Premio Racconti nella Rete 2013 “Il quaderno di Rosario” di Lorenzo Santangeli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Sono seduto in questa stanza che non è la mia, e guardo per caso una piccola foto, che forse è un disegno o magari entrambi, e mi torna in mente Rosario, una giovane donna che conobbi solamente per poche ore, quelle in cui davanti ai miei occhi si spense e morì.
Io e Rosario ci incontrammo per caso, da soli in una pineta di notte. La pineta iniziava in riva al mare e si estendeva per centinaia di metri nell’entroterra. Un viale conduceva a una piccola riserva, mentre un sentiero sterrato e difficile da vedere (spesso ho tentato di ingannarmi dicendomi di averlo immaginato) conduceva al di là, in una parte della pineta dove la vegetazione era più fitta e le ombre più dense, il sibilo di qualcosa che strisciava sui rami e sulle foglie incessante.
Mi avventurai lì, quel giorno deciso a cogliere qualche bel fiore per mia sorella, che piccolina, nuova di quei luoghi, sembrava trovare piacere solo nelle cose belle della natura.
Camminai per un pò. In breve fece notte, e io, osservando la pineta in quella nuova veste scura, mi sentii solo e perso. Emisi un grido, e nessuno mi rispose. Presi a camminare a grandi passi, poi a correre, infine sudato e stanco mi appoggiai ad un albero. Invocai aiuto, qualcuno che mi soccorresse, e a quel punto una voce rispose al mio appello. Proveniva dall’ombra davanti a me, ma non vedevo niente. Nello stato in cui ero pensai a presenze fantastiche, un fantasma, una strega, uno spirito, una ninfa. Quando trovai il coraggio di avvicinarmi, scorsi invece lei, Rosario, vestita di chiaro, con la pelle sudata e le mani sanguinanti.
«Che fai qui?» le chiesi, «Ti senti bene, cos’hai?».
Lei mi rispose che si era persa. Le mani e le braccia erano orribili, i segni, come morsi, le coprivano quasi del tutto e il sangue che colava lento dalle ferite si mischiava alla terra e agli aghi di pino. Tentai di aiutarla, ma lei mi fermò. Mi disse «No, non mi importa più, piuttosto…» e mi indicò una penna e un quaderno vicino le sue gambe. Mi chiese di prendere tutto e di aiutarla. Io non capivo cosa intendesse, ma quegli occhi e quella voce avevano su di me un effetto come magico, e solo molto tempo dopo capii che di magico non c’era niente, piuttosto c’erano una volontà e una totalità che io non comprendevo. Non appena presi quaderno e penna Rosario mi disse di scrivere ogni cosa, ogni parola, ogni suono che fosse uscito dalla sua bocca, e poi si presentò, scandendo il suo nome come se lo pronunciasse per la prima volta. Iniziai a scrivere, e lei mi disse che le era stata diagnosticata una malattia incurabile, una patologia rara del sistema nervoso che progressivamente avrebbe eliminato ogni capacità sensoriale. La guardai scioccato. Le dissi che allora doveva essere visitata, curata, dovevo portarla all’ospedale più vicino. Vengo proprio da lì, mi rispose, e aggiunse «Scrivi tutto per favore». Mi indicò l’ospedale e mi stupii della mia paura, che quando mi fui convinto di essermi perso mi aveva impedito di vedere, di capire che non ero poi così lontano dal paese. «Vedi» disse, «perderò i sensi, non vedrò più, né sentirò, e già il tatto è andato via completamente». Guardai allora le mani di nuovo, e un orrore più profondo mi colse. Si era morsa le mani e la carne e la pelle per disperazione, per capire, per paura, e poi per avere certezza. Mi chiese dei fiori che erano lì vicino, e mi chiese di farglieli annusare, che l’olfatto era il prossimo. Sussultai. Pensai a quante volte, nel riconoscere un odore sgradevole, avevo desiderato di non distinguere più alcun odore, e me ne vergognai. Prese a parlarmi di ricordi legati a quei profumi, di persone, di luoghi, di un giardino fiorito di molti anni prima, di un cimitero. La notte era scura e calda. Io scrivevo tutto, anche se mi era impossibile non distrarmi. Faticavo a non guardare quelle ferite e quelle mani. E quando le scorgevo, allora osservavo le mie, e mi sentivo in colpa. Rosario mi chiese di nuovo di avvicinarle dei fiori al naso, quelli che avevo colto, e dopo aver dato una grande annusata mi disse che non sentiva un granché e fu allora che un lampo le attraversò gli occhi ed emise un grido che mi sconvolse. In un attimo, simile a una belva, allungò il collo e morse i fiori. Ritrassi la mano appena in tempo, e ci furono momenti di silenzio. Anche questo è perso, annunciò, e con le mani al viso iniziò a piangere. Poi si scusò, e mi chiese che fiori fossero. Io non lo sapevo, erano per mia sorella, le dissi. Volle ascoltare qualcosa su mia sorella, e io, che ormai la assecondavo stordito, le raccontai di quando era nata, di come era cresciuta, e di come, per troppo tempo, avevo faticato ad essere presente nella sua vita. Nell’ascoltarmi sembrò rilassarsi, e parlammo ancora un pò, di noi, di cosa facevamo, di cosa ci piaceva, come ad un primo appuntamento. Lei parlava; io parlavo e scrivevo. Lei mi guardava attenta, con occhi curiosi come quelli di un bambino. Da lontano udii lo scoppio di fuochi d’artificio. Li vedemmo alti nel cielo tra i rami dei pini, e Rosario capì di aver perduto anche l’udito. Da quel momento la malattia fu ancora più rapida, in breve perse vista e gusto e io fui spettatore inerte di quello svanire. Iniziai a scrivere frasi sconnesse, e non perché ero nervoso o sconvolto, ma perché lei ora si era abbandonata ai ricordi, di ogni genere e tempo, di libri che aveva letto e amato, di persone o fantasmi, di luoghi, di canzoni. Tutto divenne un unico flusso instabile che sfilava davanti a me. Io non parlavo più, non ce n’era bisogno. Quando solo la voce rimase a dare vita a quel corpo (e a quella mente, perché la mente c’era ancora senza dubbio), io ero stremato, straziato, e volli salvarla più che mai. Deve esserci qualcosa che si può fare! Devo portarti all’ospedale! Devo salvarti! e allora lei, che non mi sentiva, né mi vedeva, come se avesse percepito le mie intenzioni fece no con la testa, e con gesti sconnessi si scoprì le gambe e in mezzo, tra le cosce, comparve un coltello. Ripensai a come l’avevo trovata, mi sono persa, mi aveva detto, e rividi il suo sguardo che mi fissava e i suoi occhi che mi fissavano. Compresi finalmente le sue intenzioni e rabbrividii, mi sentii cadere, le gambe tremavano, e il pensiero andò a mia sorella, alla sua voce, al suo sorriso. «Uccidimi», mi disse Rosario. E nella sua voce non c’era né dramma né tristezza né rassegnazione, solo lucidità. La sua era una richiesta dettata solo dalla sua logica, che però non era la mia, non sono un assassino. Nella mia mente, il ricordo di quello che accadde quando afferrai il pugnale è confuso, e mi pare come parte di una vita vissuta tempo fa, in un altro corpo, in un luogo fantastico. Non usai il pugnale, ma le strinsi il collo con le mani fino a toglierle il fiato. A volte durante la notte mi sveglio di soprassalto e non dormo più. Ricordo vagamente il viso di Rosario, per cui ora sono un assassino. La sua immagine si fonde con il resto come fosse stato un sogno, e se non tenessi questo suo quaderno con me mi sarei già convinto di aver immaginato tutto.
Ho trascorso molto tempo a interrogarmi su queste pagine, e ogni volta che le rileggo piango e penso che avrei potuto salvarla, ma poi dico di no, sarebbe stato impossibile, e pensieri terribili mi invadono la mente. Sono un assassino, ma non sento di esserlo. Spesso ho pensato di costituirmi, ma chi sarebbe in grado di comprendermi? Ho scritto la mia confessione su questo quaderno, e quando sarà il momento ognuno emetterà il suo giudizio, che però non ricadrà su di me né su Rosario.
Ho il quaderno qui nelle mie mani. Da quella sera lo porto sempre con me, e non so bene neanche per quale ragione, forse per non diventare pazzo o forse per qualche altro motivo, non lo so. Quante volte l’ho letto. Lo poso vicino la fotografia, e la vegetazione ritratta nella cornice somiglia a quella pineta. C’è una macchia bianca che non avevo notato prima, una farfalla, forse, vicino una siepe, un cespuglio d’erba lungo il viale di ghiaia e ciottoli che si allunga stretto stretto fino a svanire del tutto.