la pioggia, sotto l’albero, sotto l’arcobaleno. …Le mie scarpe… Cosa?… Sono bagnate… Beh, non solo le scarpe se è per questo… Sì, ma io non le tollero, non tollero le scarpe bagnate… Torniamo al maneggio, scendo da cavallo e il mio unico pensiero sono le mie scarpe, le mie scarpe bagnate. Corro in macchina, apro il baule, prendo la mia sacca, dentro un paio di scarpe asciutte, me le cambio, con fretta avida. Irene è lì, lì che mi guarda. La abbraccio fortissimo, io non so quanti anni avevo, loro si sono dimenticati di me, tutti e due, non so dove fossero andati, io tornavo da scuola, alla stessa ora, come tutti i giorni, ma non erano in casa, avevo freddo, e pioveva, pioveva tanto, e non c’era nessuno, io suonavo e chiamavo forte, papà, mamma, sono qui, ma loro non erano lì, e non sapevo dove fossero, sapevo solo che pioveva, mi pioveva sulla testa, mi pioveva sulla cartella, e mi pioveva nelle scarpe, soprattutto nelle scarpe, io ero fermo, in piedi davanti alla porta, e l’acqua mi scivolava addosso e mi colava nella scarpe, acqua, tanta acqua, e non potevo fare nulla, e le scarpe erano talmente bagnate e inzuppate che non si muovevano più, e io ero lì, immobile, solo, abbandonato… Irene mi abbraccia fortissimo, Irene avrebbe voluto abbracciarmi anche quel giorno, quel giorno che ero solo, con mia madre a giocare a bridge chissà dove e mio padre a tradirla chissà con chi, Irene avrebbe voluto darmi tutti gli abbracci che non avevo mai avuto, e io penso che non mi importa più niente degli abbracci che non ho avuto perché ora ho lei.
Bastano poche cose per andare via da una casa. A me sono bastate le mie scarpe. Irene era uscita, di corsa, piangendo. Io mi sono seduto sul letto, ho preso la testa tra le mani, e mi sono detto oggi ci trasferiamo nell’isola del giorno dopo, anzi, quello dopo ancora. Nell’armadio ho trovato un paio di borse capienti, le ho aperte, le ho appoggiate per terra e ho cominciato a raccogliere le scarpe, una dopo l’altra, e a metterle dentro. Le coglievo come fossero fiori e invece erano cadaveri, cadaveri di un amore che ci era morto in mano. Le avevo riposte quasi tutte, e stavo per andare, ma poi mi sono ricordato che ne mancavano un paio. Ho pensato che era meglio lasciarle lì, dov’erano, sepolte, tra i cimeli di un giorno di festa che non c’era più. Poi ho avuto voglia, almeno, di salutarle come si saluta un amico caro che non vedi da anni ma che sai ti vuole sempre bene. Ho preso la scala e sono salito su in alto, ho ritrovato la scatola, ancora nuova. Le guardavo, ma più le guardavo più mi sembrava che fossero loro a guardarmi.. …Perché non metti le scarpe nere?… Quali Irene?… Quelle che hai messo quando mi hai sposato… Ah, quelle… non mi entrano più. Le scarpe capiscono tutto, prima.
Lo zig zag è bastardo, i pensieri ti portano fuori e basta un niente. La sirena in lontananza, le luci rossi delle macchine in colonna, la curiosità morbosa per un corpo disteso sull’asfalto. La pioggia scende, e continua a scendere, le mie scarpe si bagnano, goccia dopo goccia, e dentro ci sono i miei piedi, e dentro ci sono io, che poi non sono più lì.
Ilaria, il tuo racconto mi è piaciuto molto. Ho immaginato vividamente tutto ciò che hai raccontato. Mi è piaciuta la frase “L’uomo non è fatto per l’amore, l’uomo è fatto per la felicità” che ha suscitato in me emozioni contrastanti.
Ho avvertito molto anche l’immensa voglia di libertà del protagonista del racconto, un libertà da tutto ciò che è stata la sua vita.
Ciao Ilaria,il racconto mi è piaciuto,ha un giusto ritmo anche se è interno al protagonista,stilisticamente non amo il corsivo,cioè non ne vedo la necessità,visto che comunque stavi raccontando da un punto di vista interno alla voce narrante.In alcuni punti mi sarebbero piaciute di più le frasi secche e molto significative:tipo “L’ho amata perché non lo so, ed è per questo che sono certo di averla amata. Poi ho smesso di amarla e questo lo so perché, e infatti sono certo di non amarla più.”Senza proseguire con la spiegazione di ciò che hai scritto e che si comprende meglio nell’essenza della frasi usate,inoltre il corsivo usato quando ti riferisci al dialogo secondo me andrebbe meglio scritto come un dialogo e non come un pensiero-ricordo riportato nella mente.Nel complesso mi è piaciuto e scusami se ho messo qualche considerazione in più.Se vuoi leggimi anche tu.
Cara Francesca, hai sicuramente colto nel segno rispetto alla prima questione che poni. Spesso mi capita di scrivere e poi di scrivermi sopra. Infatti, lo sforzo maggiore che compio quando rileggo, anche a distanza di tempo, è sfrondare, togliere i paratesti per lasciare solo il testo, quelle frasi forti e penetranti che ogni tanto, non si sa come, penso di ritrovarmi nella penna. Quindi ti ringrazio molto per la tua osservazione che mi conferma che anche su questo racconto c’è ancora qualcosa da fare. Sul corsivo io al contrario sono un’amante, anche sfacciata, coem hai potuto notare, non so se è l’influsso di qualche lettura o se è una forma di ritrosia, come a dire che lascio sempre le parole tra il detto e il pensato e il sussurrato e il ricordato, le nascondo un po’, le lascio un po’ sfumate. Ma anche su questo ci penserò nuovamente. Grazie dunque per quelle considerazioni in più che sono sempre utilissime. Ora ti leggerò anch’io.
Ciao Ilaria, voglio solo dirti brava. Il tuo racconto mi è piaciuto molto corsivo compreso, a mio avviso dà un ritmo particolare al racconto e riesce a far penetrare il lettore nei più reconditi sentimenti del protagonista Penso che lo stile sia qualcosa che ci appartiene e che , a meno che non si tratti di strafalcioni, debba essere esente da critiche(non è assolutamente una polemica con Francesca, ma solo il mio punto di vista). Hai descritto molto bene la fine di un amore più che di un matrimonio e poichè come dici “L’uomo è fatto per l’amore non per la felicità” quando questo finisce anche l’uomo non esiste più . Complimenti. Se ti va di leggere il mio racconto “Strike” sarei lieta di avere un tuo giudizio.
Ciao Ilaria, ho letto il tuo racconto con interesse e curiosità. Mi è piaciuto l’uso che fai dell’io narrante al maschile. Hai uno stile immediato e asciutto, fresco e giovane, che risulta di forte impatto.
In particolare ho apprezzato la prima parte del racconto e la fine. Nella parte centrale il flusso continuo delle frasi spiazza un pò il lettore, ma in quel contesto ci sta bene.
Inoltre ho trovato davvero particolare la tua presentazione, e mi ha colpito soprattutto l’ultima frase, anche se forse non ne ho compreso bene il significato!
Se vorrai leggere il mio racconto, mi farà piacere avere un tuo commento.
Monica
Cavolo! Ho trovato questa piccola perla non so come. Ricercandola stamattina per poterla commentare, scorrendo gli articoli del 2018, non la trovavo. Come è mai possibile, mi dicevo, era qui ieri sera. Cerca e ricerca, partendo dal titolo che era l’unica cosa ricordassi, scopro che è un racconto dell’edizione del 2009, gulp!
Complimenti, Ilaria, spero che questo tuo racconto sia inserito nell’antologia di quell’anno perché lo merita veramente! 🙂