Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “L’ultimo applauso” di Letizia Sperzaga

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Lo sento.

E’ dietro quest’angolo di muro.

E’ come un animale ed io lo sento respirare. Pulsare.

E’ una cosa viva, che cambia ogni sera, che si contorce mutando forma.

Che desidera. Sì, il pubblico è un animale in tutto e per tutto.

Chi non ha mai vissuto l’esperienza del palcoscenico per più di una o due volte potrebbe pensare che non sia vero, che un pubblico accidenti non è altro che un insieme eterogeneo di individui pensanti, senzienti, ognuno con la propria personalità.

Beh, lasciatemelo dire, sono tutte stronzate. Il pubblico è una cosa sola, una cosa a parte. Viva e con un’unica mente.

Metti insieme cinquanta, cento, mille persone e ficcale davanti ad un sipario in attesa che questo si apra e cominci uno spettacolo, e ti troverai un essere informe con centinaia di occhi, migliaia di zampe ed un solo respiro. Un essere che freme impaziente o sonnecchia annoiato, che gorgoglia fra colpetti di tosse e sussurri indecifrabili. E ribolle nervoso. Ti aspetta al varco.

Che come un cane ti fa le feste e ti corre incontro nel vederti comparire: applaude, scodinzola, guaisce tra i risolini gioiosi delle signore. A volte ti lascia intuire il suo ringhiare sommesso. O la sua noia.

Come stasera, maledizione.

L’animale è annoiato, lo sento. Non aspetta altro che questa serata non ancora iniziata finisca, per tornare fuori di qui, nelle sue molteplici tane, a mangiare, dormire, riprodursi …

E’ quasi il mio momento.

Faccio lentamente avanti e indietro nella penombra, cercando di fare meno rumore possibile. Gli occhi ormai si sono quasi del tutto abituati. L’addetto al sipario mi saluta con un cenno del capo, e mi fa un ‘in bocca al lupo’ a mezza voce. Gli rimando un sorriso svogliato.

Poi giocherello con una grossa fune sfilacciata che pende dall’alto.

Dalle quinte intravedo la presentatrice, una bella bambolona platinata come un trans di viale Mancuso. Stringe il microfono come un gradito trofeo fallico, all’altezza delle due enormi zinne rifatte che fanno capolino da una scollatura imbarazzante. Sta ringraziando sindaci, assessori, associazioni culturali di mezzo mondo per l’organizzazione di questa ‘magnifica serata’, dice lei. Poi passa agli sponsors.

Penso non sia una buona idea sciorinare un elenco del genere ad un animale annoiato, ma che ci posso fare? Ad ognuno il suo mestiere.

Ci siamo.

Tra poco annuncerà il mio nome.

Se fosse per me proporrei qualcosa di vivace, di anticonvenzionale, tipo:

«Ecco a voi signore e signoriiii… per la gioia di grandi e picciniiii… quel gran testa di birillo di Oreste Lavianiiii!!!!» e a quel punto farei partire uno scroscio di applausi, urla festanti, in una entusiastica standing ovation. Magari una ola da stadio.

Ma la prosperosa signorina dalle turgide poppe manca completamente di senso dell’umorismo e fa una presentazione vecchia maniera, di quelle che fanno scendere il latte alle ginocchia.

L’animale reagisce con un brevissimo applauso moscio. Clap clap, fa con le manine di burro.

Il mio primo istinto è quello di buttare a terra il papillon e andare a tirare pezzi di pane alle paperelle del laghetto. Ma guarda se si può lavorare in queste condizioni!

Quindici anni fa l’animale non si sarebbe mai permesso. Quindici anni fa la gente si sarebbe spelata le mani solo a sentire il mio nome, e quello prima di entrare in scena, sarebbe stato forse il momento più entusiasmante di tutta la serata. Ma allora si trattava di tutt’altro animale.

Era un pubblico scelto, di intenditori attenti ad ogni sfumatura. Che coglieva ogni finezza artistica, e restava col fiato sospeso. Che si commuoveva, contorceva le mani rapito da tutto ciò che avveniva sul palco.

Ed io amavo i suoi suoni, i suoi rumori. Il brusio in platea misto all’odore delle tavole di legno del palco mi esaltava, mi faceva sentire un dio. Mi piacevano i bisbigli, le risatine, i sospiri, lo stupore attonito a stento trattenuto in quei delicati ‘oh!’ che facevano il solletico…

E poi gli applausi. Adoravo il suono degli applausi, quello scroscio irregolare che mi elevava per qualche minuto sopra i mortali, che coronava la mia impresa con l’illusione che fosse qualcosa di eterno.

Credevo di avere tutto. Credevo di essere invincibile. Ero il grande Oreste Laviani, porca miseria!

E io purtroppo lo so, ne sono consapevole: non è che non esista più un pubblico così. C’è, da qualche parte, solo non è più roba per me. Ora sospira, freme, si commuove per qualcun altro.

Mi guardo intorno e trovo solo facce svogliate.

Ho seriamente voglia di andarmene.

Alla fine mi frega il mio senso del dovere e mi avvio verso la scena.

Oltrepasso una quinta e rimango abbagliato dai fari bianchi: i miei occhi si erano abituati così bene alla penombra del retropalco che per un attimo perdo l’orientamento, ma non mi fermo. Conosco la sensazione.

Avanzo per raggiungere il proscenio, e sfodero il mio miglior ‘sorriso da concerto’, quello che faceva ripartire l’applauso nei momenti più impensati, quello che spesso mi ripagava facendomi trovare delle ammiratrici in camerino, calorose e disponibili. Piacevo molto alle donne. Nell’‘81 ero stato eletto a furor di popolo il tenore più affascinante di tutto il panorama musicale. Nelle opere mi facevano sempre fare le parti da bell’innamorato, e i registi (quasi tutti checche indiavolate, per la verità) non vedevano l’ora di farmi comparire in scena a torso nudo, perché si vedessero i miei bei pettorali. E posso capire ancora se si interpreta Radames o Otello, ma mi sono trovato mezzo nudo persino in Bohème!

In mezzo ad una scenografia che rappresentava una Parigi di fine ‘800 a dieci gradi sotto zero, con la neve finta, mi dovevo denudare come si fa l’8 di marzo nelle discoteche più bieche, cantando ‘Che gelida manina’ davanti ad una cicciona imbacuccata con sciarpe e scialletti tipo nonna Abelarda, che di gelido non aveva nulla, meno che mai le manine. Ci vuole una fantasia!! Comunque.

A me stava bene: la cosa contribuiva a rendermi ancora più famoso e desiderato dalle donne.

Anche miei cachet erano qualcosa di esorbitante, delle cifre spaventose. Ma i teatri facevano a gara per avermi, e così sganciavano la grana. Ricordo che nell’83, tra Berlino, Parigi e New York arrivai a guadagnare due miliardi e mezzo di lire in un solo anno. Togli pure le tasse, le percentuale all’agente… ancora oggi mi chiedo come diavolo ho fatto a sperperare tutto quel patrimonio. Anche per una gran testa di birillo come me ci vuole del bell’impegno per bruciarsi tutti quei soldi.

Fatti coraggio, mi dico. Sorridi. Se va tutto bene questa è l’ultima volta.

Proseguo. I miei occhi cominciano a distinguere alcune sagome.

Un pianoforte a mezza coda è sistemato sulla sinistra del palco, e il pianista, con dei culi di bottiglia al posto degli occhi, mi guarda torvo.

Camminando butto un occhio al fondale e non credo a quello che vedo. Il sorriso mi si ammoscia sulla faccia: sul pannello di sfondo, alle mie spalle, c’è un enorme scritta colorata:

«SAGRA DEL TORTELLO FRITTO» e sotto, a destra, lo stemma del comune di Borgazzolo Mantovano, e a sinistra il disegno di un enorme raviolo unto.

Come un automa raggiungo il centro del palco. Non riesco più a sorridere, anzi un po’ mi viene da vomitare.

Davvero la mia carriera finisce così? Davvero questa sarà l’ultima volta? Il gran finale?

Per un attimo vedo cosa sono diventato: un uomo di sessant’anni (quasi sessantatre per l’esattezza) gonfio di cortisone e birra, che non entra più nello smoking. Un uomo solo con tre matrimoni falliti alle spalle, che cena davanti al televisore con tranci di pizza dell’Esselunga e cibo cinese da asporto. Un tenore dalla voce ormai dura, leggermente traballante (in realtà non molto, quel tanto che basta a finire la carriera nel concerto inaugurale di una sagra di ravioli bisunti).

Mi posiziono a favore di luce. Manco a dirlo il puntamento è stato fatto a cazzo di cane, ma sono un professionista e saprei come gestire la scena anche se andasse via la corrente. L’animale dalle molte mani aveva già smesso di applaudire prima che arrivassi in mezzo al palco.

Lascio scendere le braccia lungo i fianchi e con la sinistra tocco la tasca dello smoking.

I due fondi di vetro spesso che sbucano da dietro il pianoforte mi fanno un cenno inespressivo, una roba del tipo: posso cominciare, Maestro?

Non gli rispondo e lui parte lo stesso. E cambiare gli occhiali, no?! Mi sembra chiaro che non ci vede una fava. In realtà Ray Charles della bassa mantovana non suona affatto male. Le note inebriano l’aria in tutta la loro magia. E’la Lucia di Lammermoor. Povero Donizetti. L’ultima reminiscenza degli allori di un vecchio cantante lirico. Il sottofondo al mio spettacolo d’addio.

Sono ancora in tempo a cambiare idea. La mano tocca di nuovo la tasca della giacca. Le note si spandono, si allargano. Mi sfiorano il petto, le labbra, come un bacio.

E’ lunga quest’introduzione. Sono ancora in tempo a decidere di aprire la bocca e cantare. Di produrre quel suono opaco, leggermente ballonzolante che mi riesce ora. Di certo non troverei femmine procaci in camerino, o il mio agente che mi sventola sotto il naso nuovi contratti. Sarebbe sufficiente trovare una busta con le miserabili 200€ pattuite col teatro. Scroccherei la cena al rinfresco del dopo-concerto, a base di tartine, spumante di infima categoria e ovviamente tortello fritto.

Poi tornerei a casa. Da solo.

Penserei ai miei quattro figli che non si degnano di rivolgermi la parola dal ’97, quando mi sono giocato la casa a Montecarlo, lasciando due famiglie sul lastrico. Penserei a Giada, la più piccola. Se la vedessi per strada neanche la riconoscerei.

Mah. Magari se le telefonassi… magari sarei ancora in tempo.

Il mio pianista accompagnatore sta terminando l’introduzione all’aria. Non riesco proprio a capire come: forse usa una sorta di metodo Braille

Le note sfumano, concludono. Ora io dovrei attaccare: «Tombe degli avi miei…» ma la Lucia di Lammermoor stasera termina qui. Ho deciso.

La mano entra in tasca, tocca il ferro: una Colt Combat Commander calibro 9, del 1984. L’avevo comprata a New York, durante una tournée, in Sigel Park nell’‘86. Da vera testa di cazzo quale sono, avevo rischiato senza nemmeno pensarci su un secondo, ficcandomela in valigia in mezzo a mutande e calzini. Così. Tanto per dimostrare al mondo che Oreste Laviani poteva permettersi qualunque cosa.

Nell’attimo di silenzio che segue, il mio Steve Wonder padano mi fissa. Io non ho attaccato. Intuisco il suo imbarazzo.

Magistralmente suona di nuovo l’ultima cadenza, e con una nonchalance incredibile mi ridà la nota d’inizio.

Mannaggia. Ma guarda un po’ dove ti vado a trovare un pianista decente! Proprio adesso che non mi serve più. Che peccato.

Per la seconda volta di seguito l’aria di Edgardo rimane sospesa, senza la mia voce.

Stringo l’impugnatura. Negli anni ’90, le puntate al Casinò le facevo con la destra, per scaramanzia. Non che questa precauzione mi sia mai servita a qualcosa. Però sono mancino e la mia sinistra estrae la pistola.

Inizia un flebile brusio. Qualcuno forse pensa ad una trovata registica per interpretare in modo più moderno il brano. Oramai in teatro non bisogna più stupirsi di niente: la scorsa stagione per esempio ho visto una Traviata, in cui Violetta era vestita da infermiera, e Alfredo, primario di cardiologia, la inseguiva per farle la puntura. Roba che Verdi se lo sapesse, anche da morto, si metterebbe a piangere con lacrime e singhiozzi.

Ma non è il mio caso. Niente regia moderna. Sono piuttosto tranquillo, non pensavo.

Con calma mi porto la pistola alla bocca. Con l’indice cerco il grilletto, lo sento.

Avviene tutto in un attimo. In platea qualcuno urla, qualcuno balza in piedi dal suo posto, qualcuno come al solito non capisce nulla. Comincio a fare pressione col dito.

Dalla seconda quinta, non so come, il vigile del fuoco addetto alla sorveglianza si accorge di cosa sto facendo e comincia a correre verso di me, attraversando il palco a grandi falcate.

Poi si lancia in volo, butta avanti le braccia e mi raggiunge da dietro, afferrandomi il gomito per farmi cadere l’arma. Ma non ci riesce.

Riesce solo a cambiare leggermente la traiettoria del proiettile. La deflagrazione fa rimbombare l’intero teatro, e il colpo deviato mi squarcia la guancia e mi fa partire l’orecchio destro e l’articolazione della mandibola.

Tutto si spegne.

Mi ritrovo a terra riverso, con la faccia pigiata sulle tavole di legno del palcoscenico, in una pozza di sangue che si sta allargando lentamente. Non riesco a muovermi, sono come paralizzato. Sento solo un immenso ronzio che mi rimbomba in testa come un frastuono. Non riesco veramente a capire se provo dolore: è come se avessi il cranio stritolato in una pressa.

Con la coda dell’occhio intravedo della carne trita appiccicata sulla enorme ‘s’ della parola ‘sagra’ del pannello colorato di sfondo. In mezzo ai piccoli grumi di carne e sangue vedo un ciuffo di capelli corti e neri. Dev’essere la mia basetta destra. Sta lentamente scivolando lungo l’immagine del raviolo fritto.

Improvvisamente ho il sentore che qualcuno mi abbia portato via la pistola. Vedo tanti piedi intorno a me, ma nessuno osa toccarmi. Mi gira la testa, sto per vomitare. Se quel coglione del pompiere si fosse fatto gli affaracci suoi sarebbe già tutto finito. Istintivamente muovo la lingua, forse per parlare, non so, ma trovo un buco: credo che oltre a un bel pezzo di faccia mi manchino diversi denti dalla parte destra.

Non riesco a muovermi, non vedo oltre il palco, ma immagino che la bestia giù in platea stia battendo la ritirata, confusa. Spaventata.

Immagino che quei pochi distratti che ancora non avevano ben chiara la situazione stiano ora tentando di portarsi verso l’uscita scavalcando il vicino di posto.

Trecento braccia sovrapposte a trecento gambe ammassate che tentano la fuga, ingorgando le uscite di sicurezza.

Ho destabilizzato il mostro. L’animale è confuso.

Appena fuori di qui sarà disperso, e ricompariranno a poco a poco tanti individui, ognuno con la propria vita, ognuno coi propri ricordi, i propri pensieri.

Ci siamo.

Non vedo più nulla, non sento rumori, solo questo forte ronzio che mi trapana il cervello.

Che strano. Questo fruscio prepotente mi ricorda un altro suono che ho sempre amato tanto.

Eccolo, il gran finale. E questo ronzio è il mio ultimo applauso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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4 commenti »

  1. Racconto veramente terribile per il soggetto, ma scritto molto bene. Il lettore resta in sospeso fino all’atteso lieto fine che non arriva. Nella sua crudeltà ha qualcosa in comune con il mio “Strike”, che spero vorrai leggere e commentare. Complimenti. Annamaria

  2. Un racconto avvincente. Il finale, per me che amo speranza e consolazione (ma non “lieto fine” per forza) è straziante, ma forse l’unico possibile a quel punto:ormai il lettore era aggrappato con le unghie per evitare di cadere nel baratro. Mi è piaciuto molto anche dal punto di vista narrativo.
    Ciao e in bocca al lupo

  3. Ben calibrato e ben scritto. Mi piace la descrizione del pubblico “in soggettiva”, cioè il pubblico non è un qualcosa di fisso e determinato, ma è quello che il protagonosta, volta volta, vede e avverte. Come lo spettacolo per il pubblico, del resto. Andrea Ercolini

  4. Il sipario, la scena, il pubblico, ovvero il teatro della vita. Mi ricorda anche il mio racconto, che spero tu voglia leggere.
    Non posso far altro che concordare sul senso generale e complimentarmi per lo stile!

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