Racconti nella Rete 2009 “L’immagine riflessa” di Massimo Fanteria
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009La prima volta che glielo chiesi, Mario mi guardò con quella sua espressione sorniona, come a volermi dare uno scappellotto con un fare bonario.
Ricordo che stavamo passeggiando sotto le Mura della città, in uno di quei pomeriggi trascorsi lentamente, quasi col timore che potessero finire troppo in fretta. Dopo qualche passo rotto soltanto dal silenzio, riprovai a chiederglielo “si può raccontare la pazzia”; e lui niente. Quasi a rincorrere i suoi pensieri, non rispondeva se non con quel suo sorriso enigmatico che usava quando voleva farti capire un qualcosa, senza però dire niente. Giunti vicini ad una delle porte della città, avvertii la sua risposta raggiungermi quasi sottovoce. E come una verità arrivata da lontano, sentii la sua voce dire “non so se si possa raccontare la pazzia. Basterebbe raccontare le sue storie”. E dopo qualche passo seguito sempre in silenzio, come a sottolineare quelle parole dette poco prima “purché non ci si dimentichi il rispetto dovuto da chi sta osservando qualcosa che non gli appartiene”.
Storie comuni, se non banali nel loro assomigliarsi.
Una volta, un bambino disse che la “pazzia è quella cosa che ti fa fare delle cose che altrimenti non faremmo”. E davanti alle insistenza di chi lo stava ascoltando, con molta calma e con un atteggiamento di orgogliosa sicurezza nel dover spiegare la sua risposta “ti immagini – riprese con un sorriso tra il furbetto ed il divertito – vedere uno che cammina scalzo, o che si ferma davanti a tutti mentre inizia a pisciare; o vedere quello che ti fissa con uno sguardo strano senza dirti niente e poi inizia ad urlare. E tutti nudi. Con quelle vestaglie tutte uguali e senza bottoni, che poi magari ti legano. E poi non hanno neanche il babbo e la mamma che gli vuole bene”.
Già. Ma sono tutte così le storie della pazzia…
No! non sono tutte così le storie della pazzia; il più delle volte ci passano accanto senza che queste ci tocchino in un qualche modo. Storie che vivono la stessa quotidianità, consumando i nostri stessi usi. Le stesse abitudini. Tutto uguale sin tanto che qualcosa si rompe. E niente è più lo stesso. Si perde il passo e non c’è contrappasso che tenga. La rincorsa si chiude lì, sul nastro di una nuova partenza.
Ogni volta che ci penso mi torna in mente la ‘Giara di don Lollò’. Quella bella giara arrivata dalla città per ‘eccezionale raccolta d’olive di quell’anno’. Bella, grossa ‘suona come una campana… don… don… don…’.
Ma. Ma la notte successe qualcosa. E la giara si ruppe; così senza che nessuno ne potesse spiegare il motivo. Senza capire chi si fosse macchiato di tanta iniquità. Tutto sembrava accaduto quasi per caso. Con la giara spezzata in modo irrimediabile che troneggiava nel mezzo dell’aia assolata. Una storia come tante altre. Storie che forse conosciamo. E forse no.
Storie comuni che chissà perché, una volta raccontate si trasformano in tragedie. In pagine grigie. In liriche che vengono lette quasi sempre con toni compassionevoli. Fors’anche con la traduzione di chi voglia e debba per forza tradurre le parole degli altri. Di chi non può vedere le cose come le vede comunemente la gente di tutti i giorni. Eppure basta un niente, una sfumatura. Un vuoto che non si riesce a colmare. Una domanda di troppo. E ci si incrina, ci si guasta. Ci si rompe senza poter tornare indietro.
Voltandosi di quanto in quanto senza neppure il timore di poter essere trasformati in una statua di sale.
Storie del quotidiano che ci accompagnano lungo la strada e che il più delle volte ci lasciano indifferenti, senza neanche scalfire la nostra voglia di normalità. Di quell’attitudine a non porci nessun tipo di domanda, se non quelle di cui conosciamo già la risposta. Banale, forse. Ma che soddisfa il nostro tranquillo attendere il giorno dopo e quello dopo ancora. Senza chiedere che cosa ci sia dietro a quella voglia di risposte a cui non vogliamo neppure dare un senso. Pronti ad intervenire con il nostro kit d’emergenza; con quel ‘carrellino’ delle cure che tanto aiuta a non rispondere. Il signore della porta accanto che ogni mattina esce, ci saluta e scende al negozio sotto casa a comprare il pane od ad accompagnare forse la zia, ci può fare tenerezza o compassione, per quel suo modo di fare particolare. Sin tanto che. Sin tanto che non ci viene detto che ha dei problemi psichiatrici. Che è matto. Uno di quei matti che giornalmente incontriamo senza rendercene conto. Che scivolano senza presunzione sui nostri percorsi. Sin tanto che. Presenze bizzarre che non riusciamo ad identificare; a dargli un ruolo ed un etichetta certa. Se per caso incontriamo una persona chiaramente diversa da ciò che viene considerato nella norma, la nostra prima difesa è quella di rifugiarsi dietro il personale fortino di Fort Alamo, chiudendo il portone; lasciando al di fuori tutto ciò che non ci appartiene. Al massimo usarli per un ammiccamento più o meno ironico, riservato al corporativismo dell’essere maggioranza. I più. Prostitute, gay, extracomunitari, barboni, senza tetto; gli stessi portatori d’handicap suscitano un immediato senso di ilarità. Quasi un compiacimento per l’essere noi stessi diversi da loro. Per essere noi quelli che possono additare negli altri quelle imperfezioni che ci possono divertire. Sin tanto che. Un quasi plebiscito. Dopo, probabilmente, si potrebbe anche cercare di capire e forse giustificare non si capisce bene cosa. Ma dove tutto questo è senza storia, senza nessuna etichetta, come la si può mettere ai margini dell’essere nei più. Non lo si può fare sin tanto che non lo si scopre. Sin tanto che non ce lo dice. Sin tanto che loro stessi, queste presenze non ufficiali, non te lo sbattono in faccia. Come? non ha importanza. E se non lo so scopre prima, proprio loro te lo devono dire. Te lo devono far sapere. Ed allora ecco che scatta un meccanismo diverso, un’alzata di paretie necessaria a salvaguardare il proprio tratto di istmo da salvaguardare. Sparisce quell’espressione di tenerezza e di compassione per assumere un atteggiamento di terapia dello stare insieme. Lo abbiamo deciso senza neanche chiedere. Subentra un quasi gioco sottile nel rapporto tra finzione e realtà, dove resta ancora difficile stabile un divisorio netto tra chi ha la necessità di spingere quel ‘carrellino ‘ ed a chi invece ne veda intromessa la propria storia. Una comunicazione tra sordi, un fiume di parole tra una bocca e l’altra, con un rimbalzo di echi che si rincorrono incrociandosi ogni tanto su di una pedana dove si sta svolgendo una gara di fioretto. Un susseguirsi di gesti, di silenzi, di modi, di posture. Di sguardi alla ricerca di conferme reciproche, di quel fissare davanti per cercare di catturare ciò che è già davanti ai reciproci mondi.
Tanto è tutto lì, a portata di mano. Ed allora perché usare altri mezzi che non sino le parole, quelle poche parole che servono a raccontare? a descrivere? a illustrare? a narrare? un qualcosa che non si sa neppure di possedere. Un blaterarsi addosso senza capo né coda e dove c’è un obiettivo comune da raggiungere. Un dialogo monouso dove l’un l’altro usa la tecnica che consoce meglio sia per attaccare e sia per difendersi. Un duello di parole: tante contro poche, a seconda del momento. Un dire quasi monocorde. Frasi brevi, frapposte da pause più o meno lunghe, forse nel tentativo di trovarne la più semplice e la più diretta. Un salto nel passato, un tornare a fianco di una cattedra; col professore che pronuncia proprio quella domanda a cui sappiamo di poter rispondere perché ci eravamo preparati, e siamo lì di fianco a quella cattedra mentre il tempo passa e noi che restiamo in silenzio alla ricerca delle parole più forbite che ci servono per fare sapere che quella risposta la sappiamo e la sappiamo bene. Meglio di tutti gli altri. Ed intanto il tempo passa. E noi continuiamo a restare in silenzio. Sin tanto che. Sin tanto che torniamo al nostro posto con quell’insieme di suoni criptici non detti, ma gettati sul tavolo di una ipotetica discussione.
Ed allora mi ricordo di quell’ultima volta che incontrai Mario e le sue risposte bisbigliate, con quel fare distratto, osservando il tramonto che si spegneva sotto le mura, mentre rialzava lentamente la testa con quel suo sorriso accattivante che riusciva ad abbracciarti con un calore che solo lui possedeva e che usava ogni qualvolta che voleva fare capire, senza però dire niente. Nessuna parola. E con un filo di voce, quasi a sussurrare quel ripetere al suo passato lo sentivo mormorare “carrellino delle cure o carrellino delle torture”, chiudendo la frase senza quella risposta che tanto avrebbe voluto dare a quei personaggi che gli stavano passando davanti. E da allora continuo a chiedermi se sia logico cercare di raccontare storie che forse mi appartengono soltanto perché ne ho potuto condividere un breve tratto di strada. Un percorso quasi intimo da cui mi divedeva quasi tutto. Comprese quelle risposte che Mario non mi ha mai dato, se non quel suo sorriso sornione.